26.Quanto a lungo lo dovrai aspettare?
- Amo gli inizi perché è solo allora che la fine sembra irraggiungibile.
«Prometti che non mi ucciderai», disse Julie timorosa, non guardandomi neppure in faccia.
Assunsi un'espressione perplessa. «Cosa ci facciamo qui?», questa volta il mio tono aveva preso una sfumatura leggermente più pretenziosa e preoccupata. «Diciamo che... È importante che tu entri», disse Amber dal sedile anteriore. «No!», urlai. «Ovvio che no, brutte stronze portatemi subito indietro!», tuonai. «Bene, queste erano le maniere buone», disse Julie prima di bloccare gli sportelli. «Sei uscita di testa?», gridai. «Ora ti spiego. Vedi... Sono in depressione. Non solo Jake. Annabelle, Matt, Andrew, Cass e soprattutto Bill. Gli ho parlato e la tua presenza è importante per loro oggi. Bill mi ha detto che quando c'eri tu non sentiva la mancanza di sua moglie... E che prima era il fratello a colmarla nel giorno del ringraziamento. Ora entrambi non sono più qui, e tu per loro sei importante. Perciò io ed Amber andremo a Miami, tu entrerai attraverso quella porta e metterai in forno un bel tacchino. Almeno fingi che non l'abbia comprato al supermercato. Okay?» Sospirai. «Sanno che sono qui?», chiesi titubante. «Solo Jake», rispose lei, sorridendo speranzosa. «Perché Dio ti ha fatta così buona, Julie Dickens?», chiesi ispirando. Lei rise e mi abbracciò. «Ci ha fatte entrambe buone, anche se non lo ammetti», ribatté. «Mi fai solo un favore?», chiesi, mordendomi il labbro inferiore. Lei annuì. «Passa a prendere Izzy. È troppo sola...»
Lei sorrise, ed annuì un'altra volta.
«Certo.» Montai giù dalla macchina gonfiando il petto d'aria. Ero così ansiosa e preoccupata. Misi un passo dietro l'altro e una volta giunta sul portico bussai alla porta in legno bianco. Ci fu silenzio per una decina di secondi.
Sollevai gli occhi quando questa si aprì. «Mh... Tu sei Lexie», disse sorridendo il ragazzo biondo che avevo difronte. Era Jackson, il cugino di Jake. «Mh... Sì», dissi incrociando le braccia al petto. Mi sentivo in soggezione. «Ti aspettavamo. Sai cucinare un tacchino?», domandò. «Non ho nemmeno idea di dove si compri un tacchino». Lui rise e mi fece strada. «Benvenuta mademoiselle». Entrai con i piedi di piombo. «Nnnocca, nnocca», sentii dire dal basso. Jim mi circondò la gamba destra con le braccia ed io risi. Lo sollevai e lo feci sedere sul mio braccio. «Chi si rivede», dissi pizzicandogli il nasino. Quella famiglia era un forno di bambini adorabili. «Ciao Lexie!», esclamò Matt giungendo dalla cucina. «La voce!», esclamai di rimando, accogliendo il suo abbraccio. Era diventato un vero uomo, neppure si vergognava più di salutarmi. Erano cambiate le cose dall'ultima volta che avevo messo piede lì. «Jackson! Che diavolo hai scritto a Cameron brutto stupido io ti uccido!», disse una voce femminile, arrivando dal salotto. Era la ragazza dai capelli rossi, Sophie. Quando mi vide si imbarazzò e frenò la camminata verso di lui. «Ehm, ciao», disse timidamente. «Ciao», ridacchiai.
«Era solo uno scherzo, sono sicuro che non crede che ti abbia i calli alle mani», ridacchiò lui. Sophie caricò lo sguardo d'odio e fece per catapultarglisi addosso. «Gli hai detto che ho una visita per i calli! I calli ai piedi e alle mani! La tua vita è finita!», sfiatò diventando paonazza. «Lexie, mi faresti il favore di andare nella mansarda a prendere la tovaglia? Mi occupo di non far bruciare nulla in cucina nel frattempo», intervenne Matt per evitarmi di assistere a quello spettacolo. «Certo», risi mettendo giù il piccolo. «Sei proprio diventato grande!», dissi rimpinzando le sue guance di baci. Non arrossì neanche troppo per i suoi canoni, ma si limitò a mantenere lo sguardo basso e a sorridere. Salii di sopra percorrendo le scale e giunsi nella mansarda buia. Non pareva ci fosse ancora nessun altro in casa. Nel cassetto trovai una tovaglia rossa e la piegai sul mio braccio. Solo allora mi accorsi della foto incorniciata sulla mensola. Era Rose. Il pensiero che fosse esistita una donna così bella mi apparve impossibile. Non credetti di aver mai visto una pelle più perfetta e limpida, degli occhi più intensi, dei capelli più luminosi e con boccoli così d'orati. I lineamenti del viso erano così dolci, le ciglia lunghe, il rosato delle guance e delle labbra... Era il ritratto della perfezione. Capii che genere di vuoto poteva lasciare una donna del genere solo guardando quella foto. «Pensavo fossi tu, quando l'ho vista», sentii dire alle mie spalle da una tenera vocina. Annabelle emerse da un angolino con una tela da disegno. «L'ho messa sullo scaffale. Poi Jake mi ha detto che era la mamma. Non è strano?», chiese, corrugando la piccola fronte. «Non mi abbracci neppure?», dissi sorpresa, sorridendo. Lei mi corse incontro. La sollevai e la strinsi forte. «Alla fine ci si abitua all'assenza delle persone», bofonchiò, appoggiata alla mia spalla. Io mi accigliai. «Che vuoi dire?» «Eravamo tutti tristi quando non ti abbiamo più vista. Poi ho pensato che se tu sei andata via non avevi bisogno di noi, così ho pensato che neanche io avevo bisogno di te. Però ne avevo bisogno, ma tu sei andata via perché non hai bisogno di me. Perché sono piccola? È per questo? Potevo essere tua amica solo se avevo...», contò nelle sue dita fino a dieci. «Dieci anni di più?», domandò. «Ovvio che no. Puoi essere mia amica anche con l'età che hai. Sei molto più matura degli altri bambini... Per questo puoi capire che se sono andata via non era per mia scelta», le dissi amareggiata. Annabelle aveva sempre pensato che io l'avessi abbandonata, ma le cose non erano andate così. Se solo Jake non me l'avesse impedito io non avrei mai lasciato l'unica famiglia che avevo mai avuto. «Io ti voglio bene, e quindi ti credo», sorrise. «Anche io te ne voglio.»
La rimisi a terra, e diedi un'ultima occhiata a quella foto. Assomigliavo davvero a quella donna? Lei era di una bellezza sovrumana, non mi ci avvicinavo neppure... Ma dovevo ammettere che la somiglianza era evidente, quasi preoccupante. Annabelle mi trascinò per un dito fuori dalla mansarda e percorremmo insieme il corridoio. Si mise a correre e raggiunse le scale davanti a me. In quel momento una porta mi si aprì davanti, costringendomi a fare un passo indietro. Mi accolse un sorriso smagliante, perfetto direi, e un forte odore di bagnoschiuma. «Sei qui. Non ci speravo più.» Io feci un sorriso con l'intento che apparisse una smorfia, prima di accorgermi che indossava solo un asciugamano sulla vita. Sollevai lo sguardo quasi al soffitto per evitare di guardare ciò che sapevo avrei guardato. Boccheggiando lo superai e camminai lungo le scale con le mie gambe ormai rammollite. Quella cena sarebbe stata infinita. Andai in cucina dove Matt armeggiava padelle. Misi la tovaglia, nervosa, tanto che solo dopo aver posizionato il vaso di fiori al centro del tavolo mi accorsi di averla messa al contrario. Matt ridacchiò per il modo in cui stavo urtando tutto ciò che mi capitava vicino. «Che ti è preso?», domandò dopo l'ennesima botta. Coprii bene ogni angolo con la tovaglia e sospirai. «Niente, assolutamente niente». Annabelle salì su una sedia per passarmi i piatti e i bicchieri, e dopo cinque minuti terminammo di apparecchiare. Sperai solo che quando sarebbe risceso sarebbe stato vestito, vestito da maglietta, pantaloni e scarpe. Come qualunque essere umano. Sentii suonare il campanello, così mi avvicinai alla porta e la aprii con noncuranza e con la testa altrove. Bill allargò le palpebre e sorrise a trentadue denti. «Che sorpresa! E cosa ci fai tu qui? Sono felice di vederti!», esclamò venendomi incontro. Mi abbracciò forte, e io feci lo stesso malgrado fossi intontita. «Serviva una mano e così...» «A Jake?», domandò mentre mi stringeva. «Jake? Cosa Jake? Non l'ho visto oggi. Cioè non ancora. Non l'ho proprio guardato, ecco», balbettai agitata. «Ciao papà», sentii dire alle mie spalle. Dannazione! Era così vicino che aveva sentito che avevo farfugliato come un'idiota. Sentii anche un risolino. «Ci siamo visti di sopra mi pare», mi guardò, corrugando la fronte e con un impercettibile sorriso sghembo. «Non mi pare proprio», obiettai insicura. Deglutii. «Fa caldo qui dentro? Sei un po' rossa», constatò Bill. Mi appoggiò anche una mano sulla fronte per accertarsi non avessi la febbre. «Arrossisce con facilità», intervenne lui. Sentivo un bollore diffondersi nel mio corpo come una bomba a gas. Non poteva lasciarmi in pace dato che gli stavo facendo un gran favore? «Non sono arrossita», dissi indurendo lo sguardo e digrignando i denti. Sollevò le mani in segno di innocenza. «Okay, okay.» «Sono proprio felice che andiate d'accordo. Da oggi in poi ti aspetto spesso», disse Bill sorridendo. «Cazzo», sussurrai. L'attimo dopo sperai di non essere stata sentita, e a quanto pareva era stato così. Grazie a Dio. Io già mi pentivo di essere lì in quel momento! «È quasi pronto», udii Matt dalla cucina. «Meno male... Non sapete che fame ho», disse Bill raggiungendolo. Sentii una potente spinta provenire alle mie spalle e l'attimo dopo gli ero addosso, contro il petto. Sentii un calore salire dall'alto al basso quando mi guardò negli occhi. Mi aiutò a riprendere l'equilibrio e quando mi voltai mi accorsi di una piccola testolina bionda. «Ehm, scusa», bofonchiò Annabelle ridacchiando.
Corrugai la fronte. «Tranquilla», dissi perplessa. «Annabelle hai dei grossi problemi se sei passata nei due centimetri tra lei ed il muro quando c'è tanto spazio qui intorno», disse lui irritato. «Bla bla bla. Sei così antipatico quando fai il matematico. Centimetri, metri, non so neppure cosa sono!», esclamò, allontanandosi e battendo le mani teatralmente. «Cosa vi prende oggi? Siete tutti così strani», disse lui accigliato. «Se dovessimo constatare chi è il più strano tra di noi...», cominciai io, prima che Jackson non si affacciasse. «Guarda un po'... Panna alle fragole, a chi va?», intervenne sorridente. «Non mi piace più la panna alle fragole», dissi cruda. «Un tempo ti piaceva e come», disse Jake sorridendo. «Un tempo mi piacevano un mucchio di cose», ribattei. «Già. Ti capisco», disse, folgorandomi con lo sguardo. Jackson si schiarì la voce, ma lo ignorai per mantenere vivo quel duello di sguardi trucidi. «Spero che gli arrosticini ti piacciano ancora», sentii dire da Bill in cucina. «Certo. Quelli sì.» Sentii suonare il campanello. Jake mi sorpassò, e facendolo, invase il mio braccio di brividi. Sentii il suo indice scivolare lentamente dal gomito al polso, e sembrò quasi una carezza. Non seppi se fosse stata volontaria o meno, ma in quel preciso istante, il tocco si ramificò alla velocita della luce in ogni cellula viva del mio corpo, raggiungendo il cuore e facendo pompare il sangue sempre più forte nelle vene. Uau, bel modo di non amare una persona. Congelata per un tocco quasi del tutto impercettibile. «Lilianne!», sentii esclamare alle mie spalle. Voltandomi incontrai il volto dell'anziana che già avevo conosciuto al matrimonio. Ripensai che fosse l'anziana più bella che avessi mai visto. Come ci si può preservare in quella maniera? Salutò Jake con due baci sulle guance e poi mi camminò incontro. «Rose... Perché non mi chiami mai figliola?» Mi prese le mani nelle sue e sorrise in modo buono. Non seppi davvero cosa dire, perché mi aveva chiamata Rose? «Salve... Io... Io sono Alexis», dissi piano. «Come sei bella...», sospirò. Lilianne si prese la fronte nella mano. «Non mi sento bene... Avete un po' d'acqua?» Jake la prese sottobraccio e la fece sedere in cucina. «Hai camminato molto?», sentii chiedere da Bill. «Lilianne è confusa a causa di una malattia... Non preoccuparti», mi disse Jackson all'orecchio. Io annuii e lo seguii in cucina. Aiutai Sophie a pelare le patate. «Sei esattamente come ti descrivono», disse d'un tratto. «Cioè?», chiesi accigliata. «Nulla di che... Mi avevano detto, prima del matrimonio, che eri la fotocopia di Rose, ma non pensavo foste così simili», rivelò. Io, un po' angosciata, sospirai. «Tu la conoscevi?», sussurrai. «Ho sempre passato le feste con Jackson. Erano le occasioni in cui la vedevo.» «Chiaro. Com'era?», chiesi curiosa. Non avevo mai curiosato su di lei con Jake o Bill, poiché temevo che gli avrebbe fatto male. «Dipingeva, ed era brava per davvero. Mi è sempre sembrata molto spiritosa, e regalava a tutti un mucchio di dolci. Non ricordo molto altro.» «E' da molto che tu e Jackson state insieme?», domandai curiosa. Sophie strabuzzò gli occhi e mollò la patata sul pavimento, che cominciò a rotolare. «Non stiamo insieme!», strillò. Io risi e sollevai le mani in segno di innocenza. «Ne ero convinta... Non so perché.» «Siamo amici. Solo quello», disse sorridendo, mentre raccoglieva la patata caduta sul pavimento. In quell'istante beccai Jackson mangiarsela con gli occhi dal divanetto. «Da come ti guarda direi proprio di no», ridacchiai. «Guarda te, semmai. Ha un debole per le bionde.» «Eh già, sono proprio delle belle gambe... Non è vero Jackson?», dissi ad alta voce, mentre pelavo. Sophie divenne rossa come un peperone e si bloccò. «Eh già», rispose disinvolto e divertito. Lei riprese a tagliare e fece finta di niente. «Oh mio Dio...», bofonchiò tra sé e sé. «Vedi, guardava te», dissi ridendo di sottecchi. Mi fece una smorfia e poi rise. «Riformulo: non sei affatto gentile come mi avevano detto», ridacchiò. Io feci lo stesso. Finimmo di preparare il tutto e mettemmo in forno. «Be' non sei l'unica che viene mangiata con gli occhi», bisbigliò, buttando un occhio alle mie spalle. «Ho imparato ad ignorarlo», sbuffai. «Se fossi in te sposerei Jake e ci vivrei alle Maldive per tutta la vita», ridacchiò. «Se solo ci amassimo lo farei», risposi io tagliando l'insalata. Lei assunse un'espressione perplessa. «Sei ceca! Come non fai a vedere quanto ti ama? A Cambridge non ha fatto altro che parlare di te e di quanto non volesse starti lontano», rivelò. Io sollevai le sopracciglia, sorpresa. «Ma l'ha fatto», dissi secca. «E non mi ha nemmeno mai chiamata. Non sai quante volte ne ho avuto bisogno e lui semplicemente non c'era. Io sono la persona più insicura del pianeta, tollero le insicurezze degli altri come mi aspetto che loro tollerino le mie. Ma a tempo debito, non quando si ha in programma di sposarsi». Parlarne mi aveva incupita e rattristata. «Hai ragione. Ma la vita è troppo breve per stare lontani da chi si ama», ribatté, con un piccolo sorriso. «Cos'è? Predichi bene ma razzoli male?», ridacchiai. Lei roteò gli occhi al cielo. «Non mi metterei mai con la persona con cui ho condiviso gli ultimi quattordici anni», rispose ferma. «E allora? Quel Cameron?», chiesi curiosa. «Cameron è gentile, bello...» «Sicuramente non sarà più gentile o bello di Jackson», affermai. «Grazie Lexie. Lo sapete che da qui vi si sente piuttosto bene?», disse lui ad alta voce, seduto sul divano. Io scoppiai a ridere, per fortuna c'erano solo lui e Jim! «Prego... Se fossimo stati in un'altra vita chissà», scherzai. Lui e Sophie risero. «Anche in questa non sarebbe male...», rispose ridacchiando. Io scossi la testa, sorridendo. Un profumo di pulito mi raggiunse, facendomi immediatamente capire chi avesse appena varcato la soglia della cucina. Inspirai a pieni polmoni, e poi mi voltai per portare la cesta con il pane a tavola. Vidi i suoi occhi difronte ai miei. Allungò il braccio sopra alla mia testa e si avvicinò ancora di più contro di me. Smisi di respirare. «Che hai fatto alle ciglia?», chiese quasi sottovoce. Sentii il suo respiro calmo sul naso. L'odore di pulito nelle narici. Il cuore battere sempre più forte. Prese la cesta dalle mie mani e fece un altro piccolo passo, per afferrare la bottiglia di vino rosso alle mie spalle. Deglutii. Che voleva dire la sua domanda? «Ehm... Che?», chiesi confusa. «Ti sei truccata?», domandò. «Forse», atterrai lo sguardo e tentai di respirare. «Stai bene». Mi sottrassi dallo spazio tra il mobile ed il suo corpo e andai a controllare che il pollo e le patate non si fossero bruciate. Il timer suonò, era il momento di tirare tutto fuori. Io e Sophie bandimmo la tavola di cibo. Jackson andò ad aprire la porta alla sua schiera di fratelli e una donna dagli occhi verdi e spenti. Doveva essere sicuramente la moglie di Josh. Mi salutò gentilmente, ma sembrava avere la testa altrove. Sapevo cosa voleva dire avere una madre assente, fisicamente e mentalmente. Jackson mi ricordava me, mentre sembrava farle da genitore come io facevo a mia madre quando prendeva troppe pasticche e papà non c'era a casa. Una volta che tutti si erano seduti, presi posto anche io. Ero tra Annabelle e Sophie, strategicamente. Non mi sarei ritrovata accanto a lui e alle sue mani impertinenti. «Lexie, mi faresti sedere vicino alla finestra?», domandò Bill d'un tratto. Questa era ad almeno sei metri di distanza da me. Io confusa mi alzai in piedi, e solo quando ci scambiammo di posto capii. «Eppure non mi pare che tu sia vicino ad una finestra adesso», disse Jake al mio fianco, stranito. «A me adesso arriva una bellissima arietta, grazie Lexie», disse Bill sorridendo. Essere abili manipolatori era una dote di famiglia. Non appena afferrai la mia forchetta Jake mi rubò una oliva dal piatto. «Ehi!», dissi offesa. «Non ti piacciono nemmeno», si giustificò. «Sì che mi piacciono», ribattei. «Non le hai mai mangiate», rimbeccò. «Le adoro». Prese la teglia e me le versò tutte sul piatto, consapevole che stavo mentendo. Odiavo le olive. «Visto che le adori... Tieni. Voglio osservarti mentre le mangi tutte», disse beffardo, guardandomi con un sorriso idiota e provocatore. «E dato che tu ami alla follia la rucola...» Afferrai il recipiente e versai tutto nel suo piatto. «Et voilà», dissi sorridendo. Lui rise e verso tutto nel mio. Colsi l'occasione per liberarmi delle olive e vuotai un'altra volta il mio piatto nel suo. Mi bloccò il polso. «Okay... Okay, hai vinto tu, ora ferma», ridacchiò. «Dovresti saperlo ormai che io vinco sempre», dissi rubando uno dei suoi arrosticini. «Alexis Bristol vince sempre. Lo so bene», disse d'un tratto serio. Lo guardai, chissà che voleva dire. «Bristol?», chiese Johnatan strabuzzando gli occhi. «Sei imparentata con Richard Bristol per caso?», domandò. Io timidamente annuii. «Sì, è mio padre», confessai. «Ad Harvard è un mito! Ho appena studiato il metodo Bristol a cardio... Tuo padre è un genio. Avrà pubblicato una centinaia di ricerche... Recentemente non si sente più. Ha smesso? Non opera più?», domandò. Non seppi cosa dire. «Statti un po' zitto Johnatan», intervenne Jake. «Che c'è? Non ho detto nulla di male... Lo capirei se avesse smesso, ha già dato tanto alla medicina», disse. «Chiudi quella bocca», disse ancora Jake. «Aveva un cancro. E' morto nel luglio scorso», confessai. Jonhatan allargò le palpebre, sorpreso e mortificato. «Oh, mi spiace. Non lo sapevo, condoglianze.» Era strano ricevere condoglianze da chi ha perso qualcuno più recentemente di te. «Grazie, è tutto okay.» Finalmente Annabelle smorzò quell'atmosfera con una delle sue battute. Sentivo la mancanza di una figura femminile per rendere tutto perfetto, la classica mamma delle torte. Ne sentii la mancanza anche se non avevo mai saputo di cosa si trattasse. Non sapevo precisamente cosa volesse dire avere una vera mamma, ma vedendo quei sorrisi e osservando bene tutti quanti mentre servivo cibo, percepivo che io, per quella famiglia e in quel momento, costituivo quella figura. E saperlo mi tolse l'angoscia dallo stomaco. Ero in piedi e quando Lilianne mi chiese di versagli un po' di vino rosso lo feci con piacere. Jake allungò il bicchiere, e lo versai anche a lui. Tutti in quel momento parlavano di quanto Annabelle fosse diventata bella. Lei amava stare al centro dell'attenzione. «Vuoi assaggiare?», mi chiese Jake impertinente. Se avessimo potuto limitare la conversazione al massimo sarebbe stato meglio. «No, non mi piace», dissi schiva, facendo per rimettermi a sedere. Mi posizionò un braccio attorno alla vita e sollevò il bicchiere. «Avanti, ti assicuro che è buono.» Raggelai, sentii caldo, raggelai e sentii di nuovo un immenso calore. Sospirai e poi obbedii, assaporando il liquido rosso. «Non mi piace». Mi risedetti e afferrai un pezzo di dolce. «Questo si che è buono!», esclamai, pensando ad alta voce. «Sì, perché non hai assaggiato quella», disse indicando la crostata. Il secondo dopo avevo afferrato una fetta. L'avvicinai alle mie labbra, e diedi un gran morso. «Questa volta ti do ragione», dissi masticando. Mi sorrise. «Anche se mi volevi fare assaggiare il vino solo per potermi toccare.» Lui rise. «Come fai a capire sempre tutto?», chiese sorridendo. «Dovresti smetterla di autolederti», consigliai acida. «Ma io sono un masochista e non ho intenzione di smetterla», rispose divertito. «Meno male, perché io sono nata sadica», ribattei. «E' una fantastica combinazione.» Scossi la testa tra me e me.
«Sì, l'ho notato anche io», sentii dire dalla donna difronte a me. Percepivo i suoi occhi addosso. «La somiglianza è davvero... Uau», rispose uno dei fratelli, Jack. Mi venne voglia di espirare. Tutti nelle loro menti erano a conoscenza di cosa ci fosse alla base della storia tra me e Jake. Una profonda mancanza rimasta incolmata. Quel pensiero era così angosciante e tormentante. Non ero speciale, somigliavo solo ad una donna che lo era per davvero. Io, sapendo di essere sulla bocca di qualcuno che mi stava anche osservando, sollevai lo sguardo. «Oh, scusami. È solo che tu ricordi tanto...», cominciò Liz. «Rose», terminai la sua frase, infastidita. Apparii probabilmente seccata, e mi dispiacque. Jake si incupì. «Sì. Siete tutte e due davvero molto belle», disse sorridendo. Io feci lo stesso. «Grazie.» Divorai l'ottimo cibo nel mio piatto in silenzio. «Tutto okay?», mi chiese Jake dopo un po'. «Non autolederti ancora», consigliai. Lui sollevò gli occhi al cielo. «Posso resistere alla tua stronzaggine, l'ho fatto per mesi», rispose provocatoriamente. «Io ho resistito a peggio», replicai. «Sì? E a cosa?», chiese irritato. «Ehm, al fatto che tu mi abbia notata per un motivo ben preciso, ad esempio. O al fatto che tu mi abbia mentito innumerevoli volte. Al fatto che sei stato con tutte le ragazze del nostro college. Al fatto che sei la persona che mi ha impedito di salutare mio padre prima che morisse... Questo genere di cose. Un po' di torta?», chiesi con noncuranza, allungando il braccio verso il dolce. «Sei tu la masochista se non riesci ancora a superarlo. No, grazie.» Feci una risata acida. «Che stronzo.» Terminammo quella conversazione. Oh, quello sì che significava autoledersi. Quello sì che significava essere masochisti. Tutto ciò che mi aveva resa triste era legata a lui, quanto tutto ciò che mi aveva resa felice. «Perché non la finite di parlare tra di voi laggiù?», ci disse Bill sorridendo. «Devo rientrare al college», dissi fredda, alzandomi in piedi. Sentii un groppo salire alla gola. Secondo lui davvero potevo superare come se nulla fosse che mio padre era morto? Era dramma il mio? Era autocommiserarsi e autocompiangersi? O forse ero triste? Triste perché stavo festeggiando il Ringraziamento con la famiglia di un altra persona, perché la mia chissà dov'era finita. E la mia casa, dov'era? Fratelli, sorelle? Madre e padre? «Ma di già?», chiese Matt corrugando la fronte. Bill fulminò Jake con gli occhi, come se sapesse che la mia necessità era strettamente legata a lui. «Che è successo?», domandò Bill imbrunito. Io scossi solo la testa perché temetti non sarei riuscita a parlare. Il nodo in gola me lo avrebbe impedito. Camminai spedita verso il salotto per rimettere il cappotto e prendere la borsa. In un attimo l'atmosfera familiare in cui credevo di trovarmi si era dissolta e mi sentivo un pesce fuor d'acqua.
«Superare il fatto che ti abbia mentito perché cercavo di proteggerti, non perché tuo padre è...» «Morto? Puoi dirlo. Lui è morto». Indossai la giacca, osservando il cammino, sentendo gli occhi bruciare, vedendo la legna ardere sotto alle fiamme. «E l'unica persona con cui me la posso prendere per questo, sei tu. Io e te siamo diversi. Io non avrei mai avuto paura di dirgli addio. Non l'avrei mai abbandonato, se solo avessi saputo che stava morendo. Una volta mi hai chiesto che razza di persona è una che abbandona la propria madre prima di morire... Be' è una persona orribile e terribilmente egoista.» Ferire evita di essere feriti, mi ripetei. Misi la borsa sulla spalla e mi voltai. «Tu sì che sai come ferire le persone», ribadì con un sorriso amaro. Si sedette sul divano e si prese la fronte tra le mani. «Ma hai ragione.» «Smettila di dire che l'hai fatto per me. Perché non ci credo. Perché non lo supererò mai se continui a mentirmi. Dimmi la verità, dimmi il motivo per cui l'hai fatto. Non hai potuto davvero incrociare le dita e sperare che tutto sarebbe andato bene e non avrei mai saputo niente... Ti conosco. Dimmelo... Dimmi...» «La risposta è che l'ho fatto per te. Ho fatto tutto quanto per te. Da quando ti ho incontrata non ho fatto altro che tentare di farti capire che non sei semplicemente unica, tu sei l'unica. Tutti gli errori che ho fatto... Li ho fatti per proteggere te. E ho speso ogni mio sforzo per fartelo capire, ma anche se urlassi che ti amo per ogni strada di questa città, tu mi diresti che sono confuso, mi diresti di non urlare, mi diresti che è tardi, che non so quello che dico. Se ti chiedessi di diventare mia moglie, e tu lo volessi quanto lo voglio io, tu mi diresti comunque che è una pazzia. Se ti supplicassi di perdonarmi e tu volessi farlo con tutta te stessa, non cederesti comunque, non lo faresti mai». Ora era in piedi, e mi guardava negli occhi. Distolsi lo sguardo e lo sorpassai. Camminai verso la porta e prima che potessi sbatterla alle mie spalle, lui la fermò. «Resta.» Scossi la testa e scesi giù per il portico, camminando sempre più veloce. Mi afferrò nelle spalle e mi fece voltare. «Resta.» Io deglutii. «Dimmi che te ne sei andato per un motivo. Non perché credessi che io ero la causa di tutto. Dillo, e tutto tornerà come prima. Te lo prometto. Dimmi che c'è una ragione vera, una ragione importante. Dimmi che non mi hai lasciata di punto in bianco perché ero la persona con cui avevi passato quella notte. Torno da te, è l'ultima possibilità che ti do. Ma ti prego...» «No. O mi ami oppure no. Non c'è una via di mezzo. Non puoi cambiare idea da un giorno all'altro», quando parlò, dalle sue labbra fuoriuscì una nuvola di fumo. Io guardai la sua bocca, stordita e confusa. «Non lo so...»
Delle lacrime mi salirono agli occhi. Rabbuiò. «Sul serio?», disse piano. «Non eri cerebralmente confusa? Non pensi di provare niente per davvero?», chiese deluso. «Tu mi fai stare male», singhiozzai. «Io non voglio farti stare male... È l'ultima cosa al mondo che voglio. Tu sei la mia vita, per davvero. Non sai quante volte penso a te al giorno, quante volte ti guardo...» «Basta. Voglio andare via», feci per voltarmi ma mi bloccò il braccio. «Vedi? Tu fai così! Io ti parlo e tu scappi», gridò. Abbassai gli occhi. Riusciva sempre a farmi sentire piccola, piccola e stupida. «E adesso, non scappi ma non parli! Mi sembra di avere a che fare con una bambina». Solo allora sollevai lo sguardo. Gli tirai una ginocchiata in mezzo alle gambe e poi riempii il suo petto di cazzotti. Cadde in un grido di dolore e si piegò in due. «Cazzo... Che male», gemette con la voce soffocata. «Così impari a darmi della bambina! Se non parlo è perché non so che dirti! Tu strilli e mi confondi...», rivelai. Non si smosse da quella posizione. «Ti ho fatto così male?», chiesi con un pizzico di preoccupazione. Annuì. Feci un passo in avanti, ma a tradimento lui mi afferrò per le cosce e mi sollevò. D'un tratto ero a testa in giù. «Che vuoi fare?», gridai dimenandomi. Lui rise e si avviò verso la spiaggia. «Si chiama giustizia fai da te». Proseguì per il tragitto verso il mare. La salsedine mi inebriò. «Per favore... Mettimi giù. Ti prego», implorai. Perché questo si doveva ripetere e ripetere? «No», disse fermo. Non rideva più, il che iniziava a preoccuparmi. «Non ne posso più di stare sulla tua spalla. Mi gira tutto nello stomaco, il sangue nella testa... Uffa», mi lamentai. Gli stavo quasi sfuggendo, infatti mi riafferrò più salda e posizionò una mano tra la natica e la coscia. Sussultai e gli diedi un pugno. «Scusa, non l'ho fatta apposta», ridacchiò, facendo scivolare la mano lungo la coscia. Mi venne la pelle d'oca in tutto il corpo. Rilassata smisi di parlare e chiusi gli occhi. «Ci sei? Stai per fare un bel bagnetto», mi beffeggiò, quasi in riva. Le punte dei miei capelli strisciarono sulla sabbia, finché questa non si fece più scura e bagnata. Pensai solo alla sua mano sull'incavo del ginocchio. «Mettimi giù, ti prego. Non mi vorrai fare ammalare.» Dopo aver fatto leva su uno dei suoi punti deboli, fermò la camminata. «Okay. Tu in cambio mi baci?» «Che?», gridai sconvolta. Ma che genere di proposte erano mai quelle? «Semmai posso darti un'altra ginocchiata tra le palle», minacciai. «Spero che mi si drizzerà ancora dopo questa.»
«Non mi interessano questi dettagli, sai? Puoi tenerli per te», dissi con un disgusto caricato. «Possiamo provare subito, in genere basta che ti guardi per bene», ridacchiò. «Scordatelo. Ricordi cosa è successo l'ultima volta che abbiamo fatto sesso? Dovevamo sposarci e poi mi hai lasciato.» «L'ultima volta che abbiamo fatto sesso era in una camera d'hotel, e non riuscivi a smetterla di gridare il mio nome a quanto ricordo», ribatté. «Secondo me l'hai sognato», dissi sorridendo sotto ai baffi. Era stato indimenticabile, ma prenderlo in giro era rinsanante. «Ti conosco bene, sai? Non potresti dimenticarlo nemmeno se lo volessi.» «Evidentemente non è stato granché», dicendolo non riuscii a trattenermi dal ridere. «Bene... L'hai voluto tu.» Fece un passo in acqua, bagnando sia le sue scarpe che i miei capelli. «Li dovrò lavare!», gemetti. Mi immerse un altro po'. Credo che le mie grida le avesse sentite anche Jim immerso nel suo piacevole sonno. «Zitta! Penseranno che ti sto stuprando», rise. «Ti sei anche bagnato le scarpe tanto per farmi un dispetto?», gridai. «Mi fa sentire meglio», confessò. «Meno male che ero io la sadica.» «Vuoi scherzare? Ridevi come se fossi posseduta mentre quelle due si picchiavano», disse alludendo a questa mattina in mensa. Pensandoci mi venne nuovamente da ridere e iniziai a contorcermi come un'anguilla. «Ferma, altrimenti cadi!», urlò. Io non riuscii a smetterla. Mi faceva male la pancia al pensiero che si stessero mordendo a vicenda le braccia.
Non avevo mai visto niente di più patetico e divertente. Mi calò in acqua dal lato opposto, facendo aderire il mio corpo al suo, strusciandolo contro il suo. Mi venne da gemere, quando con le mani si fermò sulle costole, sotto al ferretto del reggiseno. Involontariamente, mi stava per palpare! Quando lessi un leggero imbarazzo nella sua espressione capii che non l'aveva fatto apposta.
Ora ero bagnata fino alle ginocchia. «Cazzo, avevo dimenticato che sei così bassa. Hai metà pantaloni fradici», ridacchiò, guardando in basso. Io feci lo stesso e sbuffai. «Questo perché tu mi hai trascinato qui dentro!», abbaiai. «Tu volevi scappare», ribatté. «Se volevi fermarmi c'erano altri modi per poterlo fare», ringhiai ancora. «Nella metà di questi tu ti saresti messa a piangere», rispose ridendo. Rimasi interdetta. «Io piango raramente», grugnii puntandogli un dito contro. Rise ancora. «Certo, sì», mi assecondò. Io incrociai le braccia al petto, offesa e colpita. «Scherzavo, non te la prendere», disse con un sorrisetto beffardo al quanto odioso. «Ovvio che scherzavi, perché non è vero!», abbiai ancora, prima di uscire dall'acqua. Mi seguì. «Uau, funziona ancora», disse alle mie spalle. «Che cosa?», chiesi confusa. Scoppiò a ridere. Divenni rossa e imbarazzata da morire, tanto che non volevo neppure girarmi. «Dov'è finita la mia borsa? Lì c'è il cellulare! Devo chiamare il taxi!», gridai preoccupata, guardandomi intorno. «È caduta quando ti ho presa in braccio... Eccola è lì. Non serve che tu salga in un taxi con i jeans zuppi d'acqua», suggerì. Io angosciata sospirai, cercando nella mia testa una soluzione che evitasse entrambi in un auto ed un silenzio imbarazzante. «Non puoi ammalarti, domani hai un test», mi ricordò. «Sul serio?», mi accigliai. «Hai studiato, vero?», disse in tono rimproverevole. «Non apro libro da un mese», dissi sincera. Lui allargò le palpebre. «Stai andando male?», chiese preoccupato. «Se non dai esami non puoi andare male.» «Ma se non dai esami puoi essere bocciato.» Sollevai gli occhi al cielo. «Smettila». Afferrai la borsa e cercai il cellulare. «Ti accompagno io, andiamo.» «No, non preoccuparti.» «Devo prenderti in spalla un'altra volta?» Io frustrata e contrariata acconsentii e a passi pesanti raggiunsi il vialetto, sentendo i suoi dietro ai miei. Sentii il cellulare vibrare e poi lessi un numero sconosciuto sullo schermo. «Sì?» «Alexis? Sei tu?», chiese una voce da uomo, profonda e particolarmente cupa. Io corrugai la fronte. «Con chi parlo?» «Sono Cage. Puoi parlare?» Mi sorpresi, quasi spaventai. «Perché hai chiamato?» Mi accigliai. Sospirò al di là della cornetta. «Sono in ospedale... Tua madre è appena stata ricoverata... Puoi venire?»
Il sangue mi si congelò nelle vene, il respiro mi si bloccò in gola solo a sentirla nominare. «Che è successo?», dissi sconvolta. «Dobbiamo farci una chiacchierata, è importante...» Non volevo complicarmi la vita un'altra volta con mia madre e i suoi problemi, già ne avevo abbastanza. Sospirai profondamente. «Non posso.» «Sta male.» «Mi dispiace, adesso non posso.» Riagganciai. «Che succede?», domandò Jake accigliato. «Mi accompagni al college o no?» Lui perplesso annuì e si diresse verso la sua macchina. Con la testa altrove montai dentro e chiusi lo sportello. «Chi era al telefono?», chiese preoccupato, mettendo in moto. «Nessuno.» «E allora perché hai quella faccia?»
«Non mi va di parlarne.» Lui fece partire l'auto ed io mi rannicchiai sul sedile osservando il paesaggio al di fuori della finestra. In silenzio. Dopo meno tempo di quanto mi aspettassi e volessi fermò l'auto. Non volevo schiudere le palpebre e mettere piede a terra. «Siamo arrivati.» «Ho sonno...», bofonchiai. Mi riavviò i capelli dietro all'orecchio e sospirò sulla mia pelle. «Posso dormire?», mugugnai rannicchiandomi ancora di più. «Dormiresti più comoda nel tuo letto.» «Dormirei più comoda nelle tue braccia.» Mi sorrise.
In my place, Coldplay.
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-Kat🌸
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Amami nonostante tutto 2
RomanceUn vorticoso nulla si è appropriato della vita di Alexis. Al college sperava di trovare un inizio, non una disastrosa fine; eppure, nonostante una voce dentro di lei le consigli di scappare, un'altra la obbliga a rimanere. Forse con la speranza che...