15. I'll never enough of you

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15. Non ne avrò mai abbastanza di te.

Il freddo mi fece accapponare di brividi la pelle. Una folata di vento si insinuò gelida dalla finestra, scansando le coperte dalla mia schiena nuda. «Amore», sentii bisbigliare vicino al mio orecchio. Mi spostò i capelli dalla schiena e lasciò una fila di baci lungo la mia spina dorsale. «Mmh...», mugolai, strofinandomi gli occhi con i pugni. «Siamo in ritardo», mormorò ancora. «Che importa. Ho sonno», bofonchiai. Non appena risposi venni tempestata di baci.
«A volte ti vorrei mangiare», disse, continuando a baciarmi ovunque. Sentii le sue labbra calde e soffici sul collo. «Sei troppo...», sembrò non riuscire a trovare un aggettivo esatto. Non capivo veramente cosa volesse dire, avevo solo un gran sonno. «Shh», lo zittii, dal mondo dei sogni. Sentii un risolino, «sono le sette e un quarto.» Si sollevò in piedi e si diresse verso il bagno. «Jaaake!», mi lamentai, strascicando la "a". «Che c'è?», chiese affacciandosi dalla porta. «Dai... Vieni», gemetti con voce roca. Sorrise, «mi hai appena zittito», mi ricordò. «Uffa», sbuffai  richiudendo gli occhi. «La mattina...» «Ti devo fare le coccole sì sì, lo so», mi interruppe, ritornando a letto. Mi baciò teneramente sulle labbra e poi mi strinse contro il suo petto che emanava un calore piacevole.
«Ti amo, biondina», mi baciò la testa. Sentii il cuore sciogliersi come burro al sole. «Peccato che non è mattina. Sono le sette e un quarto di pomeriggio», ridacchiò. Giusto! Dovevo fare un breve pisolino prima di andare a cena da mamma... E avevo collassato nel letto per tre ore. Riaprii gli occhi, ero così stremata. Prese la maglietta che giaceva sulla poltrona e me la infilò per le braccia e per la testa. Io mi gettai a pancia in sotto, «andiamo, è tardi», disse lui. «Altri cinque minuti», supplicai. Me li concesse, e nel frattempo sentii che si stava facendo una doccia. Il rumore del gettò dell'acqua cessò totalmente, sentii la tendina spostarsi, e i suoi passi tornare verso di me. «Dieci minuti buoni. Saremo lì tra un'ora e mezza», disse dandomi una pacca sul sedere. «St», lo zittii ancora, prima che mi afferrasse i polsi per farmi rimettere seduta. Ero imbronciata. Prese dei jeans dal mio armadio e me li fece indossare, prima per una gamba, poi per l'altra. «Et voilà», disse prima di rialzarsi in piedi. Si vestì, bene come ogni giorno. «Allora.. "Sento freddo", vuol dire "portami a casa e inventati una scusa". Chiaro?», domandai. Rise sommessamente, «non dire cavolate.» Controvoglia mi misi in piedi e infilai le converse. Andai in bagno, i miei capelli erano arruffatissimi. Presi una spazzola per pettinarmi, pulii i resti del mascara sulla palpebra inferiore, per mettere qualche altra passata fresca. Il cellulare squillò sopra la lavatrice, non era un messaggio, stranamente non me ne arrivavano più. Mi sollevava.
«Lexie», sentii la voce di Julie, più squillante e allarmata del solido. «Che c'è?», chiesi intenta nel passare lo scovolino nelle ciglia inferiori. «Qui... Ti cerca Parker, con i risultati di quelle analisi», mi informò. «Ah! Giusto. Sei in ospedale?», domandai. «Sì, noi ci avviamo tra un po'. Intanto perché non venite qui? Questo dice che ti deve dare subito i risultati!», ansimò. «Che vuol dire? Oh mio Dio... Non dirmi che sono veramente incinta!», gridai spaventata. «Gliel'ho chiesto... Non risponde! Però anche tu... La vuoi prendere questa dannata pillola?» «No! Diventerò grassa... Avevo l'appuntamento l'altro giorno, ma non ci sono più andata», spiegai, angosciata. «Non diventerai grassa, stupida», disse ridendo. «Mi verrà un sedere gigante, no grazie», replicai. Rise di più, «e va bene. Fa come vuoi, ma sempre a tuo rischio e pericolo», mi avvertì. Odiavo quando lo faceva, dopo mi diceva sempre "io ti avevo avvertita".
«Diventerai grassa eh?», sentii dire alle mie spalle da lui, che si era appena orecchiato parte della conversazione. Le sue mani mi scesero sui glutei l'attimo dopo, «ci sarà ancora più roba da toccare.»
Mi fece avanzare contro il lavandino e per poco non mi puntai il mascara nella pupilla.
Risi, «andiamo in ospedale. L'altro giorno ho fatto delle analisi. Un tizio vuole che le ritiri».
Annuì, «come vuoi.»
Diedi un'altra passata di spazzola e tornai in camera. Indossai la giacca, presi la borsa e ci infilai dentro cellulare e chiavi. «La macchina è nel vialetto, la porto qui sotto», disse prima di uscire dalla porta. Sentii una bella canzone ad alto volume, poi Annabelle trotterellò per tutto il corridoio ballandola. La seguii a ritmo di musica e mi misi a ballare come una idiota. «Mi insegni a ballare?», domandò d'un tratto, riprendendo fiato. Sorrisi, «ma tu sei già bravissima.» «Uffa! Dico sul serio. Ballare, come un angelo...», disse lasciandosi trasportare dal vento come una foglia leggera. «Tu sei già un angelo». La presi in braccio, e gli diedi tanti baci sulla guancia. «Tu facevi danza?», domandò. Annuii. «Perché hai smesso?», chiese curiosa. «I miei genitori dicevano che non avevo tempo», spiegai. «Ma tu lo avevi?», domandò. Come faceva ad essere così intelligente? «Già, lo avevo. Come lo avevo per disegnare», raccontai. «Avresti dovuto continuare lo stesso», bofonchiò, pronunciava la "r" ancora così teneramente. «Lo so», sospirai. «Ma ormai... È andata così», sorrisi debolmente. «La mattina fai sempre le lagne per andare all'Università. Poi Jake va a prendere la macchina e ti mette sulla spalla... Come fa con me quando non voglio andare a scuola», disse. «Ma dobbiamo farlo comunque... Abbiamo dei doveri», sospirai. «No. Io devo farlo comunque. Io sono ancora piccola, tu sei grande. Non devi fare il dottore per forza se non ti piace.» Come poteva una bambina di sei anni essere più intelligente di me? Le accarezzai la testa bionda, «sei così saggia... Ma è più complicato di così», diedi un'ampia boccata d'aria. «Lexie! Muoviti», sentii gridare da sotto. Rimisi a terra Annabelle, le baciai la testa e poi scesi frettolosamente per le scale.
Quando arrivai in ospedale mi avviai freneticamente verso lo sportello, con il cuore che balzava all'impazzata da una parte all'altra del torace. Sono proprio stupida! Me la sono cercata... Se sono incinta è la fine della mia vita.
Arrivata difronte allo sportello dell'infermiere, vidi quel Parker con un caffè in mano, mentre guardava il monitor. Sollevò lo sguardo. «Uh, eccoti», sussurrò. «Muoviti», ordinai, con il sangue che veniva pompato nelle vene in brevissime frazioni di secondo.
Accigliato prese una busta, la busta che conteneva le mie analisi del sangue. Se fossi stata incinta si sarebbe visto per gli ormoni sbalzati. La scartai rapidamente.
Cacciai un immenso e profondo sospiro di sollievo. Dio grazie!
«Non sono incinta!», esclamai sprizzando gioia da ogni poro. «Non è tutto», mi indicò il basso del foglio. Io accigliata lessi rapidamente, ma non capivo bene cosa volessero dire quei valori. «LSD, avevi LSD nel sangue, quando hai fatto le analisi.»
Dei pensieri mi attraversarono il cervello come treni in corsa: alluzinazioni, stordimento, stanchezza. Quelle voci che si confondevano con le onde del mare... Non era la mia testa a parlare. Era solo una percezione distorta della realtà a causa dell'LSD, presente nel mio sangue. Ma cosa ci faceva? Di certo non mi ero drogata! «Non ho assunto niente del genere», dissi severa, puntandogli gli occhi contro, carichi di accusa. «Questo è quello che è risultato. Sei andata ad una festa? Hai bevuto da bicchieri che ti hanno offerto sconosciuti?», domandò. No. Quella sera ero stata a casa di mia madre... Non poteva essere stata lei. No, vero? Perché l'avrebbe dovuto fare! Assurdo.
Magari prima, magari a scuola. Ma chi è che a scuola avrebbe voluto farlo? E poi gli effetti dell'LSD si riscontravano tra le sei e le dieci ore dopo, e io li avevo avvertiti verso mezzanotte.
«Tieni la bocca chiusa. Capito?», lo guardai severamente. Annuì. Julie mi spuntò alle spalle spaventandomi. «Ehy! Bellissima ragazza», mi saltò sul collo e mi stampò un bacio sulla guancia. Io ero ancora pensosa, riguardo a ciò che avevo appena scoperto. «Ciao», dissi forzando un sorriso, «Jonas?», domandai. «Mi aspetta in macchina, io aspettavo te, parlando con Liam», quando pronunciò il suo nome sollevò allusivamente le sopracciglia. «Liam?», chiesi accigliata. «Li-am. "Alexis è davvero brava... Sembra dell'ultimo anno... Alexis è una bellissima ragazza... Alexis è sempre gentile... Alexis è simpatica... Alexis ha dei bellissimi occhi... Dio mi ha intontita! Sembra una tredicenne innamorato», disse sbuffando ed io scoppiai a ridere. «Che gentile», dissi lusingata, nascondendo la busta nella borsa. Lei seguì con lo sguardo le mie mani e si accorse della analisi. «Allora? Che è risultato?», domandò. «Non sono incinta», sospirai. La sua espressioni si riallegerì. «Meno male! Allora, nient'altro di strano? Dalla faccia di quel tizio temevo avessi un trio di gemelli nell'utero», rivelò sollevata. Ridacchiai. «Niente per fortuna», mentii sorridendo. «Bene allora andiamo, che siamo già in ritardo», disse prendendomi sottobraccio. Nel corridoio incrociai lo sguardo di Liam che si interruppe dal parlare con altri tirocinanti. «Ciao», salutò sorridendo e guardandomi dritta negli occhi. «Ciao», risposi io. Julie ridacchiò ed io le diedi una piccola gomitata ammonitrice. Gli sistemai l'etichetta con il nome sulla polo, osservando il pomo d'Adamo sbalzare dall'alto al basso, poi sorrisi. «Era storta», dissi smielata e poi mi allontanai facendo "ciao" con la mano. Lui mi guardò inebetito e Julie aspettò che fossimo uscite per scoppiare a ridere. «Che stronza che sei!», mi rimproverò sogghignando. Sospirai, «ti chiederei come va la relazione con mio fratello... Ma poi mi ricordo che è mio fratello. E non voglio pensare alla mia migliore amica che bacia o fa altro con mio fratello.» Il disgusto si dipinse sulla mia espressione già arcigna, abbastanza accentuato da provocarle una fragorosa risata. «Ci vediamo dopo, stupida», disse prima che la guardai correre verso l'altro lato del parcheggio ospedaliero. Io andai verso l'auto di Jake, aprii lo sportello e balzai dentro nel sedile anteriore. Mi allacciai la cintura di sicurezza, «senti, devo dirti una cosa». D'un tratto, per il suo tono di voce, il mio cuore cominciò a battere più forte. «Dimmi», dissi a bruciapelo. «Tuo fratello l'altro giorno mi ha detto una cosa e non sapeva se era il caso di informarti o no», preannunciò. «Di che parli?», domandai. «Tua madre ha un'altra figlia, o almeno così pare. Si chiama Riley Hamilton», rivelò. Malgrado lo sospettassi, un nodo mi si strinse in gola. Aveva un'altra figlia, forse per questo d'un tratto sembrava interessata a me. Forse i suoi sensi di colpa stavano riaffiorando quando si era resa conto che non mi stava dando ciò che dava a lei. Riley Hamilton. Aveva preso anche il suo cognome... «Uau», esclamai. Presi un'ampia boccata d'aria, «okay. È felice. Ha un altro marito, è normale che abbia una figlia. Giusto?», chiesi. La sua espressione però non si allegerì per nulla, il che mi destabilizzò ancor di più. Sembrava non riuscire a dirmi quello che doveva dirmi guardandomi in faccia. «Ha diciannove anni. Questo è quello che ha raccontato a Julie e a tuo fratello la scorsa volta a cena a casa tua», confessò. Inghiottii aria ed un milione di domande mi attraversarono in un nano secondo. «Vuoi dire che è nata prima di me? Che mentre stava con papà ha avuto un'altra figlia?», domandai strabuzzando gli occhi. Rispose con una scrollata di spalle. «A quanto pare sì», disse restio.
Abbracciai le mie ginocchia e mi autocommiserai nella mia mente. Aveva un'altra figlia della mia età, e aveva scelto di stare con noi abbandonando lei, per poi probabilmente cambiare idea e tornare all'opzione numero due.
Credevo volesse veramente riallacciare i rapporti con me, ma evidentemente non sapeva nemmeno cosa fosse l'amore materno, se trattava i suoi figli come pedine. «A volte penso che mio padre avesse fatto bene a scegliere il lavoro piuttosto che noi. Non si meritava una famiglia del genere», dissi. «Si meritava di sicuro te», mi rassicurò appoggiando la sua mano sulla mia. Il magone si sciolse lentamente. «Grazie», un mormorio uscì tiepido dalle mie labbra. «Per cosa?», domandò. «Per avermelo detto. Voglio che tu mi dica tutto, io farò lo stesso», suonò come una promessa, mentre osservavo il bracciale che mi aveva regalato sbrilluccicare al riflesso dei fanali delle auto. Sorrise e mise in moto mentre io appoggiavo la testa al finestrino. Entrò una canzone, mentre socchiudevo le palpebre. Erano dolci e soavi quelle note, e quando mi sembrò di addormentarmi, l'auto si fermò.
«Siamo arrivati», disse scuotendomi delicatamente il braccio. Riaprii le palpebre che si erano fatte pesanti e dal finestrino osservai il cielo, dove erano dipinte migliaia di stelle che si specchiavano nel mare della spiaggia deserta. Un ottimo risveglio. Venni strattonata via come se fossi un pezzo di gomma piuma. In un lampo ero sulle sue gambe. Che stordimento!
«Ehy!», feci per aggiungere un solenne rimprovero ma la fuoriuscita della mia parola venne interrotta. Sentii le sue labbra tra le mie. «Ecco le cose che farai stasera. Mangerai, parlerai amorevolmente, non prenderai nessuno per i capelli, e sarai super tranquilla con il tuo patrigno», disse sapendo che averlo chiamato così aveva acceso la parte più riluttante di me. Sorrise, mentre il mio sguardo si faceva secondo dopo secondo più assassino.
«Se dici ancora che quello è il mio patrigno io ti lascio, chiaro? Ti lascio!», minacciai puntandogli un dito contro. Baciò il polpastrello, e poi li sfiorò uno ad uno con le labbra. Mi fece il baciamano e sorrise di nuovo. «Lo sai che con questa minaccia potresti farmi fare tutto ciò che vuoi?», sussurrò, posando la mia mano sulla sua spalla e avvicinando la sua bocca al mio collo. Sentii il suo respiro calmo soffiare contro la mia pelle, e poi la punta del suo naso e le sue labbra sfiorarmi. Chiusi gli occhi, esitante di ricevere un bacio che non sembrò arrivare mai. Passarono secondi interminabili mentre mi stringeva nei palmi il tessuto della maglietta, scoprendomi il ventre. «Farei l'amore con te qui e adesso», mormorò. Il suo tono era davvero combattuto, e mentirei dicendo che la sua proposta non mi aveva per nulla allettata. Appoggiai il mio collo contro il suo volto. Mi annusò. «Hai un buon odore», disse incastrando la mano nei miei capelli. Sospirai e sorrisi. «Dobbiamo and...», feci per parlare ma la voce mi era andata via quando sentii le sue mani sotto alla maglietta. Le sue dita erano delicate, non avevano mai corso su di me all'impazzata. Lui non mi aveva mai fatta sentire in imbarazzo o non aveva mai bruciato ciò che per me erano ancora le tappe. Era una cosa che amavo. Amavo quando si prendeva cura di me e mi baciava o toccava come se fossi un tesoro da custodire. Come se fossi una gemma preziosa. Mi lasciò teneri baci sulla mascella mentre gli appoggiavo entrambe la mani sulle spalle. Le calai sul petto duro e lo accarezzai dal basso all'alto, lentamente. La sua pelle era calda anche al di là della camicia. «Non puoi farmi questo», gemette. Temetti di aver fatto qualcosa di sbagliato e ritirai subito le mani. «Che c'è? Che ho fatto?», domandai preoccupata. Quando sorrise mi tranquillizzai. «Mi fai solo venire voglia di affittare la prima camera d'hotel disponibile», rispose prima di baciarmi sulle labbra. «Non vorresti essere qui?», chiesi cercando i suoi occhi che ora puntavano verso il basso. «Voglio essere dove sei tu», sollevò di nuovo lo sguardo sul mio. «Ma prima meglio passi», ridacchiò. Intuii di cosa parlasse e attesi qualche minuto, prima che aprisse lo sportello. Mi risistemai la maglietta e poi raggiungemmo il cancello nero. Sospirai, e dopo che passò qualche secondo premetti il pollice sul pulsante del citofono.
«Sono io», informai. Forse il mio tono era sembrato molto freddo, ma il fatto di avere una sorella mia aveva del tutto destabilizzata. L'avevo sempre avuta, sin dalla nascita... Non potevo crederci.
Aveva un bel nome, ed il cognome della mamma. Io ero fiera di portare il mio, il cognome di mio padre. Il cognome dell'uomo che aveva salvato tante vite, un uomo che nei libri veniva descritto come un chirurgo che aveva fatto fare passi da gigante alla chirurgia cardiotoracica. Ma più di tutto ero fiera di avere il nome di un uomo buono, di un uomo vero.
«Allora? Vuoi entrare o no?», chiese alle mie spalle. Presi un'ampia boccata d'aria e spinsi il cancello che si era aperto. Avevo già visto quella casa la settimana scorsa, ma c'era qualcosa di profondamente diverso. Il giardino era rigoglioso da far paura. I fiori spuntavano ovunque, erano splendidi, luminosi e colorati. Stralunai gli occhi e guardai il tutto meravigliata. Ora sì che mi rispecchiava molto di più, non che dovesse farlo per forza. Infondo ci avrei solo passato qualche serata da lì in poi, ma volevo credere che quel drastico cambiamento c'entrasse con me. Inspirai l'ottimo odore che aleggiava e poi la porta di vetro si aprì autonomamente.
«Alexis!», mi accolse gioiosamente mia madre, venendomi incontro. Non trattenni un sorriso spontaneo e sincero quando mi strinse tra la braccia come se fossi stata sua figlia da sempre. Mi ero dimenticata di Riley, avevo dimenticato che presto avrei dovuto fare i conti anche con il fatto che mia madre aveva una figlia della mia età. Che me l'aveva nascosta, che non l'avevo mai conosciuta in quasi diciannove anni. Mi divisi da quell'abbraccio, facendole spuntare una piccola ruga tra le sopracciglia. «Ciao ragazzi», disse quando un altro sorriso aveva preso il posto dell'espressione accigliata. «Come state?», domandò. Sentii ancora su di me la sua mano. Mi scese dalla spalla su tutto il braccio ed infine mi chiuse la mano tra le sue. Mi ricordai che Jake aveva già risposto, mentre io avevo perso lo sguardo nella camera rosa alle sue spalle. Sembrò cercare quel contatto per portarmi alla realtà in modo non troppo evidente. La accarezzò ancora mentre li sentii chiacchierare del più e del meno, mentre il mio sguardo e la mia testa erano persi altrove, persi a pensare troppo, fino a farmi esplodere i neuroni. «Sì... Tutto apposto», risposi a scoppio ritardato di come minimo due o tre minuti. Il silenzio echeggiò per altrettanti. La situazione di disagio si faceva più intensa secondo dopo secondo, finché qualcun altro non citofonò. Erano arrivati Julie e Jonas, ero più serena adesso. Le domande non sarebbero state tutte indirizzate a me, ma avrei avuto un po' di tregua nei momenti in cui non avrei avuto voglia di chiacchierare. Jonas non digrignava i denti né stringeva i pugni per fortuna. Se avesse continuato a comportarsi così le cose sarebbero andate a finire male, perché per quanto Jake mi amasse c'erano cose che non era disposto a condividere, ed una di quelle ero io, ne ero a conoscenza. Stesso ragionamento faceva Jonas, ma era diverso, lui era mio fratello. Lui mi avrebbe accompagnata all'altare un giorno, ma mi avrebbe lasciata tra le braccia di Jake. Uno era l'uomo che mi aveva aiutato a mettere i primi passi, l'altro era quello con cui avrei fatto gli ultimi. Lo sentivo, lo volevo e sarebbe stato così. Julie chiuse il cancello del giardino. Ci raggiunsero, e mia madre salutò anche loro. Con Jonas avevo però un conto in sospeso, non mi aveva voluto dire che avevo una sorella! Ci stavo ripensando solo allora, e non potevo crederci che ancora non avesse capito che io non dovevo essere protetta da niente, che io ero abbastanza forte. Jonas mi guardò sapendo di ricevere il mio sguardo carico d'odio, e quando mia madre fece per farci strada io approfittai per avvicinarmi alla sua faccia da belloccio e sputargli addosso il mio veleno. «Ciao, fratellino», dissi incrociando le braccia al petto. Sembrò esserci un filo interlocutore tra le nostre pupille, perché l'attimo dopo strabuzzò gli occhi. «Scusa! Hai ragione, hai completamente ragione. Te l'avrei detto. Cercavo solo un momento esatto», si giustificò. Scossi il capo disapprovata. «Non posso crederci! Ancora la storia del momento giusto? Non ci sono momenti giusti, ci sono momenti duri, quelli sì. Momenti in cui le cose che ci vengono dette fanno male, ma poi passa, come sempre. Non c'è niente che non possa sopportare, non sono la ragazzina che hai lasciato a Manhattan andando in Europa, Jonas», lo rimproverai. Alzò lo sguardo, annuì a labbra serrate e disse solo che non sarebbe riaccaduto, ma di non prendermela con Julie. Pur volendolo era impossibile: quella ragazza era troppo buona, una parola cruda e si scioglieva come neve al sole. Entrammo in cucina, la tavola era apparecchiata per sei, e sperai che quel sesto sarebbe stato Cage, non Riley. Non avevo voglia di conoscerla, o almeno non adesso. Non volevo sentirla parlare di come fosse splendida la sua vita con accanto due genitori che la amavano, una mamma che l'amava. Una mamma che stava amando lei più di quanto non amasse me.
La mia mente era persa altrove, mentre le loro chiacchiere e le loro voci si facevano un borbottio fastidioso di sottofondo. Un profumino invitante mi solleticò le narici, e solo quando abbassai lo sguardo mi resi conto che sotto agli occhi avevo un succulento piatto di conchiglioni al forno.
«Ti facevano impazzire una volta», disse sorridendo. «Quando me li faceva la donna di servizio», le parole presero il via senza che gli avessi dato il comando. Jonas mi lanciò un'occhiata da sopra una spalla, io mi sentii così fuori luogo che me ne volevo andare immediatamente. «Sento freddo»,
dissi guardando Jake che era al mio fianco. Era la parola chiave, se lo doveva ricordare! «C'è il riscaldamento», intervenne mia madre. «Vuoi che alzi la temperatura?»
«No, no. Ho freddo, devo stare proprio male», continuai la farsa.
«Sei sicura? Magari rimanendo un po' avrai meno freddo», rispose Jake. «No. Ho detto che ho freddo adesso», lo guardai nelle pupille e lui sospirò pesantemente. Tutti mi guardavano come se fossi uscita di testa, non capivano che desideravo solo che essere rapita da un alieno.
Il citofono suonò, mia madre dopo avermi rivolto un'occhiata curiosa andò ad aprire. «Aspetta un po' okay? Se hai freddo anche dopo ce ne andiamo», mi sussurrò Jake. Io titubante annuii. «Sei diventata matta per caso?», chiese mio fratello. «Lo è sempre stata», ridacchiò Julie sgranocchiando del pane sotto ai denti. «Non sono matta. Non voglio stare qui. Con l'uomo a cui ho distrutto una macchina e un divano... Spero solo non abbia mai scoperto che sono stata io», rivelai sotto voce.
Risero. Cosa c'era da ridere?! Sentii tossire alle mie spalle. «Buonasera a tutti», esordì Cage.
Mi chiedevo se oltre ai capelli mossi e gli occhi color nocciola ci fosse qualcosa di interessante in lui.
Gli rivolsi i miei occhi iniettati di sangue; fui sicura di aver lanciato una delle mie peggiori occhiate dato come si fece la sua espressione. «Alexis, l'amabile ragazzina che mi ha distrutto la macchina due volte e sfasciato il divano nuovo. È un piacere rivederti», sorrise. Voleva la guerra? «Cage, l'idiota che ha messo incinta una donna sposata e con tre figli, è un piacere rivederti», pensai. Invece che dar fiato alla bocca, sorrisi, o almeno ci provai. Mia madre rise, e si sedette a tavola. «Di certo avevo le mie ragioni», replicai. Stavo andando così bene senza parlare! Cavolo. «Ne sono certo. Seppelliamo l'ascia di guerra?», propose sorridendo e svestendosi dalla giacca. Lo guardai torva e feci una smorfia per acconsentire, che aveva l'intento di sembrare un sorriso. «Cage», porse la mano a Jake per presentarsi, ed io mi spostai come se con il braccio avesse potuto contagiarmi. Si sedette a tavola, e dopo aver augurato il buon appetito iniziammo a mangiare. Tutti chiacchieravano, tranne me. Preferivo fissare il piatto, mi sentivo così a disagio... Non come la scorsa volta. Senza nemmeno accorgermene avevo finito la pasta, come tutti. Mia madre arrivò con un album e lo appoggiò al centro del tavolo. Julie sfogliò subito le pagine. «Oh mio Dio che belle queste foto!», esclamò. «Alexis eri adorabile quando facevi danza», disse mia madre. Avrei voluto ricordargli che lei non era mai venuta a nessun saggio, ma tacqui, e non mi sporsi nemmeno per vedere di che foto si trattasse. Julie guardò accigliata una foto, e poi rivolse lo sguardo a Jake. «Ma questa... Non è tua sorella?», domandò massaggiandosi la fronte corrugata. «Fa' vedere», disse lui. Lei girò l'album. C'era una bambina bionda con gli occhi azzurri, le guance rosse come le labbra. Aveva una familiare giacca rossa, mentre era seduta su un altalena. Lui guardò confuso la foto, cercando di studiarla bene. «Non è Annabelle, sono io», dissi secca. Ci fu silenzio per molti secondi. «Chi è Annabelle?», domandò Jonas. «Mia sorella», rispose Jake. «E perché avete confuso Alexis per lei?», domandò mamma. «Per via degli occhi... E del resto. Si somigliano ecco», sviò Julie. «Sì. Ci assomigliamo così poco che scambiate lei per me. Che io stessa scambio... Va be' niente. Si è fatta una cert'ora e sono stanca. Possiamo andare a casa?», domandai fredda. Jake annuì, Jonas, Julie, mia madre e Cage mi guardavano stralunati. Avevo fatto una scenata dietro all'altra, dovevo proprio andare via. «Non vuoi rimanere un altro po'?», domandò mia madre accigliata. «Meglio che vada», dissi alzandomi in piedi. Jake fece lo stesso e mi diressi così spedita alla porta che sembrò che qualcuno mi stesse inseguendo. Mi misi la giacca e presi la borsa, mentre già premevo il pulsante per aprire la porta. Mia madre mi raggiunse subito dopo con Jake. «Tutto bene?», chiese preoccupata. Delle lacrime mi iniziarono a pungere gli occhi. «Sì, devo andare...» «A casa. Sì l'hai già detto. Ma per un motivo in particolare?», chiese. Scossi il capo, mentre un nodo mi si stringeva in gola impedendomi di parlare senza piangere. A volte mi prendevano strani attacchi di tristezza dove nella mia mente mi ripetevo tutte le cose che mi andavano male, o che mi rendevano infelice. Jake mi aveva notata perché assomigliavo alla madre, non perché avessi qualcosa di speciale. Mia madre invece viveva con la sua adorata figlia, ed io non credevo di essere importante per lei. Mio fratello mi mentiva, di continuo. E mio padre era scomparso.
Camminai per il giardino fino al cancello, quando sentii una mano stringermi il polso. «Ehy. Calma, aspetta», disse Jake. «Voglio andare via Jake. Basta...», feci per uscire dal cancelletto nero, ma mi bloccò ancora. «Andiamo, non puoi piantarli così. Aspettiamo un po'... Digli che dovevi prendere una boccata d'aria», insistette lui. «Ho detto che voglio andare via! Lo capisci?», gridai forte. Stupito da quella reazione mollò la presa permettendomi di uscire, finalmente. Mi affrettai verso la macchina, e quando premette il pulsante attaccato al mazzetto potei entrare. Mi raggiunse e si sedette alla guida, prima di inserire le chiavi accendendo l'auto. Mise le mani al volante, e rimase zitto per qualche secondo. Sentivo i nervi a fior di pelle. «Che è successo?», domandò. «Sono insicura, Jake. Mentirei se ti dicessi il contrario. Per quanto tua madre possa essere fantastica io non voglio ricordarti lei. Non voglio che lei sia la ragione per cui tu hai scelto me. Non posso essere un ripiego, sono stanca di fare da rimpiazzo. Anche perché non basterò. Non ti basterà una ragazzina qualunque per colmare ciò che tua madre ha lasciato», dissi liberando tutti i miei pensieri.
«Tu non c'entri niente con mia madre, non parlare di lei», disse brusco, mettendo in moto. Una frase del genere, anzi, una risposta del genere non me la sarei mai aspettata. Probabilmente l'avevo ferito abbastanza, forse avevo detto troppo. Ma di certo non mi stavo paragonando a lei, non la conoscevo. Nella sua mente magari io non valevo neppure un decimo di lei, e lo pensavo anche io... Ma mi aveva ferita ciò che aveva detto. "Non parlare di lei", soprattutto. Diceva di amarmi ma non ero nemmeno degna di poterla nominare? Rimasi in silenzio, e fissai tutto ciò che era al di fuori del finestrino. Era questo di cui gli avevo parlato: avevo bisogno di un luogo tutto mio, dove potermi rifugiare da lui quando ne avevo bisogno. Una certa indipendenza, che mi avrebbe dato avere una casa tutta mia.
Pensai che dopo tutto, anche volendolo, non potevo cancellare il fatto che io ero uguale a sua madre, che non mi amava perché ero io, ma perché vedeva lei in me. Ero stata così sciocca a credere che avesse scelto me tra tutte le ragazze che poteva avere, solo perché vedeva qualcosa di speciale nei miei occhi, come aveva sempre detto. Vidi Miami scorrermi sotto allo sguardo attento, mentre delle lacrime non versate mi risiedevano negli occhi. Quanto mi faceva male sentirlo parlare così... Non ero abituata al suo tono brusco, freddo. Mi faceva soffrire.
Forse me lo meritavo, forse io non ero abbastanza per poter parlare di lei. Io non c'entravo niente con lei, e me lo aveva detto. Eravamo di due mondi opposti, probabilmente. Mi asciugai una lacrima che mi era scivolata giù dalla guancia, e quando feci per riabbassare la mano, questa venne fermata ed afferrata dalla sua. Mi resi conto che aveva appena accostato. Non volevo sollevare lo sguardo, non volevo incontrare il suo e far tornare tutto a galla. «Mi dispiace», fu tutto ciò che disse. A me non importava che fosse dispiaciuto, avrei solo voluto che non l'avesse mai detto. Anzi, che non l'avesse mai pensato. Ma se era quello che credeva, probabilmente era la verità. Se sapevo una cosa era proprio che Jake vedeva tutto dal punto di vista più giusto e oggettivo del pianeta, e mi fidavo più del suo che del mio. Se lui pensava una cosa, io mi convincevo fosse quella. Se pensava che io non valessi abbastanza, be', allora era così.
«Okay», fu tutto ciò che invece uscì dalla mia bocca. Un semplice "okay", un semplice "non è colpa tua, ma è solo la realtà dei fatti."
Mi convinsi di far schifo, pensando che mia madre aveva scelto la sua nuova figlia, e non me. Pensai di far ancor più schifo perché non ero stata accanto a papà quando aveva bisogno di me, e non me lo sarei mai perdonato. Anche se non ne ero a conoscenza di ciò che gli stesse accadendo, avrei dovuto capire che non stava bene, piuttosto che rimanere con del prosciutto sugli occhi per evitare di scoppiare la mia bolla rosa. Malgrado fosse bella, malgrado fosse rosa, non ci si può vivere a lungo.
«Okay?», chiese lui stranito da quella stana risposta, che in realtà non sapevo bene cosa volesse dire.
«Okay, ho capito. Io non sono niente in confronto a lei», dissi con voce strozzata dal pianto. Probabilmente non si udì per quanto era basso il mio tono. «Non... Non hai capito. Non volevo dire questo», balbettò, ma era lui a non aver capito. Non ce ne era bisogno.
«Non importa okay? Ho capito. Non serve che fingi di non pensare ciò che pensi. Mi sta bene, mi sta benissimo. È solo la verità», dissi liberando la mia mano e ricomponendomi. Mi guardò accigliato, più per il mio gesto che per le parole che dissi. Forse se le aspettava da una debole come me. Ero forte sotto molti punti di vista, ma super fragile a riguardo della mia autostima. Mi bastava un non niente per convincermi che la mia vita fosse il più totale spreco di ossigeno del pianeta. «Siete diverse, ma tu per me sei importante quanto lo era lei. Non sei un ripiego. Io ti amo perché sei tu», disse fermo, percepii quanto tentasse di farmelo credere. Probabilmente lui ne era convinto dentro di sé. «Non avrei dovuto risponderti così. Mi dispiace davvero. Perdonami sono un idiota», supplicò, provando ad intersecare le sue dita alle mie che però rimanevano ancorate sulla mia coscia. Ero ancora turbata, ed incredula soprattutto. «Ehy?», mi chiamò, appoggiandomi una mano sul viso. Sapevo che voleva baciarmi e mi girai di poco per distanziarmi e fissare ciò che era fuori. Mi sentivo così male quel giorno... Forse stavano esplodendo diverse cose insieme e non avevo voglia di scoppiare a piangere.
Non avevo voglia di sembrare ancora di più una ragazzina che si inventava i problemi.
Lui pensava che io fossi masochista, che mi piacesse creare problemi su problemi per ostacolare la mia felicità. Poteva crederlo davvero?
Feci una barriera da lui attraverso i capelli, in attesa che l'auto fosse ripartita. Ma niente. Sentivo che non ci saremmo mossi da lì finché non gli avrei promesso che non lo avrei mai lasciato. Ma non ero in grado di promettergli niente.
«Scusa. Mi inginocchio se vuoi. Ma perdonami. Qualsiasi cosa tu stia pensando in questo momento... È una gran balla. Per me nessuno vale più di te, Lexie. Perdonami».
«Domani andrò al college così avremo del tempo per pensare...», mormorai. «Per pensare? A cosa devi pensare?», domandò allarmato. Mi sembrò di sentire il battito del suo cuore accelerare.
«Pensare e basta. Ho bisogno di farlo per un po'», spiegai. Diede un colpo al volante che mi fece sobbalzare. Ci appoggiò i gomiti e si prese la fronte tra le mani. «Non ne faccio una giusta, cazzo», imprecò. Un groppo mi salì alla gola. «M-mi dispiace... Io...», non seppi come terminare la frase. «Chiaro. È tutto chiaro», disse rimettendo in moto. Che voleva dire? Proseguì per la strada senza che sapessi cosa gli ronzasse per la testa. Rimanemmo in un silenzio che mai c'era stato prima finché non parcheggiò l'auto nel vialetto. L'odore di mare mi tempestò immediatamente le narici, mentre rimettevo piede a terra. «Alexis», mi chiamò. «Non devo perdonarti nulla. Hai detto ciò che pensavi, è giusto così», risposi io, prima che sentii afferrarmi il braccio. «Non è neanche minimamente ciò che penso. Ha parlato la rabbia di quel momento... Tu sei l'unica con cui parlarne mi viene facile. Quello che volevo dire è che nonostante vi accomunino molte cose, siete diverse. Era la madre migliore del mondo ma non era tosta come te. Ed è questo che mi ha colpito di te sin da subito», disse e questa volta mi sembrò sincero. Sospirai.
«Te lo giuro», aggiunse. Mi sembrò di non capire più nulla.
«Perché eri arrabbiato? Che ho detto?», chiesi. «Non lo so. Ho paura di perderti», spiegò, allungando la mano verso la mia. «Io sono così egoista. E lo so che anche tu lo pensi. Perché altrimenti ti lascerei andare con una persona che ti merita. Davvero vuoi perdere tempo con me? Con i miei problemi? Perché io non ti obbligo a farlo...» «Ehy. Non dirlo neppure». Sentii le sue mani calde sulle mie guance. Mi tenne il viso vicino al suo per guardarmi negli occhi. «Se tu hai anche solo la minima idea di lasciarmi nella tua testolina sappi che non te lo permetto. Tu mi ami, come io amo te. Non c'è nessun egoista, e non c'è nessuno dei due che non merita l'altro. Prova a dire qualcos'altro del genere e giuro che...» «Jake», lo interruppi posandogli un dito sulle labbra. «Non zittirmi. Ti prendo e tu butto in mare. Tu sei mia Lexie...» «Jake!», lo zittii di nuovo. «Portami nel tuo letto. E convincimi a rimanere.» Dissi quelle frasi guardando le sue labbra. Le sue mani mi scivolarono dietro sulla nuca. Mi premette la fronte contro di sé, contro il suo petto. Respirava irregolarmente, il suo cuore batteva vicino al mio viso, premendo contro la mia pelle.
«Dovresti vederti mentre dici certe cose», sussurrò. Dei brividi mi scesero rapidi dall'orecchio in giù, le palpebre si fecero d'un tratto deboli. «Perché?», chiesi. Appoggiò entrambe le mani sui miei fianchi e mi divise da lui. Mi dispiacque, volevo godermi ancora il calore emanato dal suo corpo. Le sue mani mi sfiorarono dai fianchi alla vita, finché non le riposò sul mio viso. «Mi dai sempre la conferma che non ne avrò mai abbastanza di te.» Il mio cuore con il calore delle sue parole si sciolse. Come se fosse stato di cioccolato.
«Voglio...», deglutii e fissai qualsiasi cosa non fossero stati i suoi occhi. «Cosa?», domandò.
Temetti di sembrare ridicola, o peggio. Affondai la fronte contro il suo collo, inspirai il suo profumo. «Niente», dissi scuotendo rapidamente il capo. Mi bloccò la testa, impedendomi di nascondergli quanto fossi rossa dalla vergogna. Rise, probabilmente ero ridicola più di quanto non credessi. Mi ritrovai seduta sui suoi avambracci forti, mentre, dopo aver aperto la porta, camminava per il soggiorno. Era buio. Toccò con la punta del naso quella del mio. «Non faremo niente stanotte», disse. Okay, ora ero pronta a rifugiarmi in un angolo della casa e non uscirci mai più. «Non prima che tu mi dica sì sì», preannunciò. «Sì a cosa?», chiesi aggrottando le sopracciglia.
«Vieni a vivere con me», disse. Mi corrucciai ancora di più, «ma noi viviamo già insieme.» «Non qui. In una casa nostra. E se ci saranno giorni in cui vuoi stare sola, giorni in cui devi riflettere o avere il tuo spazio io verrò qui. Ma tu intanto vieni con me. Voglio una casa solo nostra», disse guardandomi negli occhi. Ero troppo distratta da quell'azzurro cocente e luminoso che vedevo ogni volta quando mi sentivo d'un tratto felice e rassicurata, per dare una risposta.
«Sì. Voglio vivere in una casa con te», dissi sicura. Quel sorriso che gli nacque era così perfetto. Quelle due fossette lo erano di più. Mi baciò tante volte sulle labbra, nell'angolo della bocca e sulle guance. Ero in una tempesta di baci, e non vedevo l'ora di arrivare di sopra per baciare ogni centimetro della sua pelle.

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- "I segreti di Peony", è una storia intrecciata a questa! Date un'occhiata se vi va.

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