20. Anyway

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20. Comunque.

«Scusami. Non ti avevo visto e... Scusami. Non l'ho fatto apposta solo... Io, io ero con la testa altrove», balbettai. La bellezza disarmante aveva sempre avuto quello strano effetto su di me. Ero troppo timida, troppo impacciata e sbadata; un vero disastro. Se solo mia madre al telefono in quel momento non mi stesse facendo mille domande senza sosta, non gli sarei andata addosso come se fossi un camion in corsa. All'inizio i perfetti lineamenti sembravano piuttosto tesi. Poteva essersi infuriato tanto solo perché gli avevo schiacciato il piede? Mah. Eppure adesso mi sembrava di intravedere un sorriso. Una fossetta si formò sulla sua guancia e il mio cuore mancò un battito. «Tranquilla», disse, sembrando quasi divertito. «Sei qui sola miss delicatezza?», chiese sghembo e beffardo, facendo in modo che il sorriso luminoso si aprisse di più sul suo volto. «Sì...», dissi sottovoce, e temetti che non mi avesse neppure sentito. Ero intimidita ed in soggezione, desideravo solo scappare. «Una ragazza così timida, impacciata e bella, sola in un college?», domandò accigliandosi. Quell'espressione forse gli stava anche meglio delle precedenti. Sentii le guance ardere, il sangue pompare solo sulla testa, che girava come una gabbia per criceti. Timida, sola, impacciata e bella? Sembrava il forum delle ragazze sfigate su Twitter. «Devo cercare la mia camera», dissi deglutendo, e poi feci per evitarlo. Mi si piazzò davanti, ostacolando la mia strada. Venni immediatamente inebriata da un ottimo profumo. «Sai dove si trova?», domandò. «La troverò», dissi, facendo per tagliare la corda. «Qual è il numero?», chiese impertinente. «Perché?», mi accigliai. «Posso aiutarti a trovarla», sorrise, con tutta l'aria di essere gentile. Perché avrei dovuto dire di no? Avrei trovato la mia camera più in fretta. Mi tenni stretta la borsa alla spalla ed acconsentii annuendo. «Jake», mi porse la mano. «Alexis», quasi sussurrai, stringendola. Non la ritirò, ma continuò a guardarmi con l'aria di chi la sa lunga. «Manhattan?», fece un tentativo. Annuii ancora. «Mmh, diciannove anni?» Non gli avrei mai detto che ero così piccola, non ero neppure maggiorenne. Chi avrebbe preso sul serio una diciassettenne al college? «Mi dici dov'è questa camera oppure vuoi farmi il terzo grado in mezzo al corridoio?», domandai, forse sembrando più seccata di quanto in realtà non fossi. Si sorprese per quella risposta, troppo peperina per i miei canoni. «Ed io che credevo fossi una ragazza gentile», sorrise ritirando la mano. «È la centosettantuno», dichiarai. Allargò le palpebre. «Proprio difronte alla mia... Che stranezza. Forse è un segno del destino», ipotizzò. Prese le mie valigie nei suoi palmi. Si voltò e si diresse verso sinistra, ed io intuii dovessi seguirlo. «Un segno del destino?», per poco non risi. «Non prenderti gioco di me, diciassettenne asociale», mi beffeggiò. «Come fai a sapere che ho diciassette anni?», mormorai, per evitare di farmi sentire dalla gente. Svoltammo l'angolo. «Non ti chiedi come faccio a sapere che sei asociale?», bisbigliò, imitando il mio tono di voce, sempre con il fine di schernirmi. «Io non sono asociale, sono molto selettiva riguardo alle amicizie», precisai. «Perché? Papino ha detto di non dare confidenza agli sconosciuti?», mi derise, di nuovo. Sì, lo aveva fatto all'incirca dieci volte nell'ultima settimana. «Sei sempre così maleducato?», chiesi ufficialmente irritata da quell'atteggiamento da sbruffone. Perché doveva prendersi gioco di me, senza nemmeno sapere chi fossi? «Perdonami. Posso sempre aggiungermi al tuo club di dissociati e disadattati?», rise di più, dando poi un colpo di tosse. Mi offesi. «La camera me la cerco da sola, grazie», dissi arrabbiata, accelerando il passo. Pensava forse di potermi prendere in giro perché aveva un bell'aspetto? Sentii una mano attorno al mio polso. «Non starò qui a farmi insultare da un perfetto sconosciuto», chiarii. «Scusami, scherzavo. Sei molto permalosa te l'hanno mai detto?», domandò ancora, con lo stesso tono strafottente. «Continui ad insultarmi! Sei un arrogante e presuntuoso. Preferisco il mio club di disadattati piuttosto che il tuo di idioti», sbottai. Non credetti alle parole uscite dalle mie labbra. Non avevo mai parlato in modo così maleducato a qualcuno, i miei genitori mi avevano sempre detto che fosse totalmente inaccettabile.
«È quella la tua camera, tesoro», disse facendo un cenno alle mie spalle. Mi girai, sospirai tentando di non pensare a quanto fosse irritante, e tirai fuori le chiavi dalla mia tasca. «Spero di vederti al falò sulla spiaggia di stasera», disse alle mie spalle. Mi risultò impossibile girare le chiavi nella serratura, dato che la mano iniziò a tremare. «Così la rompi», ridacchiò. Tentai di aprirla per i seguenti due minuti, finché non appoggiò la sua mano sulla mia e in un secondo la fece aprire. «Ho detto che spero di vederti, non dici niente?», chiese sorpreso, come se quella reazione gli fosse del tutto nuova. Lo immaginavo, era il ragazzo più bello nel quale mi fossi mai imbattuta. Ma era terribilmente arrogante. Roteai di poco il collo, cercando il suo sguardo. «No, perché io spero di non vederti», risposi sorridendo subdolamente. Essere cattivi faceva sentire bene! Allargò le palpebre. «Per favore. Sei bellissima... Voglio vederti stasera». «Non ti conosco. E sono fi-dan-za-ta, chiaro?», ringhiai. «Una come te ha persino un ragazzo?», chiese, e per poco non mi scoppiò a ridere in faccia. Mi ferì veramente. Era così assurdo credere che io avessi potuto avere un ragazzo? Ero così patetica e... Brutta? Aveva detto che mi trovava bellissima o più probabilmente era in senso ironico? «Sparisci», dissi, tentando di non fargli vedere quanto ci fossi rimasta male. «Scusa, intendevo dire che...» «È stato un piacere», entrai in camera e chiusi la porta alle mie spalle.
Sospirai, con un magone nello stomaco. Che fastidioso quel ragazzo, sperai di non vederlo mai più. «Entri sempre così di soppiatto nelle camere?», chiese una voce femminile. Mi voltai, e incontrai lo sguardo di una ragazza  bionda, occhi castani, magra e alta. Lei sì che era bella, non come me.
«Scusami. Pensavo che fosse la mia stanza e...» «Lo è. Sono nuova. Mi chiamo Julie». Mi porse la mano, io timidamente la strinsi. «Alexis». Sperai subito che in lei avrei trovato un'amica. «È un piacere», sorrise. «Saremo grandi amiche», strinse l'occhio, e poi si guardò intorno. «Spero non ce ne sia una terza! Sai che stasera c'è una festa? Ci andremo insieme? Aspetta... Da dove vieni?», accalcò una domanda dietro all'altra, e non appena trovavo una risposta, me ne porgeva una nuova. «Manhattan», risposi. «E per la festa... Be' non credo sia il caso...», risposi balbettando. «Manhattan? I miei genitori sono di Manhattan! Io vivo in Kansas con i miei nonni, o meglio, vivevo. Dovevo assolutamente scappare da quella fattoria e venire qui... Trovarmi un'amica che mi accompagnasse alle feste. Come te», sorrise. «Io? Non sono il tipo da feste. Non posso venire», scossi il capo prima che mi afferrasse le spalle. «Tu verrai», scandì bene le due parole. «Mi dispiace, non posso», obiettai a bassa voce. «Avanti... Siamo matricole, dobbiamo partecipare». Questa ragazza era molto decisa, neppure mi conosceva e già voleva impartirmi ordini. Ma come potevo rifiutare? Dovevo far nuove amicizie e risultare simpatica alla mia nuova compagna di stanza. «Non ho niente da mettere», borbottai. Julie sospirò, e sollevo gli occhi al cielo. «Sei di Manhattan, non mentirmi», disse assottigliando lo sguardo. Mi morsi forte il labbro. «E va bene ma farò solo un salto», preannunciai. «Allora non andremo mai d'accordo. Io amo le feste», disse trotterellando da una parte all'altra nella camera. Sospirai, triste. Mi sedetti sul letto, quel college non era come pensavo. Non volevo stare lì; volevo stare con papà a Manhattan, con i miei due fratelli... Qui mi sentivo sola. La mia nuova compagna di stanza neppure mi rivolse la parola, non dovevo piacerle molto. Frugò a lungo nella valigia, tirando fuori vestiti, trucchi, accessori. Io contemplavo il paesaggio al di fuori della finestra, alla quale avevo avvicinato il mio letto. Ripensai e ripensai al ragazzo biondo dagli occhi blu elettrico, e tutto ciò che mi aveva detto in quel tragitto. "Una come te ha persino un ragazzo?" Insomma non sarò stata granché ma nemmeno ero così inguardabile... Sentivo un bruciore nella gola, casa mia già mi mancava. Avevo insistito tanto per farmi lasciare libera dai miei, ed ora ero sola in questo posto immenso. Giù nel campus vedevo la gente scaricare la loro roba, entrare negli istituti, brulicare ovunque, mentre il sole batteva sul verde ed immenso prato. Senza accorgermene assistetti al tramonto, al crepuscolo, sotto ad uno sguardo malinconico e nostalgico. «Alexis, mi stai ascoltando? Non parli proprio mai tu?», mi accorsi solo ad allora nella sua voce; probabilmente fino a quel momento le sue chiacchiere sull'abbigliamento che sembravano più rivolte a sé stessa che a me, erano stati percepiti come un brusio di sottofondo. Sospirai. Non ero una persona che parlava molto con la gente: la gente non mi piaceva, o forse io non piacevo a loro. A Manhattan avevo solo un'amica, Izzy. Lei era come mia sorella, era la mia metà. Condividevamo tutto, finché un giorno il nostro legame si sciolse, scomparì. D'un tratto mi ero ritrovata sola, più sola di prima. Lei aveva raccontato a tutti che ero una figlia di papà, e che ero raccomandata. Aveva detto che tutto ciò che avevo ottenuto era stato grazie al mio cognome, e alle mie avance con il preside. Era assurdo, quando le voci mi arrivarono non potevo crederci che l'avesse fatto. Mia madre voleva denunciarla, essendo avvocato si appellava per qualsiasi cosa al codice della legge. Diceva che io ero intoccabile, e che ero incorruttibile, la persona più pura che esistesse al mondo. La mia famiglia non era solo un pilastro della mia vita, era tutto ciò che avevo. Julie era truccata e vestita, quando si mise la borsa sull'avambraccio. «Ancora non ti sei preparata?», tuonò. Mi resi conto che la sera era arrivata, la gente percorreva il campus diretta verso la boscaglia dietro allo studentato femminile. Le ragazze erano tutte così belle... Non volevo andare lì e farmi calare ancor di più l'autostima, che in quel giorno era già sotto alle suole delle mie scarpe. «Devo?», chiesi restia. Allargò le palpebre, sospirò, forse per fermare la sua rabbia nei miei confronti. Non disse niente, e con una ruga tra le sopracciglia di spedì verso la sua valigia. Tirò fuori un vestito bianco, bianco o forse perlaceo. Era splendido. Aprì un piccolo astuccio cilindrico verde, e tirò fuori tubi di cui non conoscevo l'esistenza. «Allora, infilati questo... Intanto ti trovo le scarpe», farneticò, dandosi una rapida occhiata intorno, alla ricerca di una delle sue valigie. Due erano verdi, una rossa. Aprì quest'ultima con un po' di sforzo, e poi tirò fuori dei decolté neri. Stralunai gli occhi. «Non ci so camminare!», mi opposi. «Ne hai mai provati?», domandò retorica, sollevando un sopraccigli0. «No ma... Già lo so. Non li ho mai portati...», bofonchiai. Li appoggiò ai piedi del mio letto. «Vestiti, entro due minuti». Il suo tono autoritario non mi era antipatico; forse perché comandava con un sorriso dolce, o forse perché i suoi occhi mi trasmettevano tranquillità. Controvoglia obbedii, la ringraziai per avermi prestato la sua roba. Non era strano prestare i propri vestiti ad una persona che si conosce solo da qualche ora? Julie era strana, molto strana, ma mi piaceva, più di quanto non mi fosse piaciuta poco prima. Chiacchierammo mentre mi metteva il mascara, e venni a sapere che aveva diciannove anni, aveva sempre vissuto con i nonni ed il fratello, voleva fare il chirurgo pediatrico ed amava i waffle.
Mi guardai allo specchio. Quel vestito era splendido, calzava morbido, era di seta. Mai visto un vestito così bello. «Sei stupenda, Ally», disse saltando sui tacchi, soddisfatta del suo lavoro. «Ally?», mi accigliai, sorridendo. Anche Izzy mi aveva dato dei nomignoli in passato, e che adesso lo facesse anche la mia nuova amica -se così era definibile- mi faceva molto piacere. «Già. È adatto a te e a quelle belle guanciotte rosse», disse sorridendo. Lo feci anche io.
Arrivammo nel corridoio. «Ho una fame incontrollata, spero ci sarà cibo, cibo e cibo!», confessò, facendomi ridere. «Ho una voglia matta di pizza», dissi sentendo un languore nello stomaco. «So che in Italia è decisamente meglio! Un giorno ci andremo?», sognò. «Certo... Anche se ci sono già stata all'incirca dieci volte...», ridacchiai. «Sul serio? Hai girato tutto il mondo? Quante lingue sai?», strabuzzò gli occhi. «Inglese, spagnolo, francese, italiano, tedesco... Ho studiato il cinese per un anno, ma non lo so pronunciare per nulla», risi io. Rise anche lei, sbalordita. Scendemmo di sotto chiacchierando; decisi che Julie mi piaceva. Raggiungemmo quella festa, seguendo la scia di fumo che nasceva nel focolare. Julie mi porse uno dei due bicchieri rossi che aveva colto da quel tavolo. «Oh mio Dio, che figo assurdo!», gridò, spalancando le palpebre. Accigliata ed incuriosita, mi voltai. Il ragazzo di prima. Era lui. Nella mano aveva stretto un bicchiere mentre l'altra era impegnata nello stringere quella di un altro ragazzo. Costui era pompato, vestito con una maglietta della squadra di soccer, lo sguardo truce, mentre qualche gocciolina di sudore gli colava dalla fronte. «Tre... Due... Uno», disse un moro dietro al tronco di legno mozzato, dove stavano per fare quella dimostrazione idiota tra maschi alfa. I primi segni di sforzi si intravidero in quello sconosciuto giocatore di soccer, mentre lo Stronzo, con i suoi bei occhi blu, i capelli perfetti, la camicia aperta nei primi due bottoni, si scolava il contenuto di quel bicchierino. Passò un attimo, il suo bicipite si contrasse, e subito dopo stese il braccio del poveretto che aveva appena mugolato un lamento.
«Ma qual è il premio?», domandò Jake insoddisfatto, rivolgendosi al moro dietro al tronco d'albero. «Puoi baciare...», esordì lui gridando, guardandosi intorno. Di scatto mi girai, sperando che non mi avesse notata a fissarli incuriosita, anche se l'aveva fatto anche il resto del corpo studentesco. «La ragazza con il vestito bianco.» Raggelai, avvampai, raggelai, avvampai. Odiavo quando la gente si accorgeva di me, ma ehi, non ero l'unica ragazza vestita di bianco. Sospirai, tentando di calmare il battito cardiaco. «Ehi, ragazza dal vestito bianco», sentii dire. La voce era diversa, era quella di mister stronzaggine. Il mio cuore si fermò per un attimo, poi ripartì più veloce e forte di prima. «Oh Dio, parla con te!», bisbigliò Julie, dandomi una forte gomitata. Mi sentii prendere per i fianchi. Il mio cuore fece una capriola. «Non posso proprio crederci», disse quando mi girai. Indietreggiai tentando di sottrarmi alle sue mani impertinenti ed affrettate. «Ancora tu...», mi lamentai, seccata. Allargò le palpebre, come Julie, come tutti nel raggio di un chilometro. Sorpreso ed offeso. «Che vuol dire "ancora tu"?», chiese sconcertato. «Hai vinto un bacio, ragazza dal vestito bianco», disse, come se fosse più possibile che non avessi sentito a due metri di distanza, piuttosto che non lo volessi assolutamente baciare. «Tu hai vinto un bacio. Preferirei strapparmi via gli occhi dalle orbite che baciarti», risposi seccamente. Questa volta sorrise, in modo beffardo e divertito. «La prendo come una sfida», afferrò il tessuto di seta bianca nel suo palmo, scoprendo un centimetro in più della mia coscia. Percepii il suo respiro sulla mia pelle...
Volsi lo sguardo alla luminosa distesa di celeste, movimentata, rumorosa. Le onde mi affascinavano quando spumeggianti arrivavano a riva. Sentii il verso dei gabbiani, mentre alcuni facevano sosta dal volo su quel molo. Il sole, nonostante fosse inverno e facesse freddo, batteva caldo sul mare. Il mare era infinito, più dell'universo. Fissai l'orizzonte seduta sulla riva, inebriando quell'odore, affondando i piedi nella sabbia d'orata dove risplendeva il sole. L'acqua fredda mi bagnò e intorpidì le dita dei piedi. Lasciai che un raggio mi baciasse il volto. Alla mia destra c'era solo sabbia, mentre a sinistra la spiaggia terminava in un ammasso di scogli bagnati. Presi una grande boccata d'aria, stringendomi in quel maglione caldo, soffice.
«E se fosse più complicato di così?», domandai, trovando un sasso piatto, e lanciandolo verso l'acqua. Fece un paio di rimbalzi, prima di affondare negli abissi.
«Non è mai complicato», rispose cogliendone uno. Era bianco, tondo. «Sembra la luna», osservai assottigliando lo sguardo, abbagliata dalla luce. «Ci sono delle cose che non si possono nascondere, tesoro. Due di queste sono la luna e la verità». Lo lanciò, fece tre o quattro rimbalzi prima di scomparire. «La verità?», domandai confusa da quelle parole vaghe. «Se qualcuno non vuole il tuo amore non è degno di te.» Sorrisi, poi il labbro iniziò a tremare. «Avrei davvero voluto che tu fossi fiero di me... Mi dispiace. Ho solo fallito. I-io lo faccio sempre», dissi con voce tremante, mentre delle lacrime fredde mi rigavano le guance. «Lo sono. Lo sono, e ti amo infinitamente, più di quanto nessuno ti amerà mai.»
«Non voglio svegliarmi papà. Non voglio che questo sia solo un sogno. Vorrei poter rimanere qui con te per sempre», dissi sognante, allontanandomi da ciò che era stata solo un'immaginazione. Stava scomparendo secondo dopo secondo. «Io sarò con te per sempre», disse forzando un sorriso, che non era rassicurante. «Questo non è vero», replicai, mentre dell'acqua mi scendeva dalle ciglia. «Se tu fossi con me adesso mi diresti cosa fare...», singhiozzai. «A volte bisogna solo lasciare andare», rispose lui, mentre le solite rughe gli si formavano agli angoli degli occhi.
Mi rivolse uno dei suoi sorrisi buoni, prima che il mio cervello realizzò che quello era solo un sogno. Un sogno surreale, partito dal college, ad un viaggio al mare. Vedere papà era stato così bello che al mio risveglio provavo un grande senso di tristezza e di infinita delusione.

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