Capitolo 16

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Torno in reparto con una fitta di dolore nel cuore.
Dagli occhi, le lacrime mi scendono calde, silenziose e vanno a rigarmi le guance, a bagnarmi le labbra.
Sento il sapore salato della sofferenza, dove fino a poco tempo fa assaporavo il gusto del piacere più coinvolgente.
Non comprendo perché, ma mi ha lasciato un'altra volta sospesa nel nulla, solo che stavolta fa più male, perché abbiamo condiviso un'esperienza intima solo nostra, così coinvolgente da farci sentire una cosa sola.
O quanto meno questa è stata la mia sensazione.
Passo davanti agli infermieri e ai medici del turno di notte e non mi interessa cosa possano pensare, vedendomi in questo stato.
In camera, per fortuna tutti dormono, mentre io vorrei gridare tutta la mia disperazione, in questa notte di amore e dolore.
La sofferenza mentale è così forte da diventare dolore fisico. Sento una fitta al cuore, come se fossi stata colpita da una freccia e qualcuno avesse spezzato dentro la punta.
Ho deciso di farmi ancora più male, ma devo sapere.
Prendo il cellulare e gli scrivo semplicemente "perché" e resto a fissare lo schermo, nell'attesa di una risposta che non arriva.
Il tempo è così dilatato da aver perso ogni confine.
All'improvviso compare la scritta "on line"...attendo...attendo...attendo ancora, ma niente, neanche una parola. Sapere che adesso siamo entrambi collegati, uniti seppure distanti, acuisce il mio dolore, ma quando lo vedo disconnettersi senza una sola parola e lo storico segnala l'orario dell'ultimo accesso, il senso di abbandono torna prepotentemente a pervadermi il corpo e la mente.
Mi fanno male gli occhi, per la stanchezza ed il troppo piangere.
Mi fa male il cuore, per il dolore che mi ha procurato.
Mi fa male la testa e non ce la faccio più a pensare a lui, a noi, senza che senta incrinarsi irrimediabilmente la mia già minata fragilità.
Se fosse qui, cadrei ai suoi piedi, annullandomi ed implorandolo di spiegarmi perché mi ha fatto questo. Perché.

Crollo in un sonno senza immagini, fatto solo di luci ed ombre. E piango tutte le mie lacrime, finché non mi sento arida, come la terra del deserto salato della Tunisia, una crosta che si distende a perdita d'occhio, verso i confini della terra.
Dentro di me sento una pioggia incessante battere contro le pareti della mia fragilità.
Non riesco a trovare né cura né rimedio a questo dolore.
Mi sento sopraffatta e vorrei scappare da tutto e tutti, ma prima di tutto da quella me stessa che mi ha condotto irrimediabilmente fino a qui.
Vorrei raccogliere i pezzi del mio cuore e andare via, lontano, per cercare di riaggiustarli, ma sono così piccoli che ne rimarranno alcuni dispersi per sempre e il puzzle non sarà mai più completo. Mai.

Al risveglio, il dolore, se possibile, è accentuato dalla luce del mattino.
Per un attimo mi rivengono in mente i sogni che avevano popolato le mie notti precedenti, dove c'era ancora quella magia dell'attesa e le parole di un poeta contemporaneo che ho avuto la grande fortuna di conoscere, Walter Rossi, mi rimbombano nella testa: "forse anche l'amore è così, amarissimo al cuore e al palato, ma dolce allo sguardo e al sogno".
Ed io sento che tutto quell'amaro dal cuore ha raggiunto anche il sogno.
E non c'è più spazio, né luogo, né tempo per la dolcezza.
Vorrei poter dire qualcosa per ferirlo, come lui ha ferito me.
Vorrei poter fare qualcosa per umiliarlo, come lui ha umiliato me.
Vorrei...non so più neanche io cosa.
Vorrei non stare più così.

Stamani sia Filippo che Monica stanno in silenzio, senza chiedermi niente e sono loro così grata per questo. Non so cosa sappiano o cosa pensino. Non posso pensarci, adesso.
Sento di avere un equilibrio interno precarissimo e qualsiasi evento o parola può far crollare la mia fragile corazza.
Vado a prendermi un the alle macchinette, con gli occhi a terra, sperando di non incontrarlo, cosa che per fortuna non accade.
Vicino al bancone del reparto incontro Monica a spasso, con Matteo nel passeggino.
Mi sorride ed io inizio a piangere.
Lei mi guarda con affetto e non dice niente.
"Scusa. Non ho dormito stanotte. Mi sento un po' così" dico, mentre le lacrime continuano a scendere inarrestabili.
Rientro in camera e Filippo mi prende la mano. Non voglio piangere ancora e resto con lo sguardo basso, in cerca di quel poco equilibrio che da qualche parte tengo nascosto.
Ma poi, vedo avvicinarsi nel corridoio il carrello delle cartelle cliniche per la visita di reparto...c'è lui...il Dott. Zini.
"No. Perché lui oggi ? Non doveva essere qui" penso.
E sono così sconvolta da non notare che anche lui porta sul viso i segni di una notte in bianco.
"Scusa Filippo...ho bisogno di aria...non sto bene" balbetto e cerco di defilarmi, non vista, cosa che ovviamente non mi riesce.
Riesco almeno ad evitare il suo sguardo ed è già tanto.
Cuffie sulle orecchie, Elisa a confortarmi, scappo verso il mio paradiso, il Giardino degli Aromi e vado a rifugiarmi vicino al rosmarino.
Chiudo gli occhi e inizio a singhiozzare, sempre più concitatamente. Seduta sull'erba, le gambe raccolte e la testa sulle ginocchia, sfogo tutto il mio dolore.
Non mi interessa se qualcuno mi sta osservando. Qui è così. Si piange, all'improvviso, a volte anche senza un apparente motivo...anche solo per stress.
Nelle orecchie le note alte di Dancing mi straziano il cuore.
Mentre piango, la domanda "perché" continua a rimbalzarmi nella mente ed è proprio la mia mente che inizia a rispondermi realista e spietata "doveva andare così", "cosa ti aspettavi da questa storia?".
Le lacrime scendono inarrestabili a lavarmi il cuore e la testa, ma come l'acqua salata del mare su una ferita aperta bruciano, facendomi sentire tutto il dolore delle lacerazioni che mi hanno segnata.
Ad un certo punto percepisco una mano davanti a me. Alzo la testa, apro gli occhi e vedo un pacchetto di fazzoletti di carta. Mi levo uno degli auricolari e torno alla realtà.
"Ciao. Tieni. Fondamentali in queste situazioni" dice con tono scherzoso un ragazzo dell'età di Filippo.
"Joseph...ma va bene anche Jo" aggiunge.
Lo guardo titubante.
"Dai, sono un regalo...ma, se preferisci, diciamo prestito" conclude.
Allungo la mano per prenderli e lui li ritrae scherzando: "Allora, prestito o regalo ? Meglio esser chiari, no?".
"Prestito" gli rispondo e riesco anche a fargli un piccolo sorriso.
Mentre me li consegna: "Prestito a..."
"A Margherita" termino la frase.
"Ok, Margherita. Tieni... Però basta lacrime, perché ho un pacchetto di fazzoletti solamente".
Lo guardo triste. Non ho spazio, ancora, per altri sorrisi.
Gli occhi ed i capelli nocciola, l'aria triste che leggo negli sguardi in questo reparto.
"In visita o accompagnatrice ?" mi chiede.
"Accompagno mio fratello...si è operato alcuni giorni fa...tu, in visita?" gli domando, asciugandomi gli occhi e il naso.
"No, paziente...Mi opero domani...credo nel pomeriggio" risponde con un'aria che appare serena, ma che tradisce una legittima tensione di fondo.
"Ah...perché?" chiedo.
E mentre mi spiega di avere la stessa malattia rara di Filippo, riesco solo a rispondere con uno sguardo di comprensione, perché improvvisamente il mio dolore immenso sembra nulla davanti ai suoi problemi.
"Ma devi ancora ricoverarti?" gli chiedo, notando che è vestito da basket.
"No. Non amo i pigiami...e poi il basket è la mia passione, la mia vita.
È iniziato tutto durante una partita: ho segnato a canestro e subito dopo sono caduto a terra. Facevo alcuni passi, ma cadevo ancora. Tuo fratello è stato fortunato a scoprire di avere questa cazzo di malattia, prima di manifestarne i sintomi. Io non so ancora se potrò tornare a giocare...a camminare bene senza più cadere".
Penso che questo ragazzo ha vent'anni, ma parla e si comporta come se ne avesse di più, come se questa maledetta malattia lo avesse fatto crescere in fretta...come è stato anche per Filo.
"E con chi sei qui?" gli chiedo.
"Con nessuno. Vivo da un paio d'anni circa con i miei zii, dopo che i miei sono morti entrambi in un incidente in moto, ma mio zio ha problemi di salute e così...eccomi qui da solo" mi confessa diretto.
Resto senza parole.
"Ma...come fai da solo? Non hai neanche una ragazza che..." gli chiedo, interrompendomi, perché colgo un certo imbarazzo nei suoi occhi.
"Non sono mica solo qui? Infermieri, telecamera in camera che mi monitora, volontari...sono tutti per me" mi dice, strizzandomi l'occhio.
"Avevo una persona, prima di venire qui...ma...diciamo che non ha retto alla scoperta della mia malattia. Forse era un sentimento da uscite fuori il sabato sera, niente di più..." aggiunge.
"E tu...cuore a pezzi?" mi chiede sconcertatamente diretto, salvo poi rendersi conto di aver toccato un nervo scoperto, appena vede i miei occhi riempirsi nuovamente di lacrime.
"Scusa, sono stato uno stronzo a chiederti una cosa del genere" e lo vedo allontanarsi ed andare via.
Rimetto gli auricolari, ritrovo quella posizione raccolta in cui mi sento un po' protetta e continuo a piangere da sola. E non mi accorgo che, attraverso il vetro del corridoio, il Dott. Zini mi sta guardando, non me ne accorgo neanche quando mi si materializzano davanti Filippo e l'infermiera Maura.
"Filo..."gli dico tra i singhiozzi "ti sei alzato".
"Si, ma non c'è mica bisogno di piangere ? Non c'è bisogno di piangere per niente e nessuno", mi risponde, sottolineando con il tono della voce la parola "nessuno".
Frattanto Maura rientra in reparto, dopo essersi assicurata che stia bene e possa occuparmi di Filippo.
"Esci dal rosmarino ed andiamo a sederci laggiù. È arrivato il momento di parlare" mi dice fermo.
E mentre mi alzo dal mio rifugio, il mio sguardo si incrocia per un attimo con quello del Dott. Zini, al di là della vetrata. Ci sfuggiamo subito entrambi, ma è la frazione di secondo più intensamente dolorosa della mia vita.
E se solo fossi stata meno sconvolta, non avrei non notato che davanti a me c'era solo un uomo a pezzi.

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Un capitolo che dedico alle giornate difficili che tutti noi ci troviamo, prima o poi, a vivere.
A presto

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