uno

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Jet Black Heart, 5SOS

Un piede avanti, uno indietro, un passo dopo l'altro e le porte del treno si aprono, ma non sono ancora arrivata. È come se non arrivassi mai. Faccio le scale di corsa, non perché sono in ritardo ma perché non voglio aspettare. Aspettare mi stanca, non lo sopporto, quindi preferisco arrivare a boccheggiare fuori le porte della metro che appena arrivo si chiudono davanti a me e il treno sfreccia via, lasciandomi ancora una volta disillusa e prendendomi in giro su quello che sono. E allora aspetto, perché non posso fare altro.

La musica mi risuona nelle orecchie e due canzoni sono già andate quando il prossimo treno mi si ferma davanti; le persone dietro di me che spingono per entrare prima di chiunque altro. Ma io non ci faccio neanche caso, persa come sono. Li sento ma non dico niente, non lo faccio mai. Li guardo e forse dentro di me li giudico anche, ma sono stanca anche per pensare a loro. Sono in piedi, le dita avvolte intorno al metallo per sostenermi e l'ennesima canzone che si ripete nella mia mente. Sono consumata e i miei pezzi sono insieme perché devono starci.

Una sola fermata: le porte si aprono e scendo dalla metro con le mani nascoste nelle tasche e i capelli legati disordinatamente anche se la giornata è appena iniziata. Vado verso le scale e salgo anche quelle. Sono fuori; l'aria pungente e fredda mi colpisce in volto ma mi riprendo subito. Sorpasso quasi tutte le persone che mi sono davanti, non mi è mai piaciuto camminare lentamente e perdermi in cose di cui posso fare a meno.

La strada è dritta davanti a me, ed è la stessa che percorro ogni giorno senza neanche pensarci, quella che ho imparato a memoria. Corro al semaforo anche se è il mio turno di passare, poi ci sono altre scale tutte in salita. L'imponente struttura si innalza davanti a me: ci sono ragazzi seduti che fumano la loro sigaretta prima delle lezioni, ci sono quelli che parlano, quelli che sorridono anche se è lunedì e fa schifo, e poi ci sono io, indifferente a tutto.

Non sono mai stata la prima della classe a scuola. Mio fratello è sempre stato più bravo di me, è lui quello che porta a casa le soddisfazioni di aver ottenuto il massimo ad un compito difficile e non io, che ho sempre portato risultati minimi anche a dei compiti semplici. Ci bilanciamo.
Non sono mai stata la prima in molte cose, forse non lo sono mai stata in niente e credo di non esserlo neanche mai stata per nessuno. A volte credo di non esserlo neanche per i miei genitori.

Solo che l'università è diversa. È diversa dai banchi in fila del liceo, dalle aule e dalle sedie, dalle persone che mi vivevano intorno. Un po' l'avevo immaginata in questo modo, ma non avevo immaginato che io sarei cambiata così tanto durante i tre mesi che mi dividevano dall'inizio di tutto questo, come se fosse una seconda possibilità. E così è stato. L'università è una possibilità, ma non sono sicura che io la stia vivendo come dovrei, come una vera seconda possibilità.

Non mi sono mai piaciuti i cambiamenti, e ne ho vissuti talmente tanti che non riesco neanche a ricordarli. Ma non li vivo più nel modo in cui facevo prima. Semplicemente non li vivo. È più semplice in questo modo, ed è più semplice se ti ritrovi contro le spalle delle altre voltate in una direzione opposta rispetto alla tua.
È questo che c'è dietro di me, soltanto direzioni opposte. Ognuna è una persona che è uscita dalla mia vita troppo presto, qualcuno che non è rimasto o che non è voluto rimanere, qualcuno che io ho spinto via.

Vado verso le prime file, l'aula non è più piena come i primi giorni. Non riesce ad essere occupata neanche per metà, perché troppe persone hanno deciso che restare non fa per loro.
Mi siedo in seconda fila, ultimo posto verso l'esterno. Forse sono un'abitudinaria, o forse il discorso sui cambiamenti sarà riaperto come una cicatrice che non si è risanata del tutto, ma non riesco a spostarmi da qui.

La fila si riempie, Paula mi raggiunge e si siede lasciando un posto vuoto tra me e lei. L'ho conosciuta il primo giorno, lei scende due fermate dopo di me in treno. Le prime volte siamo venute insieme, alcune ci siamo aspettate, adesso fingiamo soltanto durante il ritorno a casa.
Saluta animatamente le ragazze della fila dietro di noi e quelle appena arrivate, che si siedono nella nostra stessa fila ma che non lasciano nessun vuoto da colmare. Io resto con lo sguardo sul libro che ho tra le mani, sulle gambe piegate contro il banco. Le loro parole mi fanno da sottofondo insieme alle loro risate, ma non sento quello che dicono.

Paula conosce più persone in quest'aula di quante io ne abbia conosciute in tutta la vita. Ha iniziato a prendere le distanze da me quando si è resa conto che non riesco a stare al suo passo, che non riesco a ottenere il massimo a tutti gli esami come lei. Quando si è resa conto che a me non importa conoscere gente nuova, che non mi importa cercare qualcuno che mi voglia, perché so cosa significa essere respinti e perché per troppo ho cercato senza mai trovare niente.
Lo vedo come si comporta con le altre, e lo vedono anche gli altri. Ma a me sta bene. Non la conosco davvero per giudicarla al di fuori di quest'aula perché non abbiamo mai condiviso niente che non riguardasse quello che succede tra queste mura. Lei non ha mai accennato a niente su di lei, e lo stesso vale per me. Siamo pari sullo stesso livello, e va bene anche questo.

Le lezioni iniziano, poi ricominciano ancora e finiscono, e io sono soltanto lì a scrivere quello che il professore dice. Non intervengo, però ci penso. Penso a tante cose mentre le parole si perdono nell'aria, ma tengo tutto per me. Penso a quello che dovrò ancora fare anche se sono quasi le cinque e fuori il sole sta calando, perché la mia giornata non è finita come quella della maggior parte delle persone in quest'aula. Non lo è per niente, solo che loro non lo sanno.

Raccolgo velocemente le mie cose e tengo il cellulare in una mano e nell'altra l'abbonamento della metro, con la mia foto scura stampata sopra. Mi scontro con qualcuno mentre scendo le scale, alcuni mi chiedono perché io sia sempre così di fretta.

«Perdo il treno», rispondo ogni volta, ma loro non imparano mai, e le prime mi dicevano «Puoi prendere quello dopo», poi hanno smesso. Non so se l'hanno fatto perché hanno capito che quello dopo io non voglio prenderlo se posso prendere questo, perché ho già perso troppo. Ma a me non interessa ciò che pensano, non più. Non devo loro nessuna spiegazione, perché non fanno parte della mia vita come io non faccio parte della loro.

Perché alla fine lo so che loro parlano comunque, che commentano il modo in cui sono vestita o quello in cui mi comporto, sempre così fredda e distaccata, ma a me continua a non importare, perché loro non posso conoscere me se io sono la prima a non conoscere me stessa.

𝐔𝐓𝐎𝐏𝐈𝐀 [𝐇𝐚𝐫𝐫𝐲 𝐒𝐭𝐲𝐥𝐞𝐬]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora