27. Ends with the sea

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«Allora vieni», disse piano. Io avevo già richiuso le palpebre per il sonno. «Scusami, a volte parlo senza collegare il cervello alla bocca...» sospirai. «Questo è il punto, purtroppo non si parla di cervello.» «Buona notte, Jake.» Aprii lo sportello e montai giù dal pick-up. «Hai ragione. A volte starti accanto vuol dire autoledersi.» «Allora dobbiamo solo imparare a stare distanti. Grazie del passaggio.» Lo sbattei ed insonnolita, in mezzo al vento di quella sera, raggiunsi lo studentato femminile. La mia testa era un turbine di pensieri. Non avevo neppure saputo da Cage cosa fosse successo a mia madre. Non avevo idea di come comportarmi, cosa fare. Ma sapevo che non volevo sentirla, mi aveva presa in giro, mi aveva fatto credere che le interessava recuperare il nostro rapporto. Ero stata una stupida a pensare anche solo per un istante che era cambiata. Era un mostro imperdonabile. Quando rientrai in stanza, non trovai né Julie né Amber. Per il mal di testa mi sembrava di aver infilato la fronte in un tritacarne. Tolsi i resti di trucco e priva di forze mi gettai a letto. Il sonno prepotente stava avendo la meglio, lì, tra le coperte calde... Il cellulare iniziò a suonare ed io credendo che fosse la sveglia sobbalzai. «Ma che diavolo...» Mi strofinai gli occhi e sbuffando afferrai il cellulare. «Pronto?» dissi con voce roca. «Già dormi?» «Jake? Che vuoi?» espirai, gettando la testa sopra al cuscino. «Hai distrutto il cuore di mia sorella quando sei andata via.» «Ma che ore sono?» «Le tre...» «Le tre?» urlai. Controllai all'orologio della stanza, il lettore segnava in blu acceso le tre e quarantacinque minuti. «Lo sai che domani ho scuola? Ed ho sonno?» «Io domani non ho corsi e non ho sonno.» «Mi dai almeno una ragione per non attaccarti in faccia?» «Mi ami?» Io risi e scossi la testa. «Buonanotte.» «Aspetta. Io ti amo. Questa era abbastanza valida?» «Che vuoi? Sono veramente stanca...» «Voglio venire nella tua camera.» «Sei a casa tua?» chiesi accigliata. Mi misi su di un fianco, con il cellulare tra la guancia ed il cuscino. «No.» «Perché?» «Perché no.» «Perché no?» Lui rise e sospirò. «Non iniziare ad essere pesante.» «Io non sono pesante, sei tu che mi hai chiamata», ribattei. Sentii dei colpi secchi alla porta. Un brivido mi scese fino alle punte delle dita dei piedi. Mi voltai lentamente, ed osservai che nella striscia di luce tra il pavimento e la porta c'erano le ombre delle suole di due scarpe. «Sei tu?» chiesi ansiosa. «L'amore della tua vita? Sì.» «Sei tu alla porta?» ripetei, sentendo la gola stringersi quando un altro pugno la colpì. Allungai lo sguardo verso il letto di Julie, e poi su quello di Amber. Entrambi vuoti. «Jake? Vieni, per favore. Vieni adesso», sussurrai. Il mio cuore batté così forte che lo sentii pulsare in gola. Avevo paura di muovermi, di respirare. «Calma, sono io.» Il fascio di nervi che ero diventata si sciolse in un istante. «Potevi dirmelo senza che morissi di paura, no?» accusai. «Aprimi.» Feci per mettermi in piedi ma una gamba si incastrò all'altra e, generando un tonfo, caddi a terra come un sasso. «Ahi!» gemetti ad alta voce. «Che è successo?» chiese allarmato, al di là della porta. «Sono caduta.» «Hai fatto un buco nel pavimento? Si è sentito fino a qui.» Lo sentii ridere. Feci leva sul braccio per rimettermi in piedi e zoppicai fino alla porta. Afferrai la maniglia. Scoppiò a ridere più forte, si appoggiò allo stipite, piegato in due. Lo guardai confusa. «Se mi trovi così buffa vattene.» «Scusa... Scusa», riprese aria e con un sorriso beffardo entrò in stanza. Si gettò sul mio letto e stropiccio il mio cuscino tra le mani. Aveva lasciato una scia dell'odore del suo dopobarba. «Solo che hai... Ti dovresti guardare allo specchio.» Come un beduino nel deserto che avvista l'acqua mi fiondai nel bagno. Accesi la lampadina e... Oh mio Dio. La punta del mio naso e le mie guance erano rosse almeno quanto le mie labbra. E non era una cosa bella, no. Non lo era affatto. Per non parlare dello chignon grande più della mia testa che penzolava dalla cima del mio capo spettinato... La maglietta di Winnie The Pooh. Proprio quella avevo dovuto pescare dal cassetto qualche ora prima? «Mi ti farei anche così, no problem», disse dalla stanza. Il rossore alle mie guance si intensificò. Tornai di là e rispensi la luce. «Si chiama rosacea, studi medicina, non ti dovrebbe far ridere così tanto» lagnai. «Le tette strette nella maglietta di Winnie The Pooh che mangia il miele sono così...» «A cosa devo questa tua invasione domestica mentre dormivo beatamente?» lo interruppi, raggiungendo il mio letto. Incrociò le braccia dietro alla nuca, facendo sollevare la t-shirt fino alla zona degli addominali bassi. Poi si resse su un gomito e mi sciolse lo chignon dalla testa. «Chi è J?» Fu come se un treno sfrecciando alla massima velocità, avesse appena distrutto un rigoglioso campo di girasoli con le rotaie. Rimasi di stucco. Simon, doveva essere stato Simon. «J? Mmh... Non mi dice niente.» Il suo sguardo era piuttosto serio e la sua espressione arcigna. «Perché non me ne hai parlato?» D'un tratto sembrava arrabbiatissimo. «Scusami tanto se non avevo voglia di chiamarti mentre eri a Cambridge a fare chissà che cosa e magari farmi anche trattare male da te!» Afferrò il mio cellulare che era rimasto appoggiato sulle coperte. Capii cosa stesse facendo. «Settembre? Ti scrive da settembre, Lexie, settembre!» gridò. «Perché non hai paura di niente? C'è qualcosa che ti sfiora almeno un po'? Un tizio ti tempesta di messaggi e ti vuole entrare in casa e tu lo ignori?» sfiatò. «Sono stupida, chiaro, adesso basta.» «No, non sei stupida. Non hai paura di nulla, e questo mi preoccupa.» Turbato scattò all'in piedi e andò verso la porta. «E tu ogni volta che vedi qualcosa che non va in me te ne vai! Ti arrabbi e basta, ma non sei disposto a fare nient'altro.» «Che vuoi che faccia? Tu non hai voglia di vivere, sai quanto è penoso essere innamorati di una persona che non ha voglia di vivere? Che la mattina devi obbligare a svegliarsi, obbligare a fare colazione... Caricare in spalla e portare in classe per paura che lei scappi e torni nel suo letto?» Inghiottii aria. «Uau, stare con me doveva essere davvero la cosa peggiore del mondo.» «Non l'ho mai detto!» Scosse la testa e spalancò la porta per poi sbatterla con tutta la forza. Mi presi la testa tra le mani e mi avvolsi di nuovo nelle coperte. Chiusi gli occhi, sperando che fosse stato solo un sogno. Ma sentendo l'odore che aveva lasciato nel mio letto era impossibile. Mi rigirai nel letto almeno sei volte, Jake aveva ragione a dire che io non avevo voglia di vivere? Non credevo che fosse così. Io amavo scrivere, leggere, disegnare. Amavo il mare, i gatti... I gatti? Uau, certo, amare i gatti sta sicuramente a significare che hai voglia di vivere. Scossi il capo e affondai la testa nel cuscino profumato. Forse aveva ragione... Forse a volte non ero molto vitale e capivo quanto ciò lo potesse far star male. Come sarebbe la mia vita se vedessi la persona che amo soffrire in continuazione? Essere triste, scontrosa, svogliata? Sarei abbattuta, angosciata. Mi sentirei terribilmente giù di morale. Un raggio di luce mi illuminò il volto ed io sofferentemente aprii un occhio dietro all'altro. Julie spostò le tende. «Com'è andata? Non dirmi che avete fatto sesso anche questa volta», esordì, sedendosi sul mio letto. «Male, è andata malissimo.» «Malissimo perché non avete fatto sesso?», chiese lei impertinente. «No!»
Rise e si alzò in piedi. «Abbiamo un test... Indovina indovina? Psicologia! E domani biochimica, lunedì fisica, e martedì il pratico.» In un attimo mi invase d'angoscia. «La pratica avrà valore d'esame?», chiese Amber sconvolta. «Già», rispose Julie sospirando. «Che importa... Potrai studiare a memoria anche tutti i libri di medicina, ma ciò non cambierà il fatto che o sei miracolato da Dio, oppure no», dissi pessimista, mettendomi in piedi. «E allora come spieghi tutti quelli con la media del trenta nelle altre Università?» chiese Julie, frugando nel frigo. «Appunto, sono in altre università. Hai mai visto alla Kingstom qualcuno con la media del trenta? Lascia perdere me al primo anno.» Lei rifletté e poi scosse la testa. «E secondo te è perché siamo tutti teste bacate o perché i trenta se li prendono solo i figli di importanti chirurghi o psichiatri che hanno pubblicato un milione di ricerche scentifiche?» «Direi la seconda», rispose scrollando le spalle. «Tu sei figlia d Richard Bristol», considerò Amber. «Chi più di lui può aiutare nella carriera da medico?», chiese. «Ero sua figlia. Strano che Fields, la Sheperd ed Edwards non facciano più i lecchini con i loro smielati e falsi complimenti ai colloqui. Nessuno può più raccomandarli per il New York Central Hospital.» «Tu credi che sia così?» chiese Julie sbaordita. «Purtroppo è così che funziona il mondo», dissi costernata. «Evans non ha smesso di farti una valanga di complimenti», osservò Amber. «Evans pensa che in un futuro farò la strizza cervelli... Dovrebbe capire che di folli nella mia vita ne ho avuti abbastanza.» «Fatto sta che non ha smesso di credere in te», considerò Julie. Io la ignorai e andai a lavarmi in bagno. Ci sedemmo in un tavolo fuori dalla mensa con Drake. Se qualcuno gli avesse dato fastidio un'altra volta se la sarebbe vista con me, ed ero abbastanza subdola da capire come raggirare un gruppo di imbecilli. Drake e Julie confabulavano sullo status della mia relazione amorosa e proprio in quell'istante, Jake passò con Simon alle loro spalle. Mentre Simon gli parlava mi lanciò un'occhiata che non potei non ricambiare. Come le odiavo quelle occhiate, non capivo mai cosa volessero dire, mi facevano solo battere forte il cuore e andare in tilt il cervello. «Lexie! Mi stai ascoltando?» disse Drake dandomi una gomitata. Poi si voltò per vedere dove terminava il mio sguardo, e fece un sorriso sghembo. «Che occhi», osservò. «Già», disse Amber mordendosi il labbro. Gli rivolsi uno dei miei sguardi più logori, e lei intimidita abbassò lo sguardo. «Quegli occhi sono off limits», chiarii. «Non puoi pretendere che rimanga a penderti dalle labbra per tutta la vita, prima o poi avrà un'altra ragazza se non ti dai una mossa», ridacchiò Julie mordendo un cornetto. La folgorai con lo sguardo. «Okay, okay. Come vuoi», rise lei. «Stasera parto... Ciò vuol dire niente test di biochimica domani», dissi vittoriosa. «Fottiti, tu e i tuoi processi sulla mamma pazza», borbottò Drake. Mi tornò alla mente la chiamata con Cage della sera precedente. «Siamo in ritardo», disse Julie alzandosi in piedi. «Siamo con i specializzandi. E indovina un po' a chi ti hanno assegnata?» chiese con un sorrisetto. «A chi?» dissi annoiata. Morsi una ciambella. «Bristol», rispose divertita. Wow, lezione da mio fratello, non vedevo l'ora di ascoltare un'altra delle sue prediche sul sesso protetto e sulle droghe. Ci affrettammo per raggiungere l'ospedale entrando dal pronto soccorso, e ci dirigemmo per gli spoiatoi. Mi cambiai la maglietta e indossai quella dell'ospedale con l'etichetta del mio nome per intero. «Il lembo si fa passare da una parte e... Bristol, mi ascolti?» chiese Jonas, fermandosi dal ricucire la faccia di un ciclista che si era appena schiantato contro un muro. «Sì, la ascolto, Bristol», dissi inacidita, solcando l'ultima parola. «Bene, Bristol», ripeté con un finto sorriso. Gli feci una smorfia e prima di tirare fuori il dito medio sentii chiamare alle mie spalle: «Bristol!» «Sì?» rispondemmo io e Jonas all'unisono. Voltandomi vidi Evans con un caffé in mano. Mi lanciò al volo una cartella clinica, e subito dopo il caffè che per poco non mi cadde a terra. «Voglio la piccola. Tu vedo che hai da fare», disse a Jonas. Io espirai e lo seguii. «La paziente ha quarantasei anni, è stata ricoverata in psichiatria altre tre volte. Pensieri confusi... Cambiamenti estremi dell'umore, distacco dalla realtà, paranoie, alluccinazioni, autolesionismo. Va sottoposta ad un esame fisico, controllo della funzionalità tiroidea...» Salimmo nell'ascensore. «Screening per alcol e droghe e valutazione psicologica», continuai io. «Hai studiato per il mio test, vero?» chiese guardandomi attraverso gli occhiali. Si riprese il caffè e sorseggiò. «No», dissi sfacciatamente. «Oggi pomeriggio ho la febbre, avvisa i tuoi colleghi. Il test è rimandato alla prossima settimana». Rimasi sbigottita. Mi sarei aspettata tutte le reazioni meno che quella. «Non deve fare questo per me», dissi scuotendo la testa. «Non lo faccio per te. Lo faccio perché sono un tuo professore e detto io le regole.» «Mah», pensai ad alta voce. «Nel frattempo ti assegnerò un tutor. Salta da pagina 55 a 97, non mi interessa. Da 109 a 130, 167 a 199. Il resto lo pretendo alla perfezione. Chiaro?» «Chiaro», dissi lentamente, un po' confusa. La porta dell'ascensore si aprì. «McCall, capita proprio a pennello.» Sussultai e sollevai lo sguardo verso di lui. «L'anno scorso quasi le seguiva le mie lezioni. Quanti test ha questa settimana?» Lui rifletté.
«Tre, professore.»
Evans sbuffò. «Non importa, tanto va bene. Faccia da tutor a questa povera fanciulla che ha totalmente smarrito il desiderio di studiare. Venerdì prossimo avrà un esame. Le domande sono le stesse che ha avuto nel suo test l'anno scorso, mi raccomando.» Non solo mi aveva detto le pagine da studiare, aveva spostato un test per me e mi aveva trovato un tutor per gli studi, ma mi stava anche dicendo le domande che avrebbe messo! Jake perplesso annuì. «Certo.» «Sa, professore, sono perfettamente in grado di studiare da sola... Il punto è che non ne ho la minima vogl...», cominciai. «Sta' un po' zitta», mi interruppe Jake, poi trasalì ricordandosi della presenza di Evans. «Bene. Vedo che ci intendiamo», gli disse il professore. «Non possiamo studiare insieme, tu avrai da studiare per i tuoi esami, non hai il tempo di seguirmi...» obiettai. «Non mi importa dei vostri stupidi inciuci amorosi, per piacere. Studia e basta. Non c'è alternativa», disse Evans perentorio, uscendo dall'ascensore. Contrariata lo seguii, e Jake entrò dentro. Evans camminò per il corridoio davanti a me e poi si fermò difronte alla camera numero centosei. «A cosa servo precisamente?» domandai. Afferrò la maniglia. «La paziente è particolarmente irritabile e scontrosa, rivolgiti a lei con gentilezza e chiamala per nome. Odia essere chiamata "paziente"», preannunciò. «Per farlo dovrei almeno sapere come si chiama...» Evans spalancò la porta. «Signorina Bristol, lei è Caren Hamilton, la nostra paziente».
Non concepii le sue parole finché non la vidi fumare rivolta alla finestra, di spalle. Si voltò. Aveva i capelli meno ordinati del solito, lo sguardo spento, le occhiaie più evidenti, e la camicia da notte ospedaliera. «È uno scherzo?» dissi paralizzata, con gli occhi sbarrati. Evans entrò in stanza e si avvicinò a mia madre, che nel frattempo si era voltata verso il verde al di là del davanzale. «Come si sente stamattina Caren?» domandò, con un sorriso che mai gli avevo visto indossare. Mia madre mi guardò negli occhi, e non sembrò neppure riconoscermi. «Bene, benissimo», rispose lei con nessuna espressione in viso. Raggelai. Che cosa le era successo adesso? Era un ritorno al passato che non cercavo affatto. «Oggi abbiamo la valutazione psicologica, ricorda?» chiese, buttando un occhio impertinente su quella sigaretta. Lei ciccò fuori, e dopo un altro tiro la spense. «Mi dimetta. Mia figlia mi aspetta a casa», disse lei annoiata, rimettendosi a sede sul lettino. Mi sentivo così invisibile. «Prima iniziamo prima finiamo.» Le mie gambe andarono sole verso il corridoio. Ma cosa pensava di fare Evans? Cosa pensava di sapere di me? Di potersi immischiare in faccende private in questa maniera? Quando camminavo a passi spediti verso l'ascensore, lui con uno strillo mi fermò. «Torna subito indietro!» A quel punto mi voltai. «Non torno in quella stanza, che se lo scordi, vada a farsi fottere, lei, il suo stupido test, la sua finta febbre, il suo finto interesse, la sua stupida e inutile materia! Non sa niente di me, la deve smettere di farsi gli affari miei in questa maniera!» Le parole presero il via da sé. Mi guardo sbigottito. «Cosa hai detto?» ripeté, incredulo. «Vada a farsi fottere! Non assisterò alla valutazione della sanità mentale di mia madre, non ho intenzione di passare nemmeno un minuto con lei. Non sa di cosa parlo, lei non sa cosa c'è dietro!» sfiatai ancora. Ora, era addirittura più allibito se era possibile. «Tua madre?» chiese, corrugando la fronte. «Vuole farmi credere che è una pura casualità? Che non sapeva che la paziente era mia madre?» urlai incredula. «Avete dei tratti psicologici....» «Non abbiamo gli stessi tratti psicologici! Io non sono pazza, né esaurita», strillai. Fece dei passi verso di me e si mise gli occhiali sul capo. «Si chiama depressione», disse costernato. «Non follia, non esaurimento, non cancro, e spero non si tratti neppure di gravidanza. È solo ed unicamente depressione. Hai manifestazione di sintomi fisici perché è così che la depressione mascherata di presenta; disturbi digestivi, allucinazioni, dolori muscolari, stanchezza persistente... Il paziente e chi gli è intorno non ne sospettano. Ma è un disturbo dell'umore. E non puoi ignorarlo. E io non posso ignorarlo. Sono il tuo professore ma sono anche uno psicologo, e tu sei una paziente del mio reparto, da questo momento.» «Non sono depressa», obiettai incredula. «È il mio lavoro da trent'anni», ribatté fermo. Premetti il tasto dell'ascensore scuotendo la testa. «Non mi sottoporrò a delle sedute, e non prenderò nessun squallido antidepressivo o psicofarmaco per diventare una specie di zombie senza emozioni. Sto meglio così», dissi secca. Prese un'ampia boccata d'aria, contrariato. «Le sedute con me non funzionano, ci ho già provato.» «Alle tre nel mio ufficio. Ti aspetto.» Prima che potessi ribattere si era spedito nella camera di mia madre ed aveva chiuso la porta alle sue spalle. Io salii in ascensore e tornai dal gruppo di tirocinio al piano di sotto. «Che ti ha fatto fare?» mi chiese Jonas. «Una breve riunione di donne di famiglia, diciamo così.» «Che vuoi dire?» «Mamma è ricoverata al piano di sopra», confessai. Lui sbarrò gli occhi. «Sul serio?» chiese sconvolto. «Lavori qui. Non l'avevi vista?» «Non sono uno specializzando in psicologia.»
Jonas prese e se ne andò. Sperai solo che non la volesse davvero raggiungere.
Le ore di lavoro previste per quella giornata terminarono. Con Julie e Drake mi diressi verso la mensa ospedaliera e mi imbattei in Cage nel mezzo dell'ingresso. Feci finta di non averlo visto, ma lui mi frenò, costituendo un ostacolo tra me e il tavolo dove volevo sedermi. «Ehi», sorrise. «Ciao», dissi schiva. «Sei venuta alla fine», constatò. «Non sono qui per lei», chiarii seccamente. «Non voglio infastidirti... Ma che ne dici di fare due chiacchiere più tardi?» Io per congedarlo annuii, e finalmente, dopo avermi accarezzato la spalla, si allontanò verso le scale che portavano al piano superiore. Sospirando mi sedetti al tavolo e iniziai a mordicchiare una forchetta. «Sei strana oggi», osservò Julie. Amber con il suo vassoio ci stava raggiungendo. «Non la sopporto», borbottai. «Solo perché ti da fastidio che lei e Jake si lancino strane occhiate», ridacchiò. Io sollevai le sopracciglia e allargai le palpebre. «Primo, Jake non la guarda. Secondo, lei non lo guarda se non vuole morire giovane. Terzo, lei sta con Travis. Quarto, a me non darebbe fastidio.» «Hai appena detto che morirebbe giovane ma che non ti dà fastidio?» disse sorridendo sotto ai baffi. «Non mi dà fastidio perché se fosse così, adesso sarebbero entrambi morti», chiarii. Lei rise. «È strano vederti gelosa», considerò Drake. «Io non sono gelosa», dissi decisa. «No!» disse Drake strascicando la "o" in modo teatrale. La mela nel piatto di Drake venne spinta a terra da una mano. Io confusa sollevai lo sguardo, per incontrare ancora quello di Scott e poi quello di Chad. Il primo rise e si allontanò come se nulla fosse, al che mi alzai in piedi, iraconda. Raccolsi la mela e gliela tirai dritta in testa. «Ahi!» gemette lui voltandosi. Si grattò il punto della nuca in cui l'avevo colpito e poi mi si avvicinò. Io incrociai le braccia al petto. «Perché l'hai fatto? Cosa vuoi da Drake?» gridai rabbiosa. «Chiediti cosa vuole lui da me», sghignazzò. «Oh, chiaro. Alludi al micro würstel che hai nelle mutande?» Lui allibito e irrequieto digrignò i denti. «Lo vuoi tu, bambolina?» chiese con un sorriso irritante. «Perderei troppo tempo a cercarlo», ribattei. Chad rise, e Scott gli tirò una gomitata sul fianco per farlo smettere. «Ti ha un po' spento amico, meglio andare», intervenne Chad con un ghigno. «Lo so che in realtà lo vuoi, Alexis, non fare la dura», replicò Scott. «Nel reparto due risolvono i problemi di eiaculazione precoce, prima dovresti farti dare un'occhiata», consigliai, riprendendo posto. A quanto diceva Jackie, durava giusto il tempo di svestirsi. Drake rise. «Chi si vanterebbe mai di essere stato con uno che ce l'ha microscopico e viene dopo mezzo secondo?» sghignazzò. Io e Julie ridemmo, e lui offeso, finalmente, se ne andò. Sentii un braccio attorno al mio collo, e istintivamente mi voltai alla mia destra. «Quando studiamo?» chiese Jake fregando due patatine dal mio piatto. Io mi scrollai subito il suo braccio dalle spalle. «Non studieremo insieme per davvero», chiarii fermamente, allontanandomi di qualche centimetro. «Perché?» Io sollevai gli occhi al soffitto. «Non ho bisogno di un tutor», espirai. «Tutti avrebbero bisogno di un tutor alla Kingstom, tutti tranne me», gongolò rubandomi altre due patatine fritte. «Ha paura che farete sesso nella tua camera, me l'ha confessato», gli sussurrò Julie. Jake rise. «Sarebbe un'idea...» «Sei inizi a flirtare e a farmi gli occhiolini non studieremo mai insieme», dissi ferma, puntandogli un dito contro. «Non sto flirtando, non sto facendo occhiolini.» «E non sorridere in quel modo!» ordinai. «Quale modo?» si finse tonto, esercitando il suo fascino attraverso quelle irresistibili fossette. «Lo sai in quale modo. Quel modo. Non farlo.»
Lui sollevò le mani. «Va bene... Va bene. Non farò nulla. Quando studiamo?» «Oggi non posso», risposi abbassando lo sguardo. Sperai non mi avrebbe chiesto il perché. «Perché?» chiese accigliato. «Va a New York», rispose Drake sorseggiando dal suo milkshake. Lo trucidai con lo sguardo. «A New York? A fare che?» chiese preoccupato. «Niente di importante», divagai. Lui rimase pensieroso. «A te non piace New York», considerò. Io mi strinsi nelle spalle e continuai a mangiucchiare. Avanzò, spostando una gamba al di là della panchina dove eravamo seduti. Sentii il suo respiro sulla mia guancia. «Avanti, dimmelo, a me non puoi nascondere niente», sussurrò sfruttando l'ipnosi che i suoi occhi limpidi creavano in me. In quel momento una mano dalle unghie super curate e dalle dita sottili gli scivolò giù dalla spalla. Sollevai gli occhi verso quella sciaquetta di Liz, e mi allontanai di almeno un metro. Perché mi stava sempre attorno se pareva essersi ripreso così bene dopo la nostra rottura? «Stiamo ripetendo fisica», gli mormorò vicina all'orecchio. Lui annuì, e senza troppo indugio si alzò in piedi per sedersi al suo tavolo. L'odiavo. Divorai il panino che avevo sotto al naso e poi caricai la mia borsa sulla spalla. «Dove vai tanto di fretta?» chiese Julie accigliata. Il nervoso di quel momento era inquantificabile. Volevo liberarmi in qualche modo di quell'enorme peso dentro di me. «Ma Amber nel frattempo si è dissolta?» chiesi guardandomi intorno. Julie allungò lo sguardo alle mie spalle, e quando mi voltai vidi che stava chiacchierando con Jake nel tavolo dietro al mio. Assunsi un'espressione confusa e leggermente irritata. «Meglio che vada». Uscii dalla mensa e percorsi le scale per arrivare al piano di sopra. Bussai alla camera numero centosei, mentre nel frattempo stringevo le mascelle. «Avanti», disse una voce maschile. Aprii la porta, mia madre mangiava il cibo della mensa con lo sguardo basso, e Cage sedeva sulla poltroncina in silenzio. «Eccoti», disse quest'ultimo sorridendo leggermente. «Tu!» sfiatai, puntando un dito contro mia madre. «Tu, non puoi più trattarmi come se non esisto! Non ti permetto più di ignorarmi, di far finta che io non sia mai stata tua figlia. Io sono tua figlia, che tu lo voglia o no. Io ho problemi psicologici solo a causa tua! A causa della tua follia, del tuo pessimo carattere, della tua infelicità ingiustificata. Sappi che avevi ragione su tutta la linea. Sono come te. Purtroppo è così. Ma io dopo oggi andrò avanti, dopo averti detto quanto io ti odi e ti detesti, andrò avanti. Tu invece rimarrai indietro, rimarrai la donna crudele che eri a Manhattan. Tuo marito è morto, dopo che per anni l'hai tradito, l'hai fatto sentire il peggior uomo del pianeta, dopo che per anni non gli hai dato nient'altro che il tuo odio, la tua cattiveria, il tuo rancore. Tuo marito è morto e tu al suo funerale non hai versato neppure una lacrima. È morto dopo che hai incendiato la sua casa, hai maltrattato i suoi figli, hai rubato i suoi soldi, ti sei impossessata dei suoi beni. Puoi anche avere un'altra figlia adesso, un altro compagno, ma tu sarai per sempre sola. Non ti perdonerò, non ti perdonerò più niente. Raccoglierai ciò che hai seminato, prenderai ciò che ti meriti, ciò che ti spetta. Ti garantisco che non ti cercherò più, che non gioirò più dopo aver ricevuto un briciolo della tua attenzione, non spererò più che tu decida di farti sentire, non mi illuderò del fatto che tu possa diventare una buona madre per me. Non guarderò le nostre foto insieme, mettendo in discussione il fatto che tu sia un mostro o meno. Ora ne sono certa, tu sei un mostro. Credevo che perdonarti era meglio di non avere nessuno. Credevo che se avevo perso papà dovevo recuperare con te. Ma mi sbagliavo. Essere soli al mondo è un milione di volte meglio che averti accanto. E sono qui anche per dirti grazie, grazie per avermi resa forte abbastanza da poterti mandare al diavolo. Forte abbastanza da garantirti che sarai l'unica tomba senza fiori.»
Dopo essermi tolta quel macigno dal petto camminai verso la porta e la sbattei alle mie spalle, senza rimorsi. Erano le tre, Evans mi aspettava nel suo studio. Ci passai davanti, indugiai per qualche attimo, allungai la mano alla maniglia ma poi la trassi indietro e andai via. Percorsi le scale e una volta arrivati ai piedi di essa, udii una voce alle mie spalle. «Alexis», mi chiamò Cage, raggiungendomi. «Che vuoi?» dissi brusca. «Potresti tornare indietro? Vuole parlarti», disse affannato. «Dille che è tardi». Gli voltai le spalle e attraverso il campus corsi in camera. Mi sentivo così piena di rabbia, così agitata e frustrata. Mi accasciai contro la porta e piansi. Scoppiai in lacrime, mi venne voglia di rompere tutti gli oggetti che mi circondavano, mi venne voglia di fare del male a qualcuno, ma l'unica cosa che feci fu quella di prendere la scatola da sotto al mio letto, e rivedere quelle foto. Le volevo strappare, bruciare, ma sapevo che poi me ne sarei pentita. Misi nel lettore il disco dove correvo tra le braccia di mia madre. Volevo solo che mi volesse, malgrado tutto ciò che avevo detto. Volevo che mi dicesse che io per lei ero importante, che mi volesse bene quanto io ne volevo a lei nonostante tutto. Io amavo senza limiti le persone, le amavo fino a distruggermi. Volevo che fosse lì, volevo che non mi avesse ascoltata, volevo che mi raggiungesse. Sentii bussare. Mi asciugai le lacrime dal viso e misi stop al video. Mi avvicinai alla porta e dopo essermi accertata che il mio volto fosse asciutto, la aprii. In quel momento era lì. Con indosso la giacca di Cage e delle ciabatte, le occhiaie scure e la stanchezza in volto. Si appoggiò allo stipite e respirò affannosamente. «Sei diventata veloce», boccheggiò. Gli offrii il mio braccio destro per reggersi. «Cage ti ha fatta venire sola?» «Volevo venire sola. In genere quando io dico una cosa è quella». Tossì ed entrò in camera. «Che ci fai qui?» «Mi fai sedere?» domandò. Le indicai il letto, e lei ci si appoggiò. «Tra poco istituiranno il processo», disse sospirando pesantemente. «A quanto pare». Si guardò intorno e poi il suo sguardo si bloccò sul televisore. Lentamente scese su quella scatola. «Dove hai trovato quella roba?» chiese con la fronte corrugata. «Me la spedita Alex», confessai, sedendomi nel letto difronte. «Oh, Alex. A quanto pare vai molto d'accordo con lui», disse con una punta di sarcasmo. «Ti dispiace?» «No, per carità. Lui si che è una brava persona.» «Sei l'ultima al mondo in grado di stabilirlo, penso.» Sollevò le sopracciglia. «Se vuoi un mio consiglio, sta' lontana da lui», disse seria in volto. «Se decidessi di star lontana da mio fratello di certo non sarebbe perché me l'hai consigliato tu.» «Il rancore non serve...», disse. «E da quale pulpito», esclamai, prendendomi la fronte in mano. «Senti, perché sei qui?» espirai. «Perché volevo che sapessi che il motivo per cui ti ignoro è perché è più facile così per me. Non posso rimediare, ci ho provato, ma questo processo ha riportato cose a galla che io non posso dimenticare, e non permetto che nemmeno tu lo faccia. Non si può passare sopra all'indimenticabile. Non ti chiedo perdono perché ciò che io ho fatto è imperdonabile. Nella mia testa posso solo fingere che tu non esista, che Jonas, Alex, Jessica e Richard non costituissero il mio passato. Posso pensare di essere una persona migliore per Cage, una madre migliore per Riley. Lei non mi ha avuta affianco per la maggior parte della sua vita. Ma mi ha perdonato, e ora mi sta affianco, ed io sto affianco a lei.»
«Sa del processo?» «Sì.» Mi sedetti a terra e sfogliai quelle foto, pensando a cosa avesse appena detto. «Non ci avevate mai detto dell'adozione di Alex.» «Te l'ha detto...» «Già. Questo pacco viene da un certo Alex Walker... Da Los Angeles. Chi sono i Walker?» chiesi curiosa. «La sua famiglia d'origine. Ha preso il suo cognome. Il mio avvocato mi ha informata che tuo fratello è persino laureato in legge... Ironico», disse con un lieve sorriso privo di felicità. «Hai ripreso a lavorare?» «No.»
«È ironico anche nel tuo caso», dissi senza peli sulla lingua. «Smetterai mai di pensarla in questo modo?» «C'è solo un modo in cui posso pensarla. E non so perché tu sia venuta, se è perché vuoi che non faccia la mia deposizione...» «Non lo dico per me, lo dico per mia figlia. La persona che ero, soffriva e stava male. Ora ne sto uscendo ma non ce la farò. Non ce la farò a recuperare quel che si può recuperare.» Con lei voleva recuperare, non con me. Perché mi odiava così tanto? Cosa le avevo fatto per meritare quel rifiuto? Dopo aver finito di parlare si mise in piedi ed arrivò alla porta. Sparì dietro di essa.
Mi gettai sul letto e smisi di pensarci. Gli occhi bruciavano. Spensi la TV e chiusi le palpebre. Mi distesi e addormentai dopo non molto. Sentii un'aria fredda sulla pelle della schiena, ma dopo poco cessò di soffiare. D'un tratto, nel sonno, mi sentii al calduccio, e decisamente più comoda. Abbracciai il cuscino e continuai a dormire in modo più sereno. Mi accorsi presto che il calore era emanato da un corpo. Quando riconobbi l'odore del suo dopobarba sussultai sul letto. «Spostati, ti sto guardando mentre mangi muffin». Guardava alle mie spalle, verso il televisore, con il telecomando in mano e il braccio opposto ancora appoggiato alla mia spalla. Mi strofinai gli occhi, confusa, chiedendomi cosa ci facesse lì. Non avevo abbastanza forze per cacciarlo, strillare. Mi rannicchiai di nuovo appoggiandomi al suo petto e dormii ancora un po'. Si dormiva meglio tra le sue braccia, sentendo il suo odore, beandomi di quel calore. La sua pelle era piacevole da sfiorare. Descrissi piccoli cerchi immaginare sul suo avambraccio, sentendo il suo cuore cominciare a battere più forte sotto al mio orecchio. Salii e scesi lentamente, sfiorandolo quasi impercettibilmente con le punte delle mie dita. Giunsi sulla sua mano, sulle nocche e poi lungo l'indice e l'anulare. Le sue mani erano così belle, esperte, delicate. Sentii un suo sospiro sulla mia testa. «Ti va di aprire libro?» Non potei credere che tra tutte le cose che si potessero dire, lui avesse rovinato il momento dicendo proprio quella frase. Scattai seduta e gli diedi uno spintone. «Che c'è adesso?» ridacchiò. Lo guardai torva. «Che ci fai qui?» chiesi irritata. Mi voltai verso il televisore. C'ero io a sette anni che mangiavo muffin. Gli strappai il telecomando di mano e spensi la TV. Provavo vergogna. «Perché l'hai fatto!» strillai. Lui si accigliò. «Fatto cosa?» chiese confuso. «Eri stupenda.» Mi voltai da un'altra parte. «Avevo gli occhiali, tondi! Ed ero grassa. Non ero stupenda a sette anni!» sbottai. Scoppiò a ridere, ed io lo fulminai con lo sguardo. «Ma con chi ne parlo... Tu anche da piccolo eri quello che baciava tutte le bambine della sua classe, no? Quello che faceva il bullo con i bambini grassi!» Lo spinsi giù dal letto. «Sei impazzita?» chiese ridendo, mettendosi in piedi. «Secondo me eri stupenda», sorrise. «No! Non lo ero. Secondo te lo ero, solo secondo te, per nessun altro», bofonchiai. Ridendo fece per avvicinarsi ma lo spinsi via un'altra volta. «Sta' lontano! Vattene da Liz, o da Amber. Loro da piccole erano belle», borbottai. Mi attirò a sé avvolgendomi un braccio attorno alle spalle. In un batter d'occhio mi aveva presa in braccio, come una sposa. «Avanti, mettimi giù», dissi sbuffando. «No, no», obiettò dirigendosi verso la porta. «Quando non ti comporti bene ti aspetta sempre una punizione.»
«Oh Dio, mi farai del male? Tremo di paura. Ora rimettimi giù, idiota». La sua unica reazione fu quella di ridere. Chiuse la porta e si spedì chissà dove. «Ho detto che eri stupenda. Tu hai obiettato.»
Scese per le scale del piano inferiore. Gli studenti passando ci guardavano incuriositi, ridacchiando. «Puoi mettermi giù? Stanno tutti guardando i miei calzini con i panda», dissi annoiata. «A me piacciono i tuoi calzini con i panda», ribatté. Fuori dallo studentato femminile c'erano ancora più persone. «Dove stiamo andando?» «Lo vedrai.» «Mi puoi dire che ore sono?» chiesi brontolando. «Tranquilla. Alle sei ti porto in aeroporto», disse camminando verso il campo da football. «Non voglio che tu mi accompagni. Voglio andare da sola», dissi ferma. «Fa' la brava. Ci stiamo avvicinando alla piscina», ridacchiò. Spalancai le palpebre. «Sei forse impazzito?» chiesi allarmata. «Non lo faresti, giusto?» chiesi guardandolo dritto negli occhi. «Mi pare che l'abbia già fatto», rispose fiero di sé. Unii le mie labbra alla pelle del suo collo, e ciò che partì come un succhiotto in meno di un secondo mutò in un morso. «Cazzo! Smettila di vederti le serie tv sui vampiri», esclamò. Io ridendo riuscii a liberarmi e a fuggire via. «Sarai anche più forte ma io sono più veloce!» gridai, sentendo i suoi passi dietro ai miei. Percorsi alla massima velocità la strada verso il dormitorio, evitando tutti gli studenti e spintonando qualcuno. Di fretta percorsi le scale e quando feci per chiudere la porta della camera lui già l'aveva bloccata con la mano. «Mi ricorderò per sempre di come ti guardava la gente mentre correvi in calzini per tutto il campus», rise, spalancando definitivamente la porta. Mi afferrò per i fianchi e gettò sul letto. «Questo è il momento di cui parlava Julie in cui facciamo sesso?» chiese sorridendo. Io mi ressi sui gomiti e risi sonoramente. «Direi che puoi anche dimenticartelo.» Si toccò il collo, nel punto dove l'avevo morso. «E io che pensavo ardessi di passione», sospirò. Risi ancora. «Direi che puoi dimenticarti anche di questo.» Gattonai fino al ciglio del letto. «Che devo fare?» dissi preoccupata. «Che vuoi dire?»
Corrugò la fronte, confuso.
«Devo andare per forza a New York?» «Se tu mi dicessi perché ci vai...» «Non ci voglio andare» bofonchiai. «Allora non andarci.» Mi prese il mento tra le dita. «Devo andarci», espirai. «Devi fare solo quello che vuoi.» Con una frase aveva stravolto il mio punto di vista. Si sedette a terra e cominciò a sfogliare quelle fotografie. «Magari potessi...» «Puoi fare proprio tutto quello che vuoi», ribadì. Non volevo che guardasse quelle foto. «Perché non te ne vai?» gli dissi mettendomi in piedi. «Perché vuoi che me ne vada?» sollevò lo sguardo. La luce del tramonto penetrò dalle finestre, riflettendo la stanza di un giallo arancione mai visto fino ad allora. Continuò a guardarle, sembrando veramente concentrato. Lo raggiunsi e gliele strappai via tutte. «Basta», mi spazientii e chiusi la scatola. «Esci con me?» «Che?» stralunai gli occhi. «Usciamo insieme», disse disinvolto, scrollando le spalle «Preferisco andare a New York», ridacchiai. Lui finse un'espressione offesa. «Mi ferisci, Alexis.» «Che guaio...» «Sul serio. Ti voglio far vedere un posto... Ma prima voglio sapere perché devi andare a casa tua.» Non sollevò lo sguardo dalle foto. «Mio fratello ha denunciato mia madre... Qualche tempo fa. Devo testimoniare, ma non ne ho voglia», rivelai. Lui allargò le palpebre. «Jonas?» chiese con della strana preoccupazione nello sguardo. «No, Alex.» La sua testa in quel momento, sembrava essere da tutt'altra parte. «L'hai sentito spesso?» «Forse...» «Sì oppure no?» chiese brusco. Mi accigliai. «E' venuto qui al college un po' di tempo fa. Perché mi chiedi di mio fratello e non di mia madre?» chiesi confusa. Lui, turbato da qualcosa, si rimise in piedi e camminò verso la porta. «Non è una persona apposto». La sua gola era stretta, il suo tono più profondo del solito. Vidi anche il muscolo della mascella contrarsi. «Lo so ma... Che succede?» Balzai in piedi e lo raggiunsi. «Nulla... Nulla. Va' a New York.» «Ma avevi detto che...» «Non importa cosa avevo detto», disse duro. «Vai sola? A New York?» Confusa e stanca del suo inspiegabile bipolarismo, feci per dirigermi verso il letto, ma lui me lo impedì afferrandomi per il braccio. «Vai sola?» Il suo tono era ancora più autoritario, la sua presa rigida. «Perché qui io sono sempre quella che dà risposte ma non le riceve mai?» «Porca miseria, Lexie, rispondi. Vai sola oppure no?» gridò. «Vado con Jonas!» strillai. Mi liberai dalla sua presa. «Perché me lo chiedi?» «Solo con lui? Non c'è nessun altro?» «Chi dovrebbe esserci? Sì! Sola con lui.» Cacciò un sospiro e poi fece per parlare, ma alla fine cambiò idea. Guardai il basso, irriqueta e turbata. «Scusa.» Rapidamente mi afferrò il viso e baciò la fronte. Il mio viso sprofondò contro il suo collo. «Fa' come preferisci okay?» Lentamente mi accarezzò i capelli e me li sistemò sulle spalle. «So cosa preferisco. Ma non posso... Ma tu devi andare. Vai», sospirai. Odiavo la sua vicinanza, il calore che mi trasmetteva e i brividi che mi accapponavano la pelle in sua presenza. Odiavo quando mi fissava negli occhi e il mio cuore faceva le capriole, il mio stomaco si riempiva di... Non di farfalle, di canguri. Ero sicura di sentire qualcosa che saltava, che si muoveva ritmicamente dentro di me. E poi tra le gambe un fremito inarrestabile. Strinsi le cosce tra di loro, quasi sigillate. Sentii una pulsazione diventare più forte ogni secondo. «La voglia di andarmene è sparita.» Vidi il suo pomo d'adamo balzare su nella gola. La mia era secca, e solo quando inizai a sentire il sapore del metallo in bocca, capii che dovevo smetterla di torturarmi il labbro. E di fissare le sue immaginado di mordere quello inferiore. Una specie di torpore mi agonizzò la lingua; non riuscivo più a parlare. L'attimo dopo quel torpore si irradiò lungo tutto il mio corpo, paralizzandomi. Mi prese il mento tra le dita, percepii il suo respiro fresco sulla pelle del mio viso. Non riuscivo più a muovermi, o a parlare. Spiegavo una delle due reazioni con il fatto che i muscoli delle mie gambe erano così contratti che nemmeno un vigile del fuoco sarebbe riuscito a smuoverle. Nello stomaco un bruciore inaudito, le tempie pulsavano come se d'un tratto le vene del mio corpo puntassero solo alla mia testa. L'eccitazione stava per farmi svenire. Poi con il dorso della mano, delicatamente, mi sfiorò la guancia. Percepii la sua pelle freddissima, quando lo fece. Io mi sentivo esplodere, calda come un termosifone. La abbassò lentamente e, quando mi sfiorò il seno, ansimai. Emise un verso di gola, dettato dal piacere. In me si accese un fuoco, un fuoco tra le cosce che ardeva sempre di più. Era diverso... Questa volta temetti che il mio cuore al battito successivo non avrebbe resistito. Mi afferrò la scollatura della camicetta verde nelle mani, e tirò forte finché non si aprì e non saltarono cinque bottoni. Presi quell'aria di cui avevo bisogno e poi chiusi gli occhi, lasciando che le sue mani dal tocco delicato facessero da sole. Mi sfiorò di nuovo con le dita sul seno ebbi la netta sensazione che le mie ginocchia non avrebbero più retto quella pressione che si propagava e sembrava sul punto di esplodere da un momento all'altro. Il cuore mi batteva nello stomaco... No, più in basso. Assaggiai il suo labbro inferiore, sapeva di menta. Io aprii gli occhi. Mi mancava... Sfiorai le sue labbra con le mie, poi appoggiai le mie mani sul suo volto. Rimase sorpreso. Avevo paura di baciarlo perché sapevo che era un errore; ma non potevo farmi indietro perché nel peggiore dei casi mi avrebbe buttata in una piscina. Attese, non mi baciò. Lo conoscevo, non l'avrebbe fatto finché non mi sarei lasciata andare, finché non sarei stata io a supplicarlo. Baciai un sorriso. Lo morsi perché mi sentivo bruciare per davvero, e mi sarei disperata se avesse continuato a rimanere immobile, se non mi avesse baciata. Mi prese per i fianchi. Finalmente.





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