IX. Pillole amare

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Quel weekend fu assolutamente il peggiore di tutti. La testa sembrava esplodermi, le mie ossa erano ancora tutte accartocciate a causa della febbre, i lividi sui polsi si scurirono così tanto che le mie braccia sembravano essere state staccate da un cadavere. Per di più mio fratello mi inviò un'email che mi fece preoccupare terribilmente.

"Ciao Reb,

spero che tu sia guarita dalla febbre. Io sono in ospedale, perciò non dire a nessuno che ti ho inviato questa email. Ho implorato un'infermiera affinché mi lasciasse usare il suo computer! Papà ha parlato con mamma e ha detto che forse non andrò a scuola a Settembre. Ora è tutto nelle mani del dottor Scott: lui dirà a papà se sono pronto ad avere "relazioni stabili" con gli altri. Cos'è una relazione stabile? Tu ne parli sempre quando discuti con Randy. Dici sempre che non sei pronta per una relazione stabile. Ma io non voglio avere una fidanzata adesso. Mi verrebbe da vomitare al pensiero di una ragazza che cerca di baciarmi!!! Comunque non farti scappare questo Adam. Ho tanti buoni presentimenti! E per le Olimpiadi puoi contare su di me: ti onorerò dei miei suggerimenti!

Divertiti e scrivimi e chiama anche a casa. La mamma dice che le manchi. Ti voglio tanto bene Reb.

Edward"

Odiavo letteralmente mio padre. Mio fratello poteva avere tutti i problemi di questo mondo, ma lo amavo, più di ogni altra cosa, e avrei dato la vita per lui. Invece al signor William Connor Wood interessava soltanto mantenere alto il nome della famiglia, l'onore, la dignità, qualsiasi cosa venisse prima dell'affetto familiare. Ancora oggi non ricordo di aver mai ricevuto una sua carezza, o di aver incrociato il suo sguardo sereno: più lontana ero da casa più lui poteva rilassarsi, e non vergognarsi di me davanti ai suoi adorati colleghi. Ma con Edward era diverso. Mio padre sapeva che non c'era una soluzione e per questo si sentiva perseguitato da un destino che secondo lui era stato crudele. Lo odiavo.

Chiamai James chiedendogli un passaggio e, nonostante la nostra ultima conversazione, fu disponibile ad accompagnarmi all'ospedale. Salii in macchina con i nervi a fior di pelle. Tirai giù il finestrino e lasciai il vento graffiarmi il volto e arruffarmi i capelli.

«Perché stiamo andando all'ospedale? Stai bene?»

«Sì, sto bene. È per mio fratello Edward.»

Mi chiese più volte se fosse qualcosa di grave, ma non me la sentivo di affrontare l'argomento, perché da lì sarebbe nata una fitta rete di informazioni sul mio conto, sul mio rapporto con mio padre, con mia madre, con tutti gli altri. E per quanto potessi reputare James un amico non mi andava di uscire completamente allo scoperto. Parcheggiò l'auto e mi seguì lungo il corridoio, fino ad arrivare alla reception; mi indicarono il reparto pediatria e mi incamminai finché trovai i miei genitori intenti a guardare attraverso la finestra che dava allo studio del dottor Scott. Mio padre si voltò al rumore dei miei stivaletti e mi guardò perplesso.

«Cosa ci fai qui Rebecca?»

«Oh mio Dio, voi cosa ci fate qui? Vuoi smettere di torturarlo? Edward non ha nulla che non va okay? È un bambino come tutti gli altri, perché devi continuare a infierire?»

Continuò a mantenere il mio sguardo, con il volto rosso dalla rabbia. Non sopportava le mie sceneggiate e puntualmente io ero lì a irritarlo. Non ricevendo alcuna risposta, aprì la porta dello studio del dottor Scott senza bussare. Edward, seduto su una poltrona, si voltò immediatamente e mi sorrise radioso; mi corse incontro e mi abbracciò, premendo la sua testa contro il mio stomaco. Il dottor Scott si lasciò scappare un risolino, mise da parte la cartella di mio fratello e si alzò dalla sua sedia.

«Tu devi essere Rebecca, vero?»

«Becky!»

«Edward stava appunto parlando di te. Diceva che sei una ragazza molto carina e intraprendente, e anche molto ribelle.»

«Mio fratello è un bambino normale, lasciatelo in pace, chiaro?»

Il dottor Scott mi sorrise annuendo, assicurandomi che non c'era nulla per cui preoccuparsi e che Edward avrebbe potuto affrontare la scuola media nel modo più tranquillo assoluto. In realtà, nonostante avesse l'aria di una persona in gamba, mi sembrò che stesse semplicemente accontentando mio padre, quasi per esasperazione. Chiesi a Edward di ritornare dai miei genitori ma, non appena quel piccoletto uscì dallo studio saltellando, mio padre furibondo chiese spiegazioni. Il dottor Scott in tutto garbo gli raccontò la verità, dichiarando però che era meglio tenere mio fratello sotto controllo una volta a settimana. Si strinsero la mano e mio padre sparì portando con sé anche Edward, senza lasciarmi neanche un secondo per salutarlo.

Il dottore mi accompagnò fuori dal suo studio, dove ad aspettarmi c'era James, appoggiato alla parete con le mani nelle tasche dei jeans. Passò una mano tra i capelli e poi salutò cordialmente.

«Non devi minimamente preoccuparti per tuo fratello e per le visite che ho stabilito settimanalmente. È solo per rassicurare tuo padre. In realtà io Edward parliamo del più e del meno, per far passare rapide le due ore. Ecco il mio biglietto da visita comunque, nel caso avessi bisogno.»

Lo ringraziai con un sorriso e andai via con James. Il viaggio di ritorno fu pieno di domande a cui mi limitai a rispondere con monosillabi senza senso. Arrivati al parcheggio James cercò di scusarsi per la sera precedente, nonostante il suo dispiacere sarebbe dovuto andare a Mark e non a me. In ogni caso avevo ormai dimenticato tutto.

Lo invitai a pranzare da me, insieme a Mark e Cameron, e quando la giornata sembrava essersi trasformata in un bel sabato assolato, qualcuno bussò alla porta del mio appartamento. Rose si precipitò ad aprire curiosa. Sentii il rumore della chiave girare e poi un silenzio tombale. L'attesa durò forse per un'ora, magari due, sembrava davvero interminabile. Ma in realtà dopo neanche un istante, vidi mia cugina sbucare dalla porta della cucina con Adam alle spalle. Un tuffo al cuore, il cervello spento, il respiro bloccato. Si alzarono tutti per salutarlo e lui ricambiò gli abbracci come un ragazzo appena tornato da una lunga vacanza. Io rimasi sul divano, dove cominciai a sprofondare, incapace di sostenere quel suo sguardo. Mi fissavano tutti ed era una sensazione orribile. Rose spezzò il silenzio con un respiro di sollievo ed invitò Adam a sedersi e a mangiare qualcosa. Non gli lasciai il tempo di rispondere, che mi alzai di scatto come se una scossa avesse appena attraversato il mio corpo; gli afferrai la mano e lo trascinai nella mia camera, chiudendo la porta a chiave.

«Perché non hai risposto alle telefonate? Perché non mi hai mai chiamata? Perché non hai dato tue notizie? Ero preoccupatissima per te. Credevo che... che tu...»

«Che potessi fare qualche sciocchezza?»

Mi lesse nella mente e io annuì senza fiato. Poi lo vidi sogghignare, quasi soddisfatto.

«Non ne vale la pena per una come te, Becky! Perché dovrei fare una sciocchezza per una persona così stupida e infantile che non vuole fare i conti con i propri sentimenti solo perché non è capace di affrontare la paura?»

Sentii il cuore salirmi alla gola e annodarsi con tutto il resto. Avevo un orribile senso di nausea. I miei occhi stavano per gonfiarsi, quando Adam si alzò e mi inveì contro, sbraitando e stringendosi nelle spalle.

«Perché non vuoi crescere? Vedi, tu stai per piangere, ma hai paura. Hai paura di far capire agli altri di essere vulnerabile come tutti gli esseri umani. Magari nessuno te l'ha spiegato ma le persone possono ferirti, ma possono anche amarti. Comincia a vedere l'altra faccia della medaglia. E ora per favore apri la porta, non voglio rovinarmi la giornata a discutere con te, davvero.»

Come un automa, lasciai girare la chiave nella serratura. Quando la porta si chiuse alle sue spalle presi il mio cuscino e cominciai a soffocare le mie urla contro la ruvida federa di cotone.

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