25. Fix you

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25. "Ora vi capisco. Non parlo alle ragazze perfette, di centottanta centimetri per quarantachili, né alla splendide more dagli occhi chiari. Non parlo ai dieci e lode, non parlo ai geni della classe. Non parlo neppure al più bravo ballerino del suo corso, al più prodigioso calciatore della sua squadra. Non parlo a chi è già stata promessa una borsa di studio a Yale, o magari in qualche altro posto per geni ed intellettuali. Non parlo a coloro a cui le cose vanno sempre, e fottutamente sempre bene. Non parlo a chi alla domanda, "qual è stato il giorno peggiore della tua vita?", non sa ancora come rispondere. Non li biasimo, ma non parlo a loro. Non parlo a chi la mattina si sveglia e con la sua famiglia del mulino bianco mangia fette biscottate e marmellata. Non parlo a chi non saprà che scarpe utilizzare alla festa di fine anno, o chi non ha ancora scelto il vestito giusto per il compleanno della propria migliore amica. Non parlo a chi è indeciso se comprare la nuova borsa di Prada o di Chanel, chi non sa ancora quale meta raggiungerà nelle sue vacanze estive. Non parlo a chi ha due genitori perfetti che vanno ai colloqui con i professori, che si preoccupano a lasciarli alle feste fino a notte tarda. Non parlo a quelli che si lamentano delle mille domande della loro madre, o a quelli che a tredici anni rientrano in piena notte ubriachi e fatti. Non parlo a quelli che si lasciano trasportare come foglie dal vento che tira, che seguono la moda del momento solo per essere accettati. Non parlo a coloro che hanno una vita perfetta ma non lo vedono, a coloro che cercano l'ago nel pagliaio, il pelo sulla lingua, che vogliono sempre e comunque la ciliegina sulla torta. A me le ciliegie neppure piacciono, perché non mangiarsi una bella fetta e basta? Non parlo a chi piange su una A perché vuole una A+, non parlo a chi ottiene sempre ciò che vuole. Non parlo a coloro che non si accontentano di ciò che hanno, e vogliono sempre di più. Non parlo a loro, solo ed unicamente per invidia... anche io ero così. Anche io voglio avere come principale preoccupazione il fatto di non sapere se mi sta meglio il rosso o il nero, o se presto troverò un ragazzo. Non parlo a quelli che vengono spronati dai professori perché credono in loro e nelle loro capacità. Voi, e le vostre straordinarie doti... Vi invidio, mi chiedo a volte se anche io ne abbia qualcuna, magari ancora nascosta. Perché tutti meritano di avere qualcosa in cui eccellere, giusto? Tutti meritano un'opportunità per essere ricordati, tutti meritano che qualcuno creda in loro... Tutti meritano qualcuno che metta da parte sé stesso, e che spenda un attimo per chiedergli: «come stai?», e che ne spenda un altro per ascoltare la loro risposta -non sentirla e basta. Ma che la ponga non perché deve colmare il suo senso di colpa o per pulire la sua coscienza, ma perché quella risposta gli interessa davvero. Tutti meritano una persona fatta apposta per loro, ma pochi la hanno.
Parlo a quelli che per tutta la vita hanno fatto parte della classe media, non da un A+ ma neppure da una D. Non un genio, ma neppure uno sciocco. Non il più bello della scuola, ma carino. Intonato, non un promittente cantante. Coordinato nella danza, non il migliore del corso. Mi riferisco alla classe media, quella che si attiene allo status quo, quella che come me parla poco e pensa tanto, che osserva i minimi particolari, che a casa, nel proprio letto, scrive cose migliori dei temi che vengono letti e premiati dall'insegnante nelle loro classi. Quelli a cui non piace uscire ma che amano starsene soli ed in casa a leggere. A quelli che ottengono sempre meno di quello che meritano, a quelli dalla presenza irrilevante, dall'esistenza irrilevante per la maggior parte delle persone. A quelli che a lungo andare annoiano, a quelli troppo chiusi in sé stessi per lasciarsi conoscere, a quelli che incontrano la gioia una volta ogni tanto. A quelli che Dio decide di sottrarre qualcosa dalle perfette equazioni delle loro vite, rompendo il loro noioso equilibrio, costringendoli a reagire, a diventare forti tutto a un tratto. A quelli che sanno di vivere in salita, che sanno che le cose non saranno più facili. A quelli che troppo presto e troppo in fretta si ritrovano senza niente, e da quel niente sempre meno. A quelli che sorridono tra la gente e che poi si accasciano contro la porta del bagno a piangere. A piangere soli. Perché nessuno in quei momenti e lì per te; la gente si auto convince che vederti ridere tra le persone vuol dire che tu stia bene, perché è più facile per loro, anche se in realtà sospettano che tu sia in un processo di autodistruzione. E loro contribuiscono, loro peggiorano e basta. Loro dicono "ci sono", ma nella realtà di tutti giorni smettono di preoccuparsi per te. E biasimarli è impossibile, biasimarli è inutile. Loro non sanno cosa vuol dire, loro sono crogiolati nelle loro equazioni perfette, nei loro mondi di unicorni e arcobaleni, dove i piccoli problemi quotidiani costituiscono veri dilemmi. Hanno i loro dilemmi a cui pensare per poterti dare attenuanti. C'è chi muore lentamente, senza che nessuno intorno se ne accorga. C'è chi quando muore non fa rumore, per paura di disturbare. Ci sono momenti in cui il sole smette di splendere, e ci sono persone che si accontentano di piccoli spiragli di luce ogni tanto, perché d'ora in poi non possono sperare in meglio. Il sole non tornerà mai a splendere, e se lo farà, non sarà più lo stesso sole."
Jake
Volevo leggere il continuo, ma nella pagina dopo c'era solo un altro disegno. Era la terza volta che rileggevo il suo diario, era da folli, ma con quel diario l'immenso buco nel petto che sentivo pensando a lei, si attenuava. «Ancora con il diario dei ricordi? È macabro, amico, lasciatelo dire», disse Simon noncurante, con una delle sue potenti pacche sulle spalle. Mi sentivo in un mondo asettico da quando ero tornato in Florida e alla Kingstom. Erano già passate due settimane dall'ultima volta in cui le avevo parlato? In cui lei aveva parlato a me - in cui lei mi aveva fatto a brandelli con le sue parole. Ma aveva ragione. Era normale che non provasse più niente per me dopo ciò che le avevo fatto. Non cercavo un modo per provare a sistemare le cose, per parlarle. Era finita sul serio sta' volta. Non me l'aveva detto piangendo, distrutta da un lutto. Me l'aveva detto guardandomi con quegli occhi di ghiaccio ed impassibili, sincera. Tutti si sognavano di averla, ed io che l'avevo, me l'ero lasciata scappare come un idiota. Più che pentirmene, non potevo fare niente. Rimisi il diario nella borsa da football. «Si può sapere cosa mai c'è scritto lì dentro?», Simon si sedette in panchina, prendendo una pausa dal sole cocente che gli batteva sulla testa. «Tu fai parte della classe media», riflettei. «Sei bravo a scuola, ma non quanto me. Sei il quarterback, ma non il capitano...» Mi guardò alienato. «Si può sapere di che diavolo stai blaterando?», chiese corrugando la fronte. «Lezioni profonde dallo spettro della tua ex ragazza?», intuì dopo. «Sei uno sfigato, i tuoi capelli trattengono di più i raggi del sole. Perciò fai parte della classe media», misi lo zaino in spalla e mi allontanai verso l'uscita del campo. Per farlo dovevo attraversare l'area dove le cheerleader facevano i loro allenamenti. Erano così scoordinate. Sul lungo tappeto blu disposto proprio sotto alla zona più illuminata dal sole vidi una ragazza dai lunghi capelli caramellati fare una serie di ruote, capriole in aria, e volteggi che mai avevo visto fare. Atterrò perfettamente in piedi e poi giocò con la sua coda di cavallo lunghissima. Da quel che potevo vedere era il perfetto ritratto della bellezza. Quindi non poteva essere nessun'altra donna oltre che lei. Fischi e applausi partirono immediatamente, mentre quelle ragazze vestite da mini tutine con il simbolo della Kingstom stampato nel centro della maglietta, eccitate le correvano in contro. Lexie non faceva affatto parte della classe media. Simon mi diede un'altra botta sulla nuca, io sussultai e gli diedi uno spintone. «Ah... Chi ti sei fatto sfuggire!», esclamò, scorrendo lo sguardo dalla sua testa ai suoi piedi. Sopra alle nostre teste sfrecciò una palla da football proprio verso di loro. Quando atterrò sui piedi di una cheerleader, Lexie la prese tra le mani, e con un'espressione rabbiosa dipinta in volto guardò verso la nostra direzione. Simon sollevò le mani in segno di innocenza, ma lei ce la scaraventò comunque addosso. La afferrai nei miei palmi, cavolo con quanta forza l'aveva lanciata, doveva volermi proprio male. Disapprovata tornò alle sue chiacchiere. Udii un fischio alle mie spalle, Braze Dickman la rivoleva indietro. Quando Simon si accorse di lui fece un'ampia risata. «Uomo cazzo», me la strappò di mano e gliela rilanciò con tutta la forza in piena faccia. «Ma che diavolo fai?», gli dissi, mentre quel poveretto ormai atterrato, si riprendeva strofinando la mano sul punto dolorante della sua guancia. «Per colpa sua Alexis crede che tu le abbia tirato una pallonata. Punteggio riconquista: -10», spiegò. «-1, non addirittura meno dieci.» «A giudicare dal tuo comportamento e dal suo sguardo trucido quando ti vede, siamo all'incirca a -1000», replicò. «Chi ti dice che la voglio riconquistare?» Scoppiò a ridere, poi tornò serio. «Ti detesto quando fai così, sei tremendamente noioso. O torni a fartene una al giorno o torni con lei», ultimò. «Altrimenti?» «Altrimenti sfogherai la tua energia negativa, le tue paranoie, contro di me.» «La mia "energia negativa"», ridacchiai. Sentii dei passi corrermi alle spalle. Lexie stava boccheggiando, si fermò e riprese aria. «Brittany non riesce a camminare dopo la pallonata che le avete tirato!», strillò, rabbiosa e preoccupata. «Non gli abbiamo tirato nessuna pallonata», ribattei. «A causa vostra non riesce neppure a raggiungere l'infermeria», sfiatò accaldata a causa del sole. Ma che cazzo! Le mie parole le entravano da un orecchio e uscivano dall'altro? «Sì hai proprio ragione. Se solo tu avessi una mira migliore!», mi rimproverò Simon, ridendo di sottecchi. Lexie mi lanciò una bruttissima occhiata. «Perché l'hai fatto?», ringhiò. «Ma...» «Sei proprio un bambino!», mi accusò lei. «Simon, la porti in infermeria?», gli chiese gentilmente. «Non si è fatta niente, vuole solo che io la porto in braccio», le dissi. Lei assottigliò lo sguardo in due fessure, trucidandomi con quegli occhietti accusatori. «Jake! Non riesco a camminare... Mi porti in braccio?», sentii cinguettare da una Brittany seduta sul tappetone, ed accerchiata da ragazze preoccupate. Sbuffando feci per raggiungerla, ma venni bloccato dalla sua mano appoggiata sul mio petto. Come mi era mancato sentire la sua mano appoggiata sul mio petto. «No. Ho cambiato idea. Sono sicura che menta». Quell'atteggiamento mi fece sorridere. «Sai... Anche io ho cambiato idea. Quella caviglia sembra gonfia». Il suo sguardo si fece ancora più trucido e rabbioso. «Come vuoi», disse tra i denti. Raggiunsi Brittany, che vedendomi arrivare sorrise a trentadue denti. La sollevai, e lei appoggiò la sua testa sulla mia spalla. Non appena giunsi fuori dal campo mi venne voglia di mollarla a terra, o togliere via la sua mano dai miei capelli. «Che bei occhi», disse, ma sembrò più un lamento. «Sai, non ricordo più dove sia l'infermeria. Meglio se la raggiungi da sola». La rimisi in piedi, e lei mi guardò con due occhi da cucciolo bastonato. «Mi fa male la caviglia! Per favore...», mugolò.
«Quella palla non ti ha neppure preso!», protestai. Lei ringhiò senza parlare, e ondeggiando il fondo schiena se ne andò. Vidi l'intera squadra di football uscire dal campo per gli allenamenti. Simon mi raggiunse con un sorriso idiota sulle labbra. «Perché le hai detto che sono stato io?», dissi arrabbiato. Lui rise, e si sistemò la borsa sulla spalla. «È gelosa... Forse hai una speranza. Non ha fatto altro che parlare di quanto Brittany sia insopportabile ed abbia le vesciche ai piedi». Io scossi il capo. «Grande, adesso è anche arrabbiata con me», borbottai. «Lo era anche prima», ribatté. «Si è ripresa bene, il suo braccio è apposto», constatò lui. «Non me lo ricordare...», grugnii. «Sai, la sera in cui te ne sei andato e mi hai detto di andare da lei...», cominciò. «Cosa?», dissi preoccupato. Sentii il cuore iniziare a battere sempre più forte.
Temevo che tra di loro ci fosse stato qualcosa, dato il suo tono cupo. «Era spaventata, molto. Mi ha detto che qualcuno bussava prepotentemente, che voleva entrare in casa e le mandava messaggi», mi informò. Io strabuzzai gli occhi. «La telecamera era coperta da un biglietto. Quel qualcuno si era firmato "J", non ricordo cosa ci fosse scritto. Ma riguardava un camion. Ho pensato che la volesse spaventare a riguardo di quell'incidente stradale, l'anno scorso», raccontò. Io corrugai la fronte. «Sul serio?» Lui annuì. «Perché non mi avevi detto niente?» Si strinse nelle spalle e continuò a camminare verso il dormitorio maschile. Io riflettei per tutto il tragitto, rimanendo in silenzio. «Al matrimonio ho parlato molto con Lilianne...» «Non farlo, non sa neppure in che anno siamo», risposi, aprendo la porta della stanza. «È una nonnina amabile. Pensava fossimo nel 2004», raccontò. «Questo perché ha l'alzheimer», dissi io gettandomi sul letto. «Quindi hai sia i geni del cancro che dell'alzheimer...», si arrampicò sulle scale del letto a castello. «Esatto.»
«Si sa qualcosa? Di Josh?»
Io sospirai. «Stanno intervenendo i federali... Ma non ci hanno capito un bel niente», dissi costernato. «I federali?», domandò, facendo cigolare la rete affacciandosi. «Indagano sulle aziende di Los Angeles», spiegai. «Quindi hanno sentito tuo padre?» «Più volte», chiusi il discorso e mi diressi verso il bagno. Mi esposi al getto dell'acqua, anche se era gelida poiché si erano rotte le tubature in entrambi i dormitori. Mi stavo legando un asciugamano sulla vita quando sentii bussare. Con la mano libera aprii. Julie furtivamente entrò in bagno e chiuse la porta appoggiandoci le spalle contro. Io mi accigliai. «Che ci fai qua?», chiesi stranito. Lei sospirò. «L'altro giorno io... I-io e Alexis ripetevano oncologia... Be', per un attimo s-si era preoccupata perché ha... Ha degli strani sintomi e io pensavo fosse incinta ma non è incinta e... Oggi andava in ospedale. Mi ha detto che le toglievano i punti ma ho parlato con Jonas e mi ha detto che glieli hanno già tolti. Ho parlato con la Young, e non mi ha detto niente. Con Edwards, che mi ha detto di imparare a compilare le cartelle cliniche. Finché Evans non mi ha fatto capire che di lei se ne sta occupando Finlay», concluse e prese un'ampia boccata d'aria. «Finlay è di ginecologia. Ha una ginecologa, che c'è di strano?», chiesi confuso. «Non Finlay di ginecologia! Suo marito, Finlay di neurologia!», gridò. «Ha avuto un trauma cerebrale», risposi, per tranquillizzarla. «L'hanno già curata!», strillò. «Ho paura...», disse sospirando. «Senti, solo perché il cancro è ovunque non vuol dire che Alexis a diciannove anni abbia un cancro. Potrebbe avere la pressione bassa o cose del genere...», la rassicurai. «Oh Dio, no! Non dico che abbia un cancro ma sono preoccupata perché non mi aveva detto niente e...» Fermai la sua parlantina stringendo le sue spalle nei miei palmi. «Le visite neurologiche sono nella prassi dei traumi. Smettila di parlare a raffica e lasciami vestire.» Lei annuì. «Scusa», sussurrò ridacchiando. «Ho fatto una corsa dall'ospedale fino qui», disse afferrando la maniglia. «Penso che tu abbia ragione...» «Ciao Julie», la accompagnai verso l'uscita e chiusi la porta. «Che maleducato!», mi sgridò al di là della soglia. Io mi vestii ed asciugai i capelli per raggiungere la mensa. «Perché tu e la mia ex vi riuniti in comizi privati nel mio bagno?», chiese Simon montando giù dal letto. «Julie è ansiosa ed ipocondriaca... Al di là della bellezza, come facevi a starci insieme e a sopportarla?», chiesi curioso. «Parla male di chi vuoi, ma non di Julie», disse severo. «Non hai risposto alla mia domanda». Afferrai il mazzo di chiavi ed il telefonino dallo scaffale. «Sai, non tutte le ragazze del pianeta sono delle sadiche sociopatiche», rispose lui. «E con "tutte le ragazze del pianeta" intendi...» «Una stronzetta cresciuta nei pressi di Central Park ma con un gran bel culo». Gli lanciai una delle mie peggiori occhiate. Sollevò le mani in segno d'innocenza, «tranquillo... Non la sfioro neppure», ridacchiò afferrando la maniglia. Sperai solo che fosse così. Il solo pensiero che qualunque altro essere vivente la guardasse e basta, mi faceva salire il sangue al cervello. Il fatto che quel viscido le avesse messo le mani addosso mi tornò alla mente come un treno in corsa; se l'avessi rivisto non sapevo fino a che punto sarei riuscito a fermarmi. E l'odiavo. Odiavo lui e odiavo ancor di più me. Odiavo il fatto che lei non potesse fare affidamento sulla mia lucidità, che non si potesse fidare di me. Che ero abbastanza forte da riempirlo di pugni ma non abbastanza da riuscire a non farlo. La mensa era più piena del normale, essendo mercoledì.
Sentii una spalla urtare la mia nel mezzo dell'ingresso. «Scusa», riconobbi la voce prima di incontrare il suo volto. Se già ero nervoso prima, ora che avevo visto Liam Payne lo ero ancora di più. «Faresti bene a guardare dove vai.» Simon probabilmente si ricordava dei nostri precedenti, infatti mi strattonò un braccio. «E sta' fermo», borbottai. «Andiamo, c'è fila», ansimò lui. «Lo farò», disse Liam. Io mi limitai a fargli un cenno. Giungemmo all'interno, dove Travis, al solito tavolo, stava costruendo capanne con le patatine fritte. Con un solo tacos, fregato dal piatto di Jeremy, le feci cadere tutte sul pavimento. Lui sconvolto sollevò lo sguardo. «Fottiti, ci avevo messo un'ora», ruggì. Io risi e mi feci spazio tra la fila, chissà perché a tutti stava bene. «Mi hai superato!» E chi mai poteva essere? Lexie incrociò le braccia al petto e mi rivolse il secondo sguardo trucido della giornata, o forse era il terzo? «Capita», dissi sorridendo.
Farla arrabbiare mi era sempre piaciuto, sopratutto dopo che mi aveva fatto il cuore a pezzi.
«Sei un prepotente!», sfiatò, con le guance dello stesso rosso delle labbra e del maglione che indossava. Il sorriso mi si aprì di più in volto. «Che maleducata... Alison mi farebbe passare. Giusto?», feci scivolare la mia mano lungo il fianco della ragazza che mi era davanti. Alison mi sorrise, ed io sorrisi a lei, consapevole di chi ci stesse guardando attentamente.
«Ehi», sembrò fare le fusa. Purtroppo non tutte le ragazze avevano lo stesso odore di Lexie. Alison aveva tre quintali di profumo ed avvicinarsi a lei era letale. «Cosa ti do?», mi sorrise l'addetta alla mensa. «Il meglio che hai.» Quando io sorrisi a lei, la donna ultrasessantenne arrossì, e quasi mi pentii d'averlo fatto. Riempì il vassoio e lo fece scorrere sul bancone. «Grazie». Alison avvinghiò il suo braccio al mio, e mentre roteavo il collo per cercare Lexie, lei mi stampò un bacio sull'angolo delle labbra. «Dove vai? Siediti al nostro tavolo», mormorò al mio orecchio. «Ehm...», temporeggiai, tentando di farmi venire in mente una qualunque scusa. Quando mi guardai intorno, Lexie sembrava inspiegabilmente triste, ritirando il suo vassoio. D'un tratto mi si strinse il cuore, e mi si accese quel sensore del cervello che associava la sua immagine all'aggettivo possessivo "mia". Dentro di me sperai che fosse gelosa, ma al tempo stesso non volevo che stesse male a causa mia. Se solo non mi avesse detto che non provava più nulla per me, e non avessi avuto la certezza che fosse sincera, in quel momento avrei creduto che non fosse così. Congedai Alison per sedermi al solito tavolo. «Sei un idiota», disse Jeremy. «Torna nel tuo mondo, Jer», risposi irritato. «Ha ragione», disse Travis. «Oh sì che ha ragione», aggiunse Simon, roteando il collo di centottanta gradi. Fece un sorriso compiaciuto, guardando attentamente Alexis camminare verso il suo tavolo al di sotto dell'equatore. Gli lanciai una mela dritta in fronte, che lui riafferrò e tirò in mia direzione. La schivai, e la mela volò fino al tavolo delle cheerleader. Sobbalzò in circa sei piatti diversi, facendo schizzare l'orribile minestra ai ceci ovunque. Sulla tovaglia, sulle facce delle ragazze e sulle loro scollature esagerate. Causò diversi gridolini di disgusto e sgomento. Noi ridemmo. «Simon!», tuonò Lucille Oithova, con voce stridula e gracchiante. Il suo volto, che sembrava il risultato dello sfogo di un Picasso sonnambulo, adesso era ancora più variopinto. Lui ebbe solo la reazione di ridere più forte, mentre lei raggiungeva il nostro tavolo pulendosi attentamente con un tovagliolino di carta. «Tu sei un idiota!», sfiatò appoggiando le mani sul tavolo. «E tu anche», mi accusò. «Ma come, noi non eravamo amici?», le chiesi sorridendo. «Ci vuole più di un bel faccino per farti perdonare». Le sue parole avevano preso una sfumatura suadente, piccante e maliziosa. «Ci vuole il tuo cazzo», intervenne Simon, «Lucille è alla ricerca disperata di cazzi ventisei ore su ventiquattro.» Lei prese un altro tacos dal piatto di Jeremy, che rimase doppiamente interdetto, e glielo lanciò addosso. «Chi sa come fa mia sorella a sopportarti», ringhiò. «Chi sa come fa a sopportare te», ribatté lui. «Solo io mi chiedo come fai tu a sopportare lei?», intervenni, rivolto a Simon e alludendo a Lola. «Anche io», disse Travis. I nostri commenti non rubarono l'attenzione dei due che si rivolgevano sguardi logori. «Tu e i tuoi miseri cinque centimetri», abbaiò ancora Lucille. «I miei "cinque centimetri", ti piacevano eh», replicò Simon, sorridendo provocatoriamente. Le cose continuarono a lungo come al solito, e come al solito da divertenti divennero solo noiose. Echeggiando in tutta la mensa, una risata contagiosa e melodiosa, squarciò quel lieve parlottare degli studenti seduti ai loro tavoli. Sollevai gli occhi, Lexie per quanto rideva stava battendo i piedi per terra. Amavo quando rideva così. Attirò molti sguardi, ma credo nessuno ne avesse capito il motivo. Julie rideva per il modo in cui lei rideva, e anche qualcun altro scoppiò in brevi risate. «Ma che le prende?», chiese Travis corrugando la fronte, mentre lei continuava a battere i piedi per terra. Solo dopo mi accorsi che fuori dalla mensa, il punto in cui mirava il suo sguardo, Alison e Brittany si tiravano i capelli e si riempivano di calci a vicenda. «Vedi, è proprio sadica», commentò Simon. Io risi, non per la scena ma perché Simon aveva proprio ragione. Tutte le ragazze sembravano così preoccupate, osservavano il tutto con espressioni arcigne, chiedendosi nelle loro teste se fosse il caso di intervenire. Lei rideva. Fred, il custode, subito dopo accorse a separarle. Quelle due sembravano bestie scatenate. «Sei una puttana!», tuonò Alison. «...E da quale pulpito», commentò ancora Simon. «Mi eccita vedere le ragazze che si picchiano», ridacchiò Travis. Il custode lanciò uno dei suoi acuti, «PIANTATELA!». Le due finalmente si calmarono, ed io lanciai un'occhiata a Lexie. Sembrava delusa adesso. Alison sfuggì al braccio di Fred, catapultandosi su Brittany. Tornarono a strapparsi i capelli a vicenda e osservai nuovamente Lexie ridere fragorosamente. Si accorse del mio sguardo su di sé e mi rivolse il suo. Ora la sua espressione era amareggiata, forse offesa. Volevo solo che non fosse così arrabbiata con me da non potermi neppure vedere. Sapevo che non avevamo più alcuna speranza, ma forse una parte di me si rifiutava di crederci. Solo allora mi accorsi che non c'era niente in grado di colmare un vuoto incolmabile. E lei era l'unica in grado di lasciare quel tipo di vuoti in me, e l'unica in grado di colmarli. Perché avevo dovuto conoscerla? Scavare affondo e rompere la sua corazza di durezza, per scoprire quella ricca e dolce parte che si celava nel suo interno e perderci completamente la testa? Perché non avevo lasciato tutto com'era? Perché avevo insistito così tanto con lei? Mi ero cacciato in un guaio da solo. Lexie era un vero guaio. Se solo mi fossi innamorato di una ragazza semplice, una ragazza come tutte, ora non avrei avuto di questi problemi.

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