13. L'inaspettato non sorprende più.
LEXIE
Vidi una goccia di pioggia raggiungere il vetro del finestrino, prima di essere seguita da delle nuove che, iniziavano rapidamente a colare giù. La pioggia aveva quel suo fascino particolare, che mi incantava da sempre. L'auto era in movimento da un po' e quella musica dolce, di una cantante che non conoscevo, ma con voce soave, sembrava insinuarsi nelle mie vene trasmettendomi serenità. Quello stato d'animo era in contrapposizione con ciò che invece tormentava il mio cervello; stavo andando nella tana del lupo volontariamente. Non sapevo bene ancora il perché e di certo non l'avrei detto a nessuno. L'angoscia dentro di me si ripresentava sovente, per questo o per altre ragioni, come quei messaggi inquietanti, quelle rose lasciate nel mio armadietto. Rose bianche per la precisione, spinose e così tante numericamente che quando avevo aperto lo sportello quella mattina, erano esplose fuori per spargersi nel pavimento. Le "J", sembravano apparire ovunque.
Nemmeno di quello avevo detto niente a nessuno, ma tutto non andava oltre a qualche brivido di timore. Ero fatalista; se qualcosa doveva succedere, mi sarebbe accaduta. Era dal giorno in cui era morto papà che la paura aveva abbandonato del tutto la mia anima, perché nonostante tutto, c'erano ancora momenti in cui pensavo che se la mia vita fosse stata d'un tratto interrotta, avrei avuto solo che sollievo. L'autista cambiò canzone ed entrò qualcosa di incredibilmente affliggente di Adele. Le note erano basse, il ritornello sembrava poterti colpire il cuore come una lamina di metallo. Tenni le palpebre chiuse finché l'automobile non si fermò di botto. «Cento dollari», proferì con voce roca. Aprii il portafoglio perlaceo e sfilai la banconota per poi porgergliela. «Grazie.» «Arrivederci.» Quando scesi dal taxi mi ritrovai di fronte alla spiaggia di Miami, la sabbia era scura e non c'era un'anima. Non era una giornata soleggiata, ma nonostante ciò il blu del mare mi fece tornare alla mente il ricordo di quando io e papà sognavamo il nostro viaggio d'estate, solo io e lui. Avremmo lasciato tutti i nostri impegni e saremmo partiti. Senza la mamma, ne nessun altro. Il nostro viaggio, quello che organizzavamo nei minimi dettagli durante le sue pause a lavoro, durante le serate in cui mi faceva delle sorprese tornando prima del solito dall'ospedale e in ogni momento che era stato solo nostro. Avrei solo voluto tornare indietro nel tempo e poter cambiare il passato. Rispondere con un «anche io», ogni volta che diceva di amarmi più della sua vita. Invece rancorosa mi rimboccano sotto alle coperte e lo ignoravo, credendo che fosse una bugia, che per lui il suo lavoro fosse più importante di me. Avrei solo voluto avere quella possibilità, ma era tardi ormai.
Le onde si frangevano delicate sulla riva, facendo riecheggiare un piacevole suono, lo stesso che si sentiva appoggiando una conchiglia contro il proprio orecchio. I miei occhi si riempirono d'acqua e la folata di vento che mi sferzò i capelli fece scendere giù una piccola lacrima. Il viaggio che avremmo dovuto fare perché amavamo il mare, in realtà era un'espediente per passare del tempo insieme, un viaggio alla ricerca di me e di papà, di noi. Ma il nostro viaggio non aveva più orizzonti, eravamo separati da un involucro invisibile, seppur a volte lo sentissi vicino. Oramai eravamo distanti nel tempo e nello spazio. Le foglie delle palme ondeggiavano a causa del vento verso destra, nella stessa corrente delle onde, quando mi accorsi di essere sotto ad un funesto diluvio. Le gocce provenivano dal cielo e dai miei occhi, non distinguendosi. Tornai alla realtà da quel sogno troppo splendido per essere vero e poi mi incamminai per la ventitreesima strada. I grattaceli moderni erano differenti dalle palazzine di Cheansburg, così come le strade ricche di palme e i negozi di grandi marche. Il susseguirsi di quelle immense strutture si interruppe, per lasciare spazio ad una serie di villette lussuose e sfarzose che davano sulla spiaggia. Il civico era esatto, la via anche, nel citofono era scritto: "Preston, Hamilton". Era quella. Il mio cuore batté contro il petto come un martello pneumatico contro un muro, gonfiai il polmoni d'aria e premetti il campanello. Passarono una decina di secondi e poi un suono precedette l'apertura del cancello nero, con ghirigori arricciati ovunque. Ansante cacciai via l'aria dal torace e poi mi feci strada. Aperto il cancelletto vidi un enorme prato verde, nel cui centro era posizionata una fontana bianca con acqua cristallina. Ricordavo quanto mia madre amasse quel genere di cose. Nel giardino non era piantato neppure un fiore, ma ospitava un'ammaliante casa moderna, con vetri al posto di porte che lasciavano libera la visuale al soggiorno interamente in bianco e ad un'immensa camera da letto rosa. Era così simile alla mia di New York che un nodo mi cinse per un istante il cuore; forse un'altra ragazza abitava lì? Forse sua figlia? A giudicare dai fatti in ordine cronologico, non avrebbe potuto avere più di sei o sette anni all'in circa. La porta vetrata si aprì autonomamente, mi sentii a disagio non sapendo bene come muovermi. L'atmosfera era così fredda che desideravo solo tornarmene a casa. Perché mi trovavo lì? Da sola e con la donna che più disprezzavo sul pianeta terra? Mi sentii una sciocca, poiché non l'avevo detto a nessuno e magari con qualcuno al mio fianco sarebbe stato più semplice rimanere, oppure andarmene quando mi sarei sentita come mi sentivo in quel momento. Poi però mia madre comparve dall'interno, facendomi un cenno ad una decina di metri di distanza. Un groppo mi salì alla gola, le tempie pulsavano forte e lo stomaco sembrò attorcigliarsi su sé stesso. «Avanti! Che fai lì sotto la pioggia!», mi esortò, sorridendo in modo troppo benevolo per i suoi canoni. Caren Hamilton stava sorridendo? Sembrava un essere umano? Deglutii e mi avvicinai in modo cauto ma al tempo stesso rapido; non potevo prendermi un malanno il giorno prima di un esame. Non appena giunsi sullo zerbino un calore si propagò su tutto il mio corpo per l'agitazione. Cosa avrei dovuto dirle? Come mi sarei dovuta comportare? Neppure la conoscevo più, neppure sapevo chi fosse oramai. La mia mente beffarda dovette riportarmi a dei ricordi pietrificanti, dove la sua espressione era del tutto differente da quella che indossava adesso. Ero irrigidita, agitata, ma dovevo assolutamente capire una cosa quella sera; avevo ancora un genitore oppure no? Dovevo affrontare quel problema che mi portavo a presso da troppo tempo e che mi impediva di essere me stessa al cento per cento. Avevo imparato che i problemi, nonostante il tempo, rimanevano irrisolti finché non ci si decideva ad affrontarli. Io ne avevo passate di tutti i colori, ero forte, sapevo di esserlo e non sarebbe stata nemmeno mia madre a buttarmi giù a quel punto. Infondo malgrado i suoi tentativi in passato, non ci era mai riuscita e dubitavo ci sarebbe riuscita adesso. «Posso abbracciarti?», domandò addolcendo lo sguardo. Probabilmente eravamo in un altro universo! Mia madre che mi chiedeva di abbracciarmi? Non mi aveva mai abbracciata in diciannove anni, non poteva essere vero. Forse era cambiata davvero, forse mi voleva bene sul serio, ma non sapevo se volessi che lo facesse o meno.
«I-io..», balbettai vaga, guardando furtivamente tutto tranne che i suoi occhi cristallini. «Vieni, entra pure, non voglio che ti ammali», mi invitò, toccandomi il braccio e trascinandomi in modo delicato dentro. Quel tocco mi si irradiò come una scossa dentro il corpo, aumentando il batticuore. No, non potevo toccarla, non ero pronta. Ritirai il braccio catturando il suo sguardo interrogativo, che poi si sciolse in un lieve sorriso. Fece finta che non fosse successo e chiuse la porta alle mie spalle. Gocciolai nell'interno e temetti un suo rimprovero, come in genere aveva sempre fatto. Tutto però mi portava a pensare che la vecchia versione di lei si fosse dissolta, che un clone avesse preso il suo posto, o che un alieno l'avesse sostituita. «Vuoi toglierti le scarpe zuppe?», sorrise, evidenziando quella ruga sulla guancia che la rendeva veramente bella. Avevo sempre saputo di quanto fosse una donna attraente, per questo credevo mio padre ci avesse perso la testa e l'avesse sopportata in ogni suo malato atteggiamento. Nella mia scuola le mie compagne di classe apprezzavano il fascino da chirurgo di mio padre e i compagni di certo guardavano più mia madre che me, fino alle medie. Il che era disgustoso, pensandoci bene. «Che c'è? Perché sorridi?», chiese con un'espressione sorpresa quanto incuriosita. Non se lo aspettava di certo dopo che l'avevo trattata come un cane randagio. «Niente», fu la prima parola che dissi ed uscì più fredda di quanto non volessi. «Togliti pure giacca, borsa.. lascia tutto lì», disse indicando alle mie spalle un appendiabiti. Obbedii e mi tolsi le scarpe, prima che lei, come ricordavo fosse di sua fissazione, le mise ad asciugare sopra al termosifone. «Allora.. Ti ho preparato da mangiare, spero tu abbia fame», disse camminando verso ciò che mi apparve la cucina. Entrando vidi che era immensa, mobili mordernissimi, luce forte e bianca, finestre di vetro e la tavola era apparecchiata per quattro. Quattro? «Cage rientra per le otto e mezza, ma non so se preferisci gli dica di prendersi qualcosa fuori..», cominciò. «Non c'è problema», risposi freddamente. «Accomodati», mi invitò tirando fuori la sedia dal tavolo. Si sentiva un ottimo profumino di pollo arrosto mentre l'acqua bolliva nel tegame. «Ti preparo un thé intanto?», chiese. «Ehm, va bene», risposi sedendomi. Sorrise, aprì uno sportello per tirare fuori una bustina di thé Lipton. Fece riscaldare il thé, aggiunse zucchero e limone e poi mise tutto apposto. «Allora.. Come va la scuola?», disse porgendomi una tazza azzurra. Ci soffiai un po' sopra, «piuttosto bene», risposi. Sorseggiai, «com'è?», domandò sedendosi difronte a me. «Buono.. Anche se di solito lo prendo con un po' meno di silenzio imbarazzante», lei ridacchiò. «Hai ragione.. È passato così tanto tempo... Tu sei così cresciuta, sei così bella», disse sorridendo e poggiando i gomiti sul tavolo. «Già, di tempo ne è passato sicuramente», dissi amaramente. «Mi dispiace», sospirò. «Per cosa?», domandai sollevando lo sguardo. Tenni tra le mani la tazza fumeggiante guardandola negli occhi come molte volte non avevo avuto il coraggio di fare. «Ci sono tante cose per cui io debba chiederti scusa, troppe. Non ci sono ragioni valide per cui tu debba perdonarmi, ma forse, se sei qui adesso.. Forse dentro di te qualcosa ti dice che in me c'è ancora del buono, che posso tentare di recuperare anche in parte», rispose. «Sì è vero. Ma solo dopo che ho capito di essere sola l'ho pensato. Sai..», abbassai lo sguardo e sorrisi leggermente «anche se papà non c'era fisicamente, era comunque un punto di riferimento. Ha lasciato un vuoto», spiegai. «Tu pensi che io lo odiassi, vero?», chiese. «È quello che so», risposi. «Tu non sai quanto ci siamo amati. Così tanto che alla fine non era rimasto niente. Quando due persone sono piene di per sé non saranno mai in grado di completarsi», rivelò, con voce roca. Se la schiarì, alzai lo sguardo verso il suo. «Sarebbe stato tutto più facile se piuttosto che far degenerare la situazione vi foste lasciati prima», dissi io. «Credimi, ci ho provato tante volte. Ma dopo tornava a casa ubriaco e diceva di amarmi più della sua vita. È questo che prospetta una vita da chirurgo. Devi scegliere se ami più la famiglia o il tuo lavoro. Tuo padre era buono abbastanza per avere delle priorità; salvare delle vite piuttosto che cenare con i suoi figli.» «Stavi andando a New York per lui quando stava male..» insinuai, con quel po' di sorpresa. «Certo, non sono un mostro, credimi.» «Perché? I fatti non ti dipingono come un angelo», dissi quando riaffiorò del rancore. «Non lo sono, ho sbagliato..» «No, non hai sbagliato. Hai detto che era giusto, quando facevi.. Quello che facevi», sospirai. «Non sono più quella persona.» «E qualche mese fa? Quando sei venuta a casa mia e mi hai detto che meritavo ciò che mi avevi fatto? Che sarei diventata come te? Allora quale persona eri?», iniziai ad alterarmi. Non rispose, sospirò e basta. «Voglio rimediare». «Sì lo so.. Questo me l'hai già detto», sorrisi in modo acido. «Pensavo solo avessi delle risposte da darmi», aggiunsi con tono amaro. «Puoi chiedermi qualunque cosa tu voglia», affermò. «Hai appiccato tu quell'incendio vero?», chiesi senza collegare neppure cervello e corde vocali. Le parole uscirono da sé. Volevo sentirglielo dire, volevo che lo ammettesse, anche se la risposta era ovvia. «Sì», sembrò comunque una coltellata nello stomaco. «Perché?», fissai le sue iridi color ghiaccio. «Sono consapevole di come vi ho messo in pericolo e non sai quanto mi sento male per questo. Non so bene a che punto fossi arrivata, non so quanta parte di me fosse razionale e quanta no. So solo che non stavo bene, che a volte c'erano momenti in cui pensavo che se la mia vita fosse stata d'un tratto interrotta avrei avuto solo che sollievo.» Delle lacrime mi salirono agli occhi, «non era per quella clausola. Lui non ha detto niente perché ti amava davvero mamma», dissi con voce soffocata. «Lo so», mi prese la mano tremante e la fermò con la sua. Lasciai che lo facesse, i suoi occhi erano lucidi, provava un'emozione, cosa che avevo visto raramente nella mia vita. «Devo dirtelo..», deglutì. «Quando ti raccontavo di averlo scoperto con altre donne..», cominciò. «Non era vero», terminai la sua frase. Non rispose, «non aveva tempo per me, per la sua famiglia. Non ne avrebbe avuto per nessun'amante», riflettei. «Mi dispiace, io lo credevo, ma erano solo paranoie. Non capivo perché non stesse mai con noi e quando lo accusavo lui non mi rispondeva mai. Ne ero convinta, ma mi sbagliavo. Izzy Montgomery non è tua sorella, per la successione ed il testamento hanno dovuto fare il test del DNA», spiegò. Mi si formò un bruciore nel petto, digrignai i denti, con forti istinti omicidi verso una rossa, malata, sociopatica e problematica diciannovenne. «Cosa?», gridai. «E papà? Lo sapeva?» «Certo. Era tante cose, ma di certo non stupido», affermò. Ero sgomenta. L'universo si prendeva gioco di me?
«Ma che vuol dire. Se non era mia sorella perché mi ha detto che lo era?» «Non lo so. Immagino che tu sia sconvolta ma non sapevo bene come dirtelo. Non potevo di certo inviarti un messaggio "La tua amica Izzy non è tua sorella"», spiegò. Allungò lo sguardo verso la tazzina di thé che nel frattempo si era raffreddata. «Non bevi?», disse, tenendomi ancora la mano. «Non posso se..», si accorse che la stringeva e la liberò. «Non mi è mai piaciuta quella ragazza. Ti ha sempre guardata con odio, le mie figlie non possono essere guardate così, ma solo con ammirazione», disse superiore. «Ammirazione?», sollevai il sopracciglio dopo aver sorseggiato. «Sei una Bristol, ma anche una Hamilton. Le donne Hamilton sono affascinanti, indipendenti e soprattutto forti, anche se sembrano dure. Quando un uomo si innamora di noi, darebbe la vita per noi. È perduto per sempre», sorrise, evidenziando ancora la fossetta con forma allungata. Sorrisi di rimando, anche se pensare a papà come un uomo che aveva sacrificato tutto per l'amore che provava mi strinse il cuore. L'amava davvero, non era giusto. Se solo avessi potuto scegliere, di non nascere mai, ma far in modo di cambiare gli avvenimenti e far sì che incontrasse un'altra donna, una che l'avrebbe reso felice davvero, che gli avrebbe dato dei figli che lo avrebbero reso fiero, l'avrei fatto.
Se lo meritava, si meritava di essere felice, di avere una vita per la quale ne fosse valsa la pena.
Mi voleva vicina ad Harvard, diceva che sarebbe stato più facile venirmi a trovare. Io avevo insistito così tanto affinché mi lasciasse andare alla Kingstom, lontana il più possibile. L'avevo lasciato solo, gli avevo detto che mi faceva schifo, che lo odiavo. Se solo avessi potuto avrei dato tutto pur di poterlo abbracciare di nuovo e dirgli quanto in realtà gli volevo bene. Ma non potevo.
Mi accorsi che per le mie guance scorrevano fiumi di lacrime. «Non piangere, non vorrebbe», disse asciugandomi le guance con le dita. «Vorrebbe vederti felice, vorrebbe che inseguissi tutti i tuoi sogni. Che realizzassi la tua vita», singhiozzò. «Sappi che anche se nelle tue vene scorre il mio stesso sangue, tu non sei come me. Sei forte, come una Hamilton, bella come una Hamilton.. Ma sei buona, sei dolce, come lo era tuo padre. Non merito una figlia come te, che nonostante non sia stata in grado di accudire sia venuta sù così bene.» Sorrisi in modo spento ma rasserenato. Non mi sarei mai aspettata che mia madre sarebbe stata in grado di darmi conforto. Mi porse dei fazzoletti con cui asciugai i resti del pianto e poi si alzò per buttare la pasta in pentola. «Sarebbe molto fiero di te.. Vai bene a scuola, hai un ragazzo», precisò. «E non mi sembra un ragazzo qualunque», ammiccò. Sorrisi, «no, non è un ragazzo qualunque.» «È un modello per caso?» Ridacchiai, «preferirebbe staccarsi via gli occhi che fare il modello.» Rise e si risedette a tavola, il mio sguardo calò sul quarto posto. Mi schiarii la voce, chiedendo dentro di me se fosse opportuno chiedere o meno. Quando feci per parlare e schiusi le labbra, lei rispose ad una chiamata telefonica. «Cage», sorrise ed accarezzò la tovaglietta. «Per oggi credo sia meglio essere solo donne.» Dopo averci parlato del più e del meno per qualche minuto, attaccò. Quando la pasta fu pronta me la servì, era più buona di quanto ricordassi sapesse cucinare. Anche il pollo era appetitoso, la conversazione sempre attiva, piacevole e mai invadente. C'era una parte di me che voleva andarci cauta, mentre quella opposta premeva contro di essa per paura di rimanere nuovamente sola. Potevo mettere una pietra sopra a tutto, lei era diversa, stava bene. Potevo fidarmi, potevo crederle.
Quando terminai il pasto si erano fatte le nove e mezza di sera, mi preparò un caffè, dicendo che voleva rimanessi un altro po'. Accese la televisione, trasmettevano una serie TV ambientata in un ospedale; non era il massimo. Cambiò canale e lì seguimmo una tranquilla commedia californiana.
Il tempo passò rapidamente, sgranocchiando noccioline e taralli. Quando il film terminò mi sentivo bene, bene davvero. Bene come non ricordavo più oramai. Ero serena, forse felice. Probabilmente era una felicità precaria, probabilmente sarebbe terminata proprio mentre l'assaporavo, ma di certo me la sarei goduta anche per pochi giorni o forse per qualche ora. Infilai le scarpe, la giacca e acchiappai la borsa. Mi accompagnò alla porta e nel tragitto mi chiese se volessi un passaggio. Mentii dicendo di avere la macchina parcheggiata al prossimo isolato, mentre mi baciava la guancia destra e riavviava i capelli dietro all'orecchio. «Non sparire, okay? Devo mostrarti quanto sia migliorata in cucina.. Vuoi venire il prossimo sabato, anche con il tuo ragazzo?», domandò. Annuii sorridendo, «e magari anche con il tuo», aggiunsi. Sorrise ed aprì la porta di casa. La pioggia era cessata quasi del tutto, «dai, ti accompagno alla macchina che è tardi», disse avvicinandosi all'appendiabiti. «Mmh, no, non ti preoccupare», dissi io. «Non ci metto nulla», replicò. «Sul serio, non serve, è qui dietro», tentai di essere convincente. Sospirò e la riappese. «Mi mandi un messaggio quando arrivi a casa?», domandò e poi mi accarezzò la testa. Annuii. «Testarda, come la mamma», rise ed io feci lo stesso. Percorsi il giardino, chiusi il cancello e presi un'immensa boccata d'aria. Era così buio che non vedevo neppure dove fosse il mio cellulare nella borsa. Quando lo trovai chiamai un taxi, squillò e poi sentii la solita voce robotica, che mi passò quella di una vecchia signora. «Sì?», gracidò. «Miami Beach, ventitreesima strada, civico quindici. Aspetto sul molo», dissi. La signora salutò e poi riagganciò. Mi sedetti, con le gambe penzolanti sopra quel molo. Il cielo era nero, le stelle sembravano gocce di latte e la luna sembrava avere un naso, gli occhi ed una bocca. C'era un leggero vento, mentre il rumore delle onde sciogliersi sulla riva sembrava cullare i miei sensi. Sentivo l'odore dello iodio, le gocce raggiungevano la mia pelle, il suono penetrava soavemente nelle mie orecchie e il colore scuro del mare batteva quello del cielo. Sembrava che il mare volesse parlarmi, così chiusi gli occhi. Quando ripensai a papà una morsa mi strinse il cuore, la gola bruciò. Ero stordita, le palpebre erano troppo pesanti, le gambe deboli e il cervello sembrava confabulare voci. «Partiamo o no?», si ripeteva come un disco rotto, tormentando la mia mente confusa. Riaprii di scatto le palpebre quando quella voce sembrò reale, sembrò provenire da qualcuno. Mi chiesi se stavo impazzendo, se avessi bevuto o preso qualche strano medicinale con effetti collaterali. Mi sembrò di sentire una mano sulla mia, una figura accanto a me. Appena mi giravo di scatto scompariva. Sì, stavo impazzendo. «Non sei pazza», sentii dire o forse lo dissi io nella mia mente. Questo era troppo; facevo medicina, ero razionale, stavo diventando matta. Mi alzai di scatto e barcollai, poi vidi il taxi sulla strada e tentai di raggiungerlo il più velocemente possibile. Era buio pesto, non vedevo nulla e il cellulare iniziò a trillare senza sosta. "Sei bella anche stasera -J", "Guarda dietro di te -J", inviato almeno una decina di volte. Era come se alle mie spalle ci fosse la dea medusa, la curiosità di voltarmi cresceva senza freni ma con lei anche la paura. Mi precipitai dentro l'auto con il batticuore, le mani tremanti e gli occhi guizzanti. «Raven Road», boccheggiai, con l'aggeggio elettronico che balzava da una mano all'altra. L'autista non mi rivolse neppure lo sguardo, spostò lo specchietto impedendomi di vederlo in volto. Mi sentii mancare, non sapendo se essere più sicura dentro o fuori da quell'auto. «Tutto bene?», finalmente parlò e si girò verso di me. Sospirai dal sollievo, era un volto sconosciuto e dava una leggera rasserenazione. «C-certo. Ho fretta perciò..» Mise in moto, «partiamo subito», disse mettendosi in strada. Sospirai, tentando di far entrare l'aria nei polmoni malgrado la gola sembrò ristringersi. «Le piace Rita Ora?», chiese canticchiando su quelle note. «Cosa?», boccheggiai, totalmente distratta. «La canzone.. Le piace?» Annuii sbrigativamente, ticchettando con il tacco della scarpa per tutto il tempo. Chiamai subito Jake. «Ti stavo per chiamare», disse con voce fredda. «Scusa, Arizona ha avuto bisogno di aiuto per più tempo del previsto..», mentii. «Ah sì? Vuoi che te la passi?» Cazzo. «Okay, non sono al locale», ammisi. «No, non mi dire», disse con sarcasmo. «Ti spiego appena arrivo, promesso. Tu sei lì?», domandai. «Sì.» «Puoi rimanere lì che ti raggiungo?» Sospirò. «Va bene, ti aspetto», «un momento», indugiai. «Che c'è?» «C'è tanta gente? Al locale?», ansimai. «Non troppa», rispose lui. «Bene.. Senti, vedi quel ragazzo seduto da qualche parte.. Quello moro.. James, mi hai detto che l'hai visto litigare con Pola, no? È lì adesso?», boccheggiai. «No, perché? Alexis, che sta succedendo?», sentii la preoccupazione crescere nella sua voce. Merda, l'unica sera in cui quel tizio non si trovava lì avevo ricevuto messaggi anonimi e terrificanti. «Sto arrivando», riagganciai e rettificai l'indirizzo della destinazione. Quando finalmente l'auto si fermò saldai il conto e scesi mettendo piede a terra. C'era luce e gente abbastanza da darmi un briciolo di coraggio. Entrai nel locale con il batticuore, cercando con il mio sguardo il suo. «Ehy», sentii il suono della sua voce alle mie spalle, così rassicurante che ogni paura scomparve del tutto. Gli saltai tra le braccia. «Che succede?», domandò staccandomi per guardarmi negli occhi. «Ti prego, andiamo a casa», supplicai. «Stai bene? Dove sei stata? Mi hai fatto prendere un colpo», disse preoccupato. «Sto bene, sono stata da mia madre, ma ne parliamo domani. Per favore, sono stanca, domani ho il test di chimica», sospirai. «Va bene, andiamo a casa», disse dopo aver fatto un cenno a qualcuno nei tavoli infondo. Non mi girai a vedere, ma mi strinsi al suo braccio come un koala al suo albero. Salimmo in auto e poi partì verso casa sua. «Perché mi hai chiesto di James?» «Ero preoccupata per Pola». «Perché?», domandò. «Come perché? Le sta addosso», risposi. «Non più, mi ha detto che è di nuovo a Chicago. L'ha lasciata stare, il padre lo ha fatto mettere dentro», raccontò. L'unico a cui avevo pensato fino ad allora era lui, ma si trovava dietro alle sbarre in un altro stato. Un po' mi sollevava sapere che non ero stata presa di mira da un folle del genere, come aveva fatto con Polanska, ma d'altro canto, non ero tranquilla nel sapere che qualcuno di cui non conoscevo l'identità, mi mandava rose, messaggi e mi faceva sentire un topo in trappola. «Che sollievo», ero felice veramente per Pola, perché fino ad allora non eravamo riusciti a mettere la sua situazione apposto. La polizia non faceva nulla, l'aveva sempre rimandata a casa dicendo che non avevano niente, che avevano le mani legate. «Stai bene?», chiese ancora. «Sì, scusa se non te l'ho detto», dissi io. «Tranquilla.. Ma non voglio che te ne vai in giro da sola e di notte, c'è tanta gente strana in giro». «Ho diciotto anni, non tredici», rimbeccai. «Cosa c'entra? Ti saltano addosso di giorno, figurati di notte senza nessuno in giro», replicò. «Sì, va bene.» Accostò ed estrasse la chiave per poi scendere dall'auto. Feci lo stesso e poi ci avviammo alla porta, la aprì e mi fece strada. Era blindata, c'era l'allarme, ma non voleva dire un bel nulla. L'unica cosa che mi faceva sentire davvero al sicuro era la sua presenza. «Come è andata con tua madre?», domandò. «Con lei bene», risposi salendo le scale. «Hai detto con lei bene, perché è andata male con qualcun altro?», cavolo, dimenticavo sempre avesse un radar per le mie bugie/omissioni di verità. «No.. Lo giuro», aprii la porta della camera sentendo i suoi passi dietro ai miei e poi mi gettai priva di forze sul letto. «Quindi stai bene? È tutto okay?», domandò togliendosi le scarpe. «Esatto», andai in bagno a lavarmi i denti e poi mi vestii della sua maglietta con la quale dormivo. Ero stanchissima, mi infilai sotto alle coperte e attesi che finisse di farsi la doccia. Ero così assonnata che la paura era molto lontana. Oggi l'avevo provata davvero, nel puro senso della parola. Uscì gocciolante, sentii che premette l'interruttore della luce e poi si stese accanto a me emanando un ottimo profumo di pulito. Mi accoccolai sul suo petto umido mentre mi accarezzava i capelli. «Potevo venire con te.» «Non preoccuparti, è andato tutto bene», lo rassicurai. «Eri strana al telefono.» «Sono stanca, dormiamo.» Sospirò e poco dopo mi addormentai tranquilla. Mi svegliò cambiando posizione e mettendosi con l'addome contro il materasso. Mugolai e lo tirai affinché si rimettesse come prima. Mi ignorò totalmente, così mi appoggiai sulla sua schiena, che non era piacevole quanto il suo petto. Per vedere se si sarebbe svegliato gli baciai il tricipite scolpito e poi la mascella perfetta. Si svegliò e si rigirò per poi stringermi forte a sé. Mi baciò la fronte, richiusi le palpebre e mi rannicchiai. Stampò un bacio sulle mie labbra e poi mi bloccò i polsi verso l'alto intensificando il bacio. Circondai il suo collo con le mie braccia, stringendo il più possibile. Fece aderire il suo corpo contro al mio mentre scendeva sul collo con quelle labbra morbidissime. «Quanto sei stanca da uno a dieci?», domandò. «Non sono stanca», risposi. Premette le sue labbra contro le mie, «ti amo». «Anche io ti amo», risposi. «Ma mi hai mentito oggi, come mi menti sempre», intuì. «Non ti ho mentito», dissi, ma probabilmente il mio tono mi smascherò. «Di cosa avete parlato?», domandò. «Di tante cose, a partire dal fatto che Izzy continua a suscitare i miei istinti omicidi». Si ristese accanto a me e fissò il soffitto. «Non è tua sorella», intuì ancora. «Non è mia sorella. Ciò che non capisco è perché papà mi avesse mentito», riflettei. «Non importa ormai», disse lui. «Già, non importa più.»
«Hai perdonato tua madre quindi?» «Vorrei solo non volerla perdonare, ma non ci riesco. Ne ho bisogno, anche se lo so che..» «Che le persone non cambiano mai», terminò la mia frase. «Già. Le persone non cambiano così tanto.» «Ma a te non importa lo stesso, sbaglio?»
«Non posso farne a meno.»
Mi accoccolai contro il suo collo e posai la mano sul suo petto, godendomi il calore emanato dal suo corpo.
Alla luce del giorno tutto mi appariva differente, anche se mi sentivo ancora stordita per qualche ragione. Dormiva a pancia in sotto, tentai di svegliarlo stendendomici sopra e baciandogli il collo.
«Ti voglio», sussurrai al suo orecchio. Nemmeno quello era sufficiente, così iniziai a succhiare la sua pelle, che presto si arrossì.
Gli baciai l'angolo della bocca, descrivendo con le dita i muscoli della schiena. Si strofinò un occhio e una volta svegliato mi ritrovai sotto di lui. «Dovresti svegliarmi sempre così», disse facendo aderire il suo corpo al mio. Era caldo. Osservai gli spicchi di celeste in mezzo all'azzurro accecante che aveva negli occhi. Premetti le mie labbra contro alle sue e poi mi lasciò piccoli e morbidissimi baci sul collo. Mi sfiorò il ventre con le dita delicate e salì lentamente con le mani, mentre il mio respiro iniziava a farsi secondo dopo secondo più affannoso, per poi riscendere rapidamente. Intersecò le sue labbra alle mie e poi mi mordicchiò il labbro inferiore. Rotolai sopra di lui per fare ciò che volevo fare non appena mi ero svegliata. Posai le mie labbra sul suo petto, dove sentivo il suo cuore battere all'impazzata. Baciai la sua pelle, la sfiorai con la lingua scendendo lentamente. Ansimò accarezzandomi la nuca. «Niente più bei risvegli se torniamo al college», mi ricordò. Il suo respiro era sempre più affannoso, così mentre lo baciavo sugli addominali che si contraevano strofinai la mia mano sul suo petto. Sentii la sua reazione contro il mio seno, allora sì che anche il mio cuore tamburellò ferocemente nel torace. Qualcuno bussò forte alla porta, proprio nel momento in cui mi sentivo più in difficoltà. Ma che avrei dovuto fare? Volevo dargli piacere, ma non se poi mi avesse creduto una.. Come dire.. una ragazza particolarmente esperta in quel genere di cose. «Che c'è?», chiese lui scocciato. «Avevi detto che stamattina mi avresti portata sulla spiaggia», brontolò Annabelle dall'altra parte della porta. «Mi sono dimenticato, facciamo domani okay?», chiese lui. «Domani dirai lo stesso, come sempre», disse, e poi sentii i suoi passi rapidi allontanarsi per il piano. Mi rimisi in piedi e mi avviai verso il bagno mentre lui la raggiungeva. Mi insaponai il corpo ed i capelli, prima di sciacquarmi totalmente ed avvolgermi nell'accappatoio rosa. Asciugai la chioma, infilai la biancheria e tornai in camera per frugare nell'armadio e trovare qualcosa di decente. Indossai dei jeans, una t-shirt bordeaux e le converse. Dopo un po' di passate di mascara scesi di sotto e mi sedetti a tavola. Cass sfogliava una rivista di abiti da spose con un'espressione corrucciata. «Uffa, non mi piace nulla», brontolò. Bill mi versò la spremuta d'arancia e poi Matt posò sul tavolo una scatola fumeggiante. «Sono muffin», esordì prima di sedersi. Ne afferrai uno, golosissima. Sentii la porta di casa aprirsi, Jake era ancora in boxer mentre portava Anna sulle spalle. «Tu sei matto», dissi masticando. Cass si voltò, mentre lui faceva la sua sfilata in cucina. «Avere un bel culo è una caratteristica di famiglia», se ne uscì. Sollevai le sopracciglia mentre lui apriva il frigorifero. «Mia in particolare», precisò Jake. «Tranquilla mia futura sposa, fai pure apprezzamenti su mio fratello», ridacchiò Andrew. Jake fece scendere Annabelle, che grazie al cielo aveva le sue solite cuffiette nelle orecchie. Iniziò a ballare agitando i pugni al cielo e scatenandosi. Avevo una risata possente bloccata nella gola, non doveva uscire, no. Alexis, non osare ridere. Era troppo bella e dolce mentre si muoveva come una pazza. Jake era piegato in due dal ridere, cosa che purtroppo contagiò anche me. Mi nascosi dietro ai capelli, per paura che si offendesse ma stavo letteralmente per piangere e scalciare. Era disarmante la forza che poteva uscire da una bambina così graziosa. Matt la fissava sgomento, Andrew lacrimava e Cass seguiva appena il ritmo della canzone. Bill sembrava il più scioccato, «non è mia figlia.» Risi più forte, e temetti di perdere un polmone. Continuò a ballare roteando verso un'altra stanza, e finalmente ebbi l'occasione per ridere incontrollatamente e riprendere aria.
Diedi a Jake una sberla sul braccio, «muoviti», lo esortai. Mi legò le braccia sotto al seno e poi si avvicinò suadentemente al mio orecchio. «Non dovevamo fare la doccia insieme?», sussurrò, riempiendo il mio corpo di migliaia di brividi. Quel ragazzo trasudava sesso da ogni poro.
«L-l'ho già fatta», balbettai sottovoce. «E non vuoi rifarla? Conosco molti modi per fare la doccia sai?», parte di me voleva correre di sopra togliergli i boxer e sfiorare con la mia lingua ogni piccola parte del suo corpo. Ma avevo un test in prima ora, e non poteva andare male perché non avevo ripassato prima dell'esame, e non potevo tantomeno arrivare tardi. «Non posso», tentai di sembrare ferma, quando mi sarebbe bastato un no niente per lasciarmi convincere. Per fortuna fu gentile, mi si sedette accanto e mi posò la mano sulla gamba. «Non sai che ti perdi», sorrise maliziosamente, e mi strinse con forza l'interno coscia. Eh no, conoscevo bene quel trucchetto. Inforchettai la sua mano, cadde in un grido di dolore e sorrisi vittoriosa. Bevvi la spremuta, finii di fare colazione sotto al suo sguardo irresistibile. Ce ne erano vari tipi, quelli che preferivo erano: quello sexy, che faceva a tutte le ragazze affinché gli cadessero ai piedi l'anno precedente, e quello dolce da cucciolo. Gli occhioni blu erano del tutto irresistibili, e sapeva che quando me li faceva per poco non svenivo. «Dai smettila», dissi alzandomi in piedi. Spinsi la sedia dentro il tavolo e quando mi diressi verso l'uscita della cucina sentii i suoi passi dietro ai miei. «Non ho mai dovuto implorare una ragazza», disse premendomi qualcosa contro la schiena ed il sedere. Mi prese i fianchi tra le mani, quando tentai inutilmente di smuovermi sulla soglia della porta. «Mi sto spazientendo. Lasciami andare a scuola, per favore», dissi secca, aspettandomi che non mi avrebbe mai liberata dalla sua stretta. Stranamente mi lasciò, e potei tranquillamente raggiungere il bagno della camera per lavarmi i denti, mentre si faceva la doccia senza di me. Misi la mia borsa in spalla, lui si vestì e prese il borsone da football. Salimmo in auto e come sempre mi assalì la solita paura. Iniziai a mangiucchiarmi le unghie, il test sarebbe andato malissimo, una strage, sarei stata bocciata. «Senti.. Non mi va», feci per riaprire lo sportello ed evadere ma attivò il blocco. «Non vai da nessuna parte», preannunciò mettendo in moto. «Dai! Questo è un sequestro, lasciami andare, ho cambiato idea, andrà male», farfugliai ansiosa. «No, non andrà male, smettila», mi rassicurò. «Sono.. Mediocre. Non c'è cosa peggiore che essere mediocri», dissi tormentata. «Smettila. Il secondo anno non è il primo, un ventotto va benissimo, stai tranquilla.» «Facile per te dirlo, tu non sei mediocre, a te piace, a me no, lo odio, basta, non mi piace, non mi piace, non mi piace, voglio stare a casa», brontolai senza sosta. Partì, ignorandomi. «Per favore, piantala», mi zittì. «Non puoi dire così. Tu non mi ascolti.. Io ti sto dicendo che non voglio».
«Non è sempre così, no? A volte piace anche a te, sei brava», tentò di convincermi. «A volte mi piace l'idea sì.. Ma non come piace a te», spiegai. «Frequentare medicina non vuol dire diventare un chirurgo, non avere un rapporto con i tuoi figli.. Pensare solo al lavoro. È quello che sai fare, fai quello che sai fare», disse. Brontolai a lungo, poi parcheggiò l'auto e scese. Mi bloccai difronte al cancello, «avanti», mi esortò. Lo guardai come un cerbiatto impaurito indugiando, ma poi mi caricò in spalla sotto agli occhi di tutto il corpo studentesco. Strepitai tentando di liberarmi, ma niente; non sarebbe stato soddisfatto finché non mi fossi seduta su quella dannata sedia in quella maledetta aula per quello stupido test. Mi rimise in piedi una volta arrivati a destinazione, mi riavviò i capelli dietro alle orecchie e poi sorrise. «Credi di più in te stessa», disse prendendomi le guance nelle mani. Probabilmente avevo un'espressione imbronciata, scocciata ed annoiata. Lo capii perché la sua si addolciva sempre quando l'assumevo. «Oggi dobbiamo fare quella cosa», gli ricordai sbuffando. «Sì me lo ricordo. Alle cinque e un quarto, sii puntuale», raccomandò. «M-ma poi diventerò grassa..», mi tappò la bocca con un altro bacio.
«Non diventerai grassa.. E se fosse per me io ti sposerei, ti metterei incinta volentieri e abiterei in una villa sperduta con te. Ma abbiamo vent'anni, perciò mi tocca aspettarti. Aspettavo solo te, da quando ti ho conosciuta.»Spazioautrice
Se vi è piaciuto commentate e cliccate la stellina che per me è molto importante! Se volete essere aggiunte al gruppo di whatsapp datemi i numeri in chat❤️ho una pagina Instagram @amaminonostantetutto scusate eventuali errori.
Scrivo altre tre storie: ASPETTAVO SOLO TE, BORN TO DIE, UNEXPECTED. Baci a tutte, grazie 💙💙💙
STAI LEGGENDO
Amami nonostante tutto 2
RomanceUn vorticoso nulla si è appropriato della vita di Alexis. Al college sperava di trovare un inizio, non una disastrosa fine; eppure, nonostante una voce dentro di lei le consigli di scappare, un'altra la obbliga a rimanere. Forse con la speranza che...