cinque

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Therapy, All Time Low

Oggi è domenica e io vorrei soltanto poter scappare. Vorrei non dover restare tra queste mura, vorrei potermi svegliare che è già lunedì, perché io lo so cosa succede la domenica. La domenica si crolla, solo che i pezzi che si perdono sono di più. La domenica so già come va a finire, so già che forse non finisce, che sarà infinita come tutte le altre.

La domenica crolliamo tutti, per questo i pezzi sono di più. Non riusciamo più a tenerci insieme, e c'è chi lo dimostra di più e chi lo dimostra di meno. Chi il rumore dei pezzi che si infrangono contro ogni singolo muro di questa casa riesce ad attutirlo in qualche modo, a nasconderli ancora un po'.

Per questo chiamo Eve, per attutirli e per non crollare ancora, perché altrimenti sarebbe troppo tardi. Perché io miei pezzi non ce la faccio a tenerli insieme da sola.

Non so esattamente quando tutto ha iniziato a crollare. Non so in quale momento sia successo, e non sono sicura neanche sia successo, perché forse in piedi non ci siamo mai stati per davvero. Forse è da tutta la vita che fingono, che continuano a credere di potersi salvare.

Non posso negare di aver avuto una bella infanzia. Ho avuto una madre e un padre quasi costantemente, e non ricordo di qualcosa che mi abbiano mai fatto mancare. Quando avevo cinque anni non sono più stata sola. Ho dovuto imparare a condividere, a rendermi conto che non potevo più essere io al centro dell'attenzione di qualcuno che doveva dividere la sua tra due figli.

È stato dopo, probabilmente, che le cose sono cambiate, o forse è sempre stato così e io ero semplicemente troppo innocente per rendermi conto di quanto tutto intorno a me stesse iniziando a frantumarsi. Lentamente, senza fretta, poi il colpo di grazia. Quello finale, quello che ti distrugge e che ti demolisce in una volta sola.

Non ricordo nemmeno il momento esatto in cui me ne sono resa conto, so soltanto che è successo e che non posso cambiarlo. Per un po' ci ho creduto davvero che le cose sarebbero cambiate, che potevamo ancora salvarci. Adesso so che non è possibile, che non possiamo. E forse la colpa non è di nessuno, forse è di tutti, ma questo non importa neanche.

Esco senza dire niente, tanto a nessuno importa davvero. Esco e cammino, perché la metro la domenica non ce la faccio a prenderla, non ci riesco proprio. Tanto prima o poi arrivo lo stesso, e lei è già lì.

Mi siedo su quel muretto consumato vicino a lei e piego le ginocchia portandomele al petto. Eve mi guarda ma non dice niente e io non dico niente a lei, perché non ce n'è ancora bisogno. Perché lei sa quello che succede la domenica.

«Devo dirti una cosa» poi dice, e io mi volto verso di lei. «Io e Francis siamo tornati insieme» continua, i suoi occhi verdi incontrano i miei.

«Davvero?» le domando accennando un sorriso e aspettando la sua risposta. Eve annuisce, allora io sorrido di più.

«Non riuscivamo più a stare lontani, tanto non lo siamo neanche mai stati per davvero.» Le sue parole le conosco bene, hanno un senso che va capito, un significato più profondo segnato da qualcosa che non si può cancellare.

«Te lo meriti, Eve» le dico. «E ne hai bisogno.»

Eve annuisce ancora, il sorriso è anche sulle sue labbra. Poi si sporge e poggia la testa sulla mia spalla, avvolgendo un suo braccio intorno al mio. L'aria è più fredda ma stiamo bene, siamo qui e anche questo va bene. Va sempre bene quando ci siamo noi, e anche inconsapevolmente, anche se non mi spinge a dirle niente che non voglia dire, riesce sempre ad attutire il rumore di quei pezzi un istante prima che si infrangano contro la superficie.

«Promettimi che ce la farai» sussurra poi, ancora con la testa sulla mia spalla. L'erba intorno a noi è umida e le luci del tramonto si intravedono all'orizzonte. So quello che mi sta chiedendo, ma è in questo modo che succede. Che poi ci salviamo.

«Ce la facciamo sempre» le assicuro, e ogni volta che lo dico sembra davvero possibile.

Quando torno a casa è tardi, forse neanche così tanto o forse io non riesco più a distinguere troppe cose, ma comunque neanche questo importa a qualcuno. Non la domenica. Quando torno c'è silenzio, e io non mi aspetto più niente ormai. Non mi aspetto di trovare tutti quando oltrepasso quel corridoio, perché so che alcuni pezzi potrebbero mancare anche se in realtà non ci sono da tempo.

Non mangio niente, mi chiudo soltanto in quella stanza che non è nemmeno davvero mia e mi ripeto che un'altra settimana è passata. Che forse questa domenica può finire qui per oggi, che l'abbiamo superata anche stavolta anche se credevamo di stare al limite. Ci avviciniamo ogni volta ma non lo oltrepassiamo mai. Quasi sorrido per quanto tutto sia così paradossale e costruito su castelli di carta in questa famiglia. Una famiglia che forse è esistita per davvero, ma che poi ha smesso di esserlo già da tanto. Forse ha smesso prima ancora di diventarlo. Basterebbe soltanto rendersene conto, smettere di fingere una volta per tutte.

Mia madre entra nella stanza mentre io sono sul letto con le gambe incrociate e un libro tra di esse, una matita tra le dita e una tra i capelli.

«A che ora torni domani?» mi domanda, le braccia incrociate al petto e gli occhi stanchi. È stata domenica anche per lei.

«Non lo so, ho un esame tra due giorni» le rispondo senza neanche guardarla e scrollando le spalle.

«Ti aspetto?» continua, la voce più bassa del solito. Io lo so come si sente, lo so che non sta bene. Nessuno sta davvero bene in questa casa, ma non mi incrino più come una volta, non sono la stessa Mia di tre anni fa. Solo che devo ancora capire se sia una bene o un male, se andava meglio quella Mia o quella di adesso. Quella che si incrinava per niente o quella che finge di non farlo per niente.

«Ti faccio sapere, va bene?» replico, perché non so cosa risponderle per davvero. Il dolore nei suoi occhi lo leggo ogni giorno anche se lei tenta di negarlo, perché tanto lo neghiamo tutti.

Lei annuisce e mi sorride debolmente, e questa volta io non riesco a non ricambiare. Perché qualche volta mi incrino ancora, e la donna che ho davanti è semplicemente stanca e distrutta da una vita che non ha scelto di vivere.

«Buonanotte, Mia» mi dice alla fine, prima di uscire dalla stanza e chiudersi la porta alle spalle.

«Buonanotte, mamma» sussurro, anche se lei forse non può neanche sentirmi.

𝐔𝐓𝐎𝐏𝐈𝐀 [𝐇𝐚𝐫𝐫𝐲 𝐒𝐭𝐲𝐥𝐞𝐬]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora