capitolo 11

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Il caffè stava ormai diventando freddo, ma nessuno dei due sembrava avere fretta di andarsene. La conversazione si era fatta più lenta, quasi come se ogni parola che scambiavamo volesse essere ponderata, scelta con attenzione. Ma il silenzio tra di noi, quello che si era fatto più denso, parlava più di ogni parola. La luce soffusa del pomeriggio filtrava dalle tende, e l'atmosfera intorno a noi sembrava sospesa, come se il mondo fosse rimasto fuori, in attesa.

Jannik guardò fuori dalla finestra, e per un attimo sembrò perso nei suoi pensieri. Poi, improvvisamente, si voltò verso di me, i suoi occhi non più come quelli di un campione di tennis, ma quelli di una persona che stava cercando di capire qualcosa, qualcosa che non riusciva ancora a definire. Eppure, in quel momento, mi sembrò di vedere in lui una vulnerabilità che non avevo mai notato prima.

«Ti ringrazio,» disse con una voce che aveva un tono diverso dal solito, più profondo. «Per avermi ascoltato. Per essere stata... presente.» Non risposi subito. Non c'era bisogno di farlo. Le sue parole erano più che sufficienti, più che abbastanza per trasmettere qualcosa che avevamo entrambi sentito, ma non ancora detto. La distanza che ci separava, prima così ben definita, sembrava ormai evaporata, come se il tempo che avevamo passato insieme non fosse più solo un'infinità di parole e gesti, ma una connessione che si stava consolidando in qualcosa di tangibile. Poi, senza preavviso, si alzò di scatto. Mi guardò, i suoi occhi fissi nei miei, e per un attimo il respiro mi si fermò. Non c'era più il Jannik pubblico, né il giornalista che scriveva sull'ennesima vittoria. C'era solo lui e me, e il peso di un attimo che sembrava destinato a segnare la fine di una fase e l'inizio di un'altra.

Si avvicinò, lentamente, come se volesse dirmi qualcosa che non trovava le parole per esprimere. La sua mano toccò la mia, e sentii il calore che si trasmetteva, come una corrente elettrica. Era un contatto delicato, ma carico di qualcosa di intenso. Io non mi tirai indietro, ma neanche feci alcun gesto che potesse accelerare la situazione. Sentivo che tutto ciò che stava accadendo era giusto così, nel suo tempo, senza forzature.

Le sue labbra si avvicinarono lentamente alle mie, e nel momento in cui ci siamo toccati, il mondo sembrò davvero fermarsi. Non c'era il frastuono del pubblico, non c'era il rumore delle telecamere, solo il battito dei nostri cuori che sembrava sincronizzarsi, seguendo una melodia che solo noi due riuscivamo a sentire. Il bacio fu leggero, quasi timido all'inizio, come se entrambi volessimo testare il confine di qualcosa di nuovo e misterioso. Ma poi, con un respiro più profondo, ci lasciammo andare. Le sue mani si posarono sui miei capelli, le sue labbra più decise, mentre il mio corpo si rilassava sotto il suo tocco, accogliendo quel momento che sembrava essere il culmine di tutto ciò che avevamo vissuto fino a quel punto.

Quando ci separammo, entrambi restammo in silenzio, ma il nostro sguardo non si distolse. Era come se il bacio non fosse solo un gesto fisico, ma una sorta di promessa, un patto tacito che entrambi sentivamo, ma che non avevamo bisogno di verbalizzare. «Non è mai facile,» disse Jannik con una leggera risata, ma il suo tono era sincero, privo di qualsiasi formalità. «Non è mai facile lasciare andare le cose che pensi di conoscere.» «Ma forse è proprio quando lasci andare che cominci a vedere meglio,» risposi, il cuore ancora in tumulto. Lui annuì, i suoi occhi che brillavano di una luce che non avevo mai visto prima. Non avevo bisogno di parole per sapere che, in quel momento, entrambi stavamo iniziando a capire qualcosa di più su noi stessi, su ciò che potevamo essere, non solo come giornalista e sportivo, ma come due persone che avevano trovato, finalmente, uno spazio dove essere semplicemente se stessi.

Il silenzio che seguì il nostro bacio non fu imbarazzante, ma piuttosto sereno, come se il mondo avesse trovato il suo posto in quel piccolo angolo di caffè, lontano da tutto ciò che ci definiva. Nessuna fretta di parlare, nessuna fretta di fare qualcosa. Solo una sensazione di pace che si diffondeva tra di noi. Jannik si staccò leggermente, ma rimase così vicino che sentivo ancora il calore del suo corpo. I suoi occhi erano fissi nei miei, e per un momento sembrò voler dire qualcosa, ma le parole non arrivarono. In quel silenzio, non c'era bisogno di parole. Sentivo che entrambi stavamo cercando di comprendere, di interiorizzare tutto ciò che era appena accaduto, di capire se eravamo pronti a fare un passo ulteriore, un passo che ci allontanasse da quel mondo che avevamo sempre conosciuto, per abbracciare qualcosa di nuovo, di più personale, di più intimo.

«Non avrei mai immaginato che sarebbe finita così,» disse infine Jannik, la sua voce bassa e riflessiva.
«Finita?» risposi, sollevando un sopracciglio, ma senza dubbio, senza paura. «Mi sembra più l'inizio di qualcosa."

Lui sorrise, un sorriso che sembrava più un respiro di sollievo che una risposta. Poi inclinò la testa, come se cercasse di capire dove stavo andando a parare, ma c'era qualcosa in quell'espressione che parlava di un'intesa che era ormai più chiara di quanto pensassi. «Già,» mormorò, la sua mano di nuovo sulla mia, questa volta senza incertezze. «Come se avessimo solo aspettato il momento giusto.»

Mi strinse la mano delicatamente, come a confermare quel pensiero. Non c'erano promesse, nessuna dichiarazione solenne. Ma sapevamo entrambi che quello che stava accadendo tra di noi non sarebbe stato qualcosa di effimero, qualcosa da relegare al passato. Era qualcosa di reale, qualcosa che, pur nascendo nel silenzio, era destinato a crescere in modo concreto.

«Cosa succede adesso?» chiesi, anche se la domanda sembrava superflua. Lo sapevamo entrambi, eppure avevo bisogno di dirlo, di farlo suonare reale.

«Non lo so,» rispose, ma i suoi occhi erano sereni, come se avesse accettato la bellezza dell'incertezza. «Non so cosa succederà, ma non voglio correre. Voglio vedere dove ci porta.»

Annuii, le sue parole mi risuonavano in testa, ma non c'era più paura, solo una curiosità profonda. La vita, con tutto ciò che ne faceva parte, sembrava improvvisamente più semplice, più fluida. Il futuro non era più una sequenza di eventi da controllare, ma qualcosa da vivere, passo dopo passo, con una leggera consapevolezza che le cose migliori spesso arrivano quando meno te lo aspetti.

«Sembra che tu stia dicendo che il tennis non è l'unica cosa che hai imparato a fare con precisione,» dissi con un sorriso malizioso.

Lui rise, ma non fu una risata vuota, era quella di chi finalmente accetta di non essere perfetto, di chi capisce che, in fondo, la vita non si gioca solo in campo.

«Questo forse è il mio miglior colpo,» rispose, e in quel momento, il nostro scambio non era più solo una conversazione, ma una danza silenziosa, un'intesa che cresceva senza bisogno di spiegazioni. La sua mano si posò sul tavolo, vicino alla mia, e io non mi tirai indietro.

Il caffè ormai era dimenticato. La luce che entrava dalla finestra si era abbassata, e la piccola caffetteria intorno a noi sembrava svanire, diventando un luogo senza tempo, dove esistevamo solo noi due.

Fu lui a fare il primo passo, stavolta, prendendo un respiro profondo e avvicinandosi ancora di più. «Non ho mai avuto bisogno di tanto silenzio prima d'ora,» disse, quasi come se fosse una confessione. «Ho sempre pensato che la vita fosse una corsa. Ma ora... ora credo che ci sia qualcosa da scoprire anche nel fermarsi.»

«Sospendere il tempo,» risposi, «per vedere cosa c'è oltre.»

In quel momento, la sua bocca si avvicinò alla mia, questa volta più decisa, ma senza fretta. Le sue labbra si posarono su quelle mie, e fu come se il mondo intero, con tutte le sue urgenze e i suoi rumori, sparisse definitivamente. Non c'era più nulla, solo noi, in quella piccola stanza, avvolti da un'intimità che cresceva in silenzio, un legame che, pur non dicendo nulla, sembrava dire tutto.

Quando ci separammo, non c'era nulla da aggiungere. Nessuna parola, nessuna domanda. Solo uno sguardo che parlava di un'intesa che non richiedeva conferme.

Eravamo lì, insieme, senza bisogno di definire cosa sarebbe successo dopo. E forse, era proprio in quel non sapere che risiedeva la bellezza di tutto ciò che stavamo vivendo.

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