XII. Fratelli per scelta

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Non avevo idea a chi dovessi rivolgermi per dire grazie: avevo superato il mio test ed ero anche tra le migliori. In quelle settimane niente sembrò più fermarmi, perché ormai avevo davvero tutto. La scuola non mi preoccupava più perché ormai dovevo solo aspettare il diploma, la nostra comitiva era più unita che mai, e con Adam tutto andava a gonfie vele.

Un caldo mattino di fine maggio, dopo aver trascorso la notte insieme, mi risvegliai da sola, con il collo sudato e le lenzuola ai piedi del letto. Sentii lo scorrere dell'acqua dalla doccia e capii che Adama era già pronto a prepararsi. La sera stessa ci sarebbe stato lo spettacolo, anticipato a causa di un sovraffollamento di attività negli ultimi mesi della scuola e per la consegna dei diplomi.

Adam non era mai stato un tipo troppo mattutino, per svegliarlo bisognava spintonarlo non poco, perciò doveva essere molto agitato quel giorno. Da parte mia invece, non poteva ricevere altro che supporto morale ed energia positiva. Ero letteralmente elettrizzata.

Dal momento che era sabato e non dovevo andare a scuola, decisi di rimanere ancora un po' a letto, a crogiolarmi sotto i raggi del sole che filtravano dalla finestra. Mi rilassai a tal punto da riaddormentarmi, riuscendo a stento ad accorgermi che Adam mi stesse salutando con un bacio.

Il mio cellulare cominciò a vibrare verso ora di pranzo, con una decina di chiamate perse da Rosemary. Purtroppo non avevo un centesimo per richiamarla, così aspettai che ci riprovasse, mentre intanto decisi di alzarmi. Mi stropicciai gli occhi, infilai la prima cosa che trovai dall'armadio di Adam e mi trascinai fino in cucina, dove Mark e Cameron poltrivano sul divano guardando la tv. Aprii il loro frigo mezzo vuoto, dal momento che la prossima sarebbe stata l'ultima settimana di scuola prima della libertà e non avevano alcun motivo per cui fare la spesa. Mi consolai perciò con del tè freddo e del pane tostato e imburrato.

Finalmente Rose mi richiamò.

Lasciai l'appartamento senza prendere le mie cose, attraversai il cortile scalza, con i capelli ancora scompigliati e il trucco della sera precedente tutto sbiadito. Risalii velocemente le scale della mia palazzina, col fiato corto e il cuore in gola. Arrivata al piano bussai con insistenza alla porta dell'appartamento, prima con il campanello, poi a suon di pugni.

Rose corse ad aprirmi e mi fece entrare.

«Zia Jane ha provato a telefonarti ma mi ha detto che non eri raggiungibile! Vuoi che venga con te?»

«No, sta' tranquilla. Piuttosto chiamami un taxi mentre vado a prepararmi.»

Fui pronta in meno di dieci minuti e, quando il taxi arrivò, mi precipitai per le scale lasciando Rose sulla soglia con l'aria preoccupata. L'autista mi condusse all'ospedale di Brooklyn dopo circa un'ora di viaggio imbottigliati nel traffico della grande mela. Giunta a destinazione mi feci spazio tra i pazienti e i medici che affollavano la sala d'attesa, e chiesi informazioni alla prima infermiera che incontrai. Mi indicò il secondo piano e prenotai l'ascensore. Avevo le palpitazioni e credevo che da un momento all'altro avrebbero ricoverato me in quel posto.

L'ascensore si aprì con un suono acuto. Il reparto pediatria era come un tuffo in un cartone animato, pareti colorate, sale piene di giocattoli, bambini che scorrazzavano lungo i corridoi. Ebbi qualche difficoltà ad orientarmi, dato che la mia ultima volta in ospedale risaliva all'incontro col dottor Scott nel reparto neurologia; in più non credo di essere mai finita al pronto soccorso, se non una volta a otto anni.

*Edward aveva appena un anno e mia madre ci aveva lasciati da soli in casa con tata Mary. Era un giorno d'autunno molto piovoso, i lampi illuminavano la notte e i fulmini squarciavano il cielo. Mentre Randy se ne stava in camera sua a fare i compiti, io aiutavo la mia tata a preparare la pappa per il nuovo arrivato. Con Mary avevo un rapporto davvero speciale, per me era come una seconda mamma, nonostante la prima fosse distratta e noncurante dei suoi figli. Ricordo ancora quei pezzi di gradine che si schiantavano nel giardino come massi pesanti. Quando un lampo simulò l'alba, avvertimmo un tuono così forte da sembrare che la casa potesse crollare da un momento all'altro. Attraverso il baby monitor sentii Edward piangere spaventato, così corsi lungo le scale per rassicurarlo: se ero con lui quel piccolo fagottino abbandonava le lacrime per muovere le labbra in un sorriso buffo. Ma quel rumore fu così forte che niente riusciva a calmarlo; lo cullai, gli cantai una canzoncina, lo accarezzai, ma le sue urla erano incontrollabili. Poi, proprio come un lampo, ebbi l'ottima idea di prendere dal mio armadio un vecchio pupazzetto con cui dormivo la notte, dopo essermi trasferita dalla stanza di Randy alla mia nuova cameretta. Non essendo mai stata una cima, neanche da piccola, avvicinai la sedia con le rotelline della mia scrivania all'armadio e cercai tendere il braccio fino all'ultimo ripiano. Da quel momento ricordo solo un gran dolore sul viso, le luci del pronto soccorso e un'infermiera che mi assicurò che sarebbe andato tutto bene. Il giorno dopo avevo un nuovo naso!*

Raggiunsi i miei genitori, in attesa lungo un corridoio verde con degli elefantini colorati. Mia madre sedeva con le mani congiunte sopra le labbra quasi stesse pregando, mentre mio padre continuava a camminare avanti e dietro a grandi falcate. Quando mi videro ebbero come un sollievo.

«Com'è successo?» mi rivolsi furibonda a mia madre.

«Stava giocando in camera sua e all'improvviso l'ho sentito piangere. Sono corsa di sopra e lui non c'era, eppure continuavo a sentirlo urlare... e...»

«Ed era di sotto, con una gamba contorta.» intervenne freddamente mio padre.

Avevo sempre detto che mio fratello non aveva alcun problema, era un bambino in gamba e intelligente, ma dato la trascuratezza dei miei genitori, forse avrebbe avuto bisogno di una tata proprio come me. Tuttavia, tutte quelle che succedettero a Mary si rivelarono inaffidabili o incapaci di gestire un bambino un po' vivace come Edward. E il frutto di tanta negligenza lo aveva portato in un letto d'ospedale con un femore rotto.

Non appena il medico ci promise che mio fratello sarebbe stato meglio in pochi giorni ma con il peso del gesso da portare, mi intrufolai nella sua stanza. Edward riposava, sotto l'effetto dei medicinali, con la gamba tenuta in alto da un marchingegno da dopoguerra.

Rimasi con lui gran parte del pomeriggio, guardando di tanto in tanto l'orologio, con la paura di far tardi all'esibizione di Adam e James. Ma mio fratello era più importante di ogni cosa, ed ero certa che entrambi avrebbero capito nel caso fossi stata assente: in fondo erano gemelli ed erano legati da un sentimento speciale.

Poi Edward si svegliò, con un sorriso che sprizzava felicità. Era contentissimo di vedermi e se non fosse stato per il gesso ero certa mi sarebbe saltato al collo. Invitai i miei genitori ad entrare, così che ascoltassero meglio entrambi cosa fosse successo.

«Papà parlava al telefono con qualcuno e ha detto che ero un problema. Mi sono trasformato in Superman e mi sono lanciato dal balcone, ma forse non avevo sistemato il mantello.»

I miei occhi si voltarono come saette, scontrandosi con quelli di mio padre, impassibili. Non aveva nessun senso di colpa, piuttosto immaginai i suoi pensieri incastonarsi, con la paura di avere un figlio così bizzarro da credere di essere un supereroe. Mia madre, invece, gli strinse la mano, come se volesse difenderlo e purificarlo dalle sue parole oscene; e ancora una volta si schierò dalla parte sbagliata, mettendo avanti un uomo senza sentimenti, a discapito di una famiglia che avrebbe potuto trasmetterle affetto, se solo ce l'avesse permesso.

Quando mio fratello cominciò a sentirsi meno stanco, gli portai del gelato e gli accesi la tv sul canale dei cartoni animati. Trascorremmo buon tempo a ridere e scherzare, e insieme scarabocchiammo il suo gesso. Poi il mio cellulare suonò ed Edward capì che per me era ora di andare. Gli baciai la fronte e gli promisi di tornare presto a casa, subito dopo il diploma, cosicché saremmo partiti insieme per le vacanze estive.

In taxi pregai che il traffico evaporasse per arrivare in tempo, ma stavolta nessuno mi ascoltò. Lo spettacolo era certamente al termine, ma quando entrai in auditorium Adam e James erano proprio lì, sul palco, illuminati da luci fioche.

Gli accordi della chitarra acustica si libravano nell'aria, seguite dalla voce più bella che avessi mai ascoltato. Adam riuscì a scorgermi in fondo a tutto, rannicchiata in un angolo, e mi sorrise. E mi sbagliavo, perché quella canzone non parlava di me, ma di noi.

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