18. Skinny love

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18. Amore Gracile.

Lexie

Tenni la sua mano nella mia, sopportando anche le involontarie e potenti strette che mi dava di continuo.
«Ehilà, già vi manchiamo?», chiese Andrew sorridendo, dopo aver aperto la porta di casa.
La sua espressione subito dopo si accigliò. «Aspettate... Che succede? Cosa sono queste facce?»
«Papà è dentro?», domandò Jake. La sua voce era così spenta che il cuore mi si strinse un'altra volta.
«Sì, perché? Che succede?», chiese Andrew preoccupato.
Boccheggiai mentre il mio cuore batteva più forte secondo dopo secondo.
Jake entrò non allentando la presa alla mano, ed io lo seguii. Giungemmo in cucina: Bill teneva Annabelle sulle spalle mentre buttava la pasta nel tegame.
«Abbiamo ospiti», disse sorridendo, andando a buttare la scatola Barilla del cesto. «Papà! Non farmi cadere», disse Annabelle stringendogli le braccia al collo.
«Tu non strozzarmi però», ridacchiò Bill, e poi si girò verso di noi. La sua espressione mutò totalmente. Sembrava aver subito capito che qualcosa non andava.
«Anna perché non vai un attimo da Matt? Ho sentito che suona la batteria perciò...», a quelle frasi del fratello lei fece immediatamente per scendere.
«Sì sì!», strepitò, mentre Bill la riaccompagnava a terra. Il suo volto era spaventato, glielo leggevo in faccia.
Si sedette, e poi volse lo sguardo verso di noi in modo insicuro. Non voleva farlo, non voleva che sganciassimo quella bomba.
Jake fece lo stesso, non lasciando nemmeno per un secondo la mia mano. Io mi accomodai nella sedia accanto alla sua e deglutii.
«Papà. Jackson mi ha chiamato prima, e...», fece un lungo sospiro.
«Si tratta di Josh. Non era rientrato a casa la scorsa notte, anzi non si faceva vedere da tutta la giornata. Hanno trovato la sua auto nel bosco dietro Cambridge», al suono di quelle parole chiusi gli occhi per paura di vedere.
«No... Non dirlo», sentii Bill proferire con voce strozzata.
Jake strinse di più la presa alla mia mano. A quel punto aprii gli occhi e vidi Bill con la fronte tra le mani.
«Mi dispiace papà», disse lui. «Era lì, questo pomeriggio. Non sanno cosa sia successo», proferì.
A quelle parole Bill pianse.
Non immaginavo cosa volesse dire perdere il proprio fratello. Non immaginavo cosa avrei provato se avessi perso Jonas. Sarebbe stato diverso da qualsiasi altra perdita. È come se ti tolgono un compagno di vita, un complice, uno che per te darebbe tutto, e che tu per lui faresti altrettanto.
La gola mi bruciò. Ricacciai dietro le lacrime; non avevo il diritto di piangere in quel momento.
«Da ieri? Non si faceva sentire da ieri e nessuno mi ha detto niente?», tuonò d'un tratto.
La presa alla mia mano si fece mortale e sprecai tutte le mie forze per non gridare dal dolore.
«Ieri Jackson mi aveva chiamato ma io avevo da fare e...» «Che cosa?», tuonò ancora il padre.
«Ti ha chiamato e che cosa hai fatto tu?», gridò.
«L'ho ignorato», rispose amaramente. «Perché?», domandò. «Gliel'ho detto io, Bill. Mi dispiace, è colpa mia... Non immaginavo», dissi guardando i suoi occhi rossi e lucidi. Il silenzio echeggiò per interminabili secondi.
«Io ho attaccato», disse Jake. «Non avresti dovuto», replicò Bill con tono duro.
«Mi dispiace... Jackson mi chiama sempre e non immaginavo...» «Se tu me l'avessi detto ieri, io...», gridò l'ultima parola. «Io avrei fatto qualcosa. Io avrei potuto evitarlo. Ieri non è oggi, ieri magari era vivo! Ieri avrei potuto intensificare le ricerche, tu lo sai! Ieri avremmo potuto evitare tutto questo!», gridò forte.
Non avevo mai visto Bill così, non l'avevo mai visto gridare contro uno dei suoi figli. Mai, fino ad allora. Mi sentii così in colpa.
Tutti intorno a me erano distrutti ed io non potevo farci niente. Mi sentivo impotente, difronte a questo ci si sente sempre impotenti.
«Non ho solo perso mio fratello», disse in tono piatto. Jake abbassò lo sguardò e deglutì. «Liz?», chiese Bill. «È sotto shock», rispose lui.
Bill annuì passandosi la mano su tutto il volto. «E i figli?», chiese con voce roca. «Non sono soli, sono in cinque. Se la stanno cavando.»
«Be' allora dobbiamo andare. Stanotte o domani. Lexie puoi venire? Hai qualche esame o qualcosa del genere?», domandò, sorprendendomi.
Credevo che non mi avrebbe più voluta vedere. «Certo che posso», risposi prontamente. «Bene... Jack è maggiorenne giusto?», balbettò Bill. «Papà?», chiese Jake accigliato. «Tutti e quattro sono maggiorenni», rispose stranito.
Bill corrugò la fronte. «Oh sì, certo. Vado di sopra a prenotare i biglietti», disse alzandosi in piedi.
La sedia stridette il pavimento e poi camminò a passi spediti fuori dalla cucina. Non mi sarei aspettata una reazione del genere. Jake liberò immediatamente la sua mano dalla mia, che era sudatissima. La tolse come se lo avessi d'un tratto scottato.
Si alzò in piedi. «Jake», lo chiamai, un po' confusa. «Vattene», disse seccamente. Gettò le chiavi della macchina sul tavolo, mentre io metabolizzavo la parola uscita dalle sue labbra.
«Cosa?», boccheggiai. «Mi hai sentito Lexie, vattene. Prendi la mia auto», disse fermo.
Non riconoscevo più quegli occhi.
Deglutii il groppo che mi era salito alla gola. «Perché? Che succede?», domandai confusa. «Che succede?», ripeté, gridando. Al suono della sua voce sussultai. Sospirò e si passò la mano sul volto.
«Succede che mio padre non mi perdonerà mai. Non se scoprirà che avrebbe potuto evitarlo, che io avrei potuto evitarlo. Ero con te, quando gli ho attaccato in faccia. Era per te che l'ho fatto, perché metto sempre te davanti a tutto. Non posso farlo ancora e non posso guardarti sapendo di ciò che ho fatto. Perciò, prendi le chiavi, e vattene», disse, pietrificandomi con quello sguardo di ghiaccio.
Mi alzai in piedi, non potendo credere ad una sola sua parola. «Stai soffrendo ma non respingermi. Io ti amo, okay? Voglio starti accanto, non fare così... Per favore», supplicai cacciando indietro le lacrime.
La sua espressione rimase immutata. «Smettiamola di lasciarci così. Fa male ad entrambi e tu non vuoi lasciarmi tu non puoi lasciarmi!», implorai, scordandomi di avere ancora un briciolo di dignità. Appoggiai entrambe le mie mani sul suo volto per tenerlo dritto difronte a me.
«Stai male, lo capisco. Ti senti in colpa e capisco anche questo. Ma se mi allontani non sarà più facile, okay?», dissi versando tutte le lacrime che avevo nelle orbite.
Fino a prima volevamo sposarci ed ora lui voleva lasciarmi? Non avrei mai immaginato che l'avrebbe desiderato. Non avrei mai immaginato che tra tutte le persone sarebbe stato lui, a volermi abbandonare adesso.
«Va' via. Non so perché ma tutto ciò che gira attorno a noi quando stiamo insieme va in frantumi. Non so perché l'Universo ce l'abbia così tanto con noi, o forse siamo noi ad essere incompatibili ma so che adesso non voglio vederti. Perché tutto ciò che vedo è il bambino di quattro anni che aveva Josh, vedo Annabelle, vedo mio padre... E vedo mia madre. Ogni volta che ti vedo... io vedo mia madre. E non sarebbe fiera di me», disse tutto d'un fiato, guardandomi nelle pupille.
Rimasi immobile, mentre il cuore veniva distrutto in mille pezzi dalle sue parole. «Vuoi davvero che me ne vada? Vuoi lasciarmi?», dissi incredula. Lui mi guardò per un istante e poi annuì. «Io penso di amarti ma oggi...» «Pensi di amarmi?», boccheggiai, sentendo quelle parole come schegge nel cuore.
Sollevò lo sguardo, e quando incrociò il mio ci lessi cose che mai avevo letto. Era vero. Sembrava confuso anche sui sentimenti che provava per me.
Lo vedevo nei suoi occhi, d'un tratto insicuri.
Era troppo da sopportare, ed io non mi sentivo abbastanza, non mi sentivo niente.
Se questa volta mi avrebbe lasciata sarebbe stato per sempre. Noi non ci lasciavamo per dei problemi, noi ci lasciavamo perché uno dei due soffriva, e chi sa come, invece che essere più uniti finivamo così.
Ma non ero pronta a tornare a casa da sola.
«Lo sai che se mi lasci adesso non c'è ritorno vero?», dissi guardandolo nelle iridi.
«Lo so. Anche se so che poi ti vorrò indietro non importa, perché adesso ho capito. Avevi ragione, tutte le volte che mi hai detto che noi siamo incompatibili. Noi lo siamo, infatti avvengono tragedie su tragedie...» «Ma non avvengono perché noi stiamo insieme! Non è colpa tua se a mio padre è venuto il cancro, come non è colpa mia se il fratello di tuo padre è morto. Dammi una possibilità. Dammi la possibilità di dimostrarti che se rimaniamo insieme le cose saranno più semplici», dissi con un filo di voce. L'avrei supplicato, l'avrei implorato di non lasciarmi, ma qualcosa mi disse che niente sarebbe servito. Lui non era come me; una sua decisione era irremovibile. Io perché ne ero innamorata persa ero passata sopra a molte cose. «Tu mi ami», dissi guardando i suoi occhi. «Tu mi ami e hai bisogno di me. Non lasciarmi», implorai ancora. Appoggiai la mia fronte sul suo mento e lo abbracciai, sperando che sentendo il mio odore o stringendomi si sarebbe reso conto che avevo ragione. Sperai che nella sua testa si dicesse che senza di me non poteva vivere, come tante volte mi aveva detto. Ma forse a volte l'amore non basta. Le nostre parole forse erano solo parole al vento, e bastava una folata per farle scomparire per sempre. Forse sposarsi sarebbe stato uno sbaglio, perché noi eravamo volubili. Il nostro amore non era forte, ma era volubile, debole, gracile e non sarebbe bastato. Forse lo sarebbe stato per un tempo che non avrebbe avuto un futuro. Non eravamo ciò che volevamo, non eravamo ciò che pensavamo saremmo diventati insieme. C'era qualcosa attorno a noi, qualcosa che ci risucchiava la felicità non appena questa si faceva sentire... E non ci potevamo fare niente, a meno che il nostro sentimento non si sarebbe fatto abbastanza forte.
Eravamo di nuovo lì, in un corridoio, il mio primo giorno qui.
Io ero solo una ragazza stupida e lui lo stronzo con le sue parole crude. Le persone non cambiano, o almeno non lo fanno veramente.
«Okay, me ne vado», dissi con voce strozzata. Feci per dividermi dall'abbraccio che non aveva minimamente ricambiato ma mi riafferrò e mi strinse a sé. In quel momento il mio cuore batté fortissimo, mentre venivo inebriata dal profumo emanato dalla sua pelle. «Scusa», disse, e in quel momento fu come girare il coltello nella piaga. Mi stava chiedendo scusa perché mi stava lasciando? Ma in che Universo eravamo finiti? «Prendi la macchina okay? Torna a casa, è tua. Non stare da sola, chiama Julie o chiunque tu voglia. Anche Thomas se ti fa piacere. Domani vai a scuola e fai l'esame di psicologia, perché hai studiato e andrai alla grande. Non ti far prendere dal panico, me lo prometti?» Annuii piangendo. Non capivo perché mi stesse lasciando, avrei fatto qualunque cosa per fargli cambiare idea. Lui sembrava preoccuparsi per me nonostante tutto. Sembrava un addio che non voleva suonare come un addio.
«...E stai attenta quando guidi, okay?», disse e mi asciugò le lacrime sotto agli occhi con i pollici. «Non lasciarmi», dissi con un filo di voce. «Non piangere ti prego. Non posso andare a Cambridge e sapere che tu sei qui e stai male. Capito?», chiese guardandomi negli occhi. Come poteva lasciarmi e dirmi di non piangere, di non stare male?
Ma dove mi trovavo, cosa stava accadendo?
«No. Non te la renderò facile così... Sto male, e starò malissimo senza di te. Non lasciarmi», supplicai. Sentii che dal piano di sopra qualcuno scoppiò a piangere, era Annabelle. Una morsa mi strinse il cuore. «Devo pensare a mia sorella, e a mio padre. Alla mia famiglia che è di nuovo in pezzi. Non dovrei pensare a te anche adesso», disse frustrato. Sospirai, era irremovibile, non serviva a niente ciò che gli stavo dicendo, perché non mi ascoltava. «Va bene. Ho capito», dissi scostandomi da quell'abbraccio. 
«Allora smettila di abbracciarmi e pensa a loro. Se non mi vuoi è okay, basta che poi non torni e mi scombussoli un'altra volta. Se devo dimenticarmi di te, adesso me lo devi lasciare fare». Sperai che in qualche modo avrebbe reagito, avrebbe detto che non voleva tutto ciò. Ma non disse niente. Non avevo nemmeno preso in considerazione l'idea di dimenticarlo. Annabelle piangeva a dirotto e gridava: «no! Lo zio Josh no». Io mi sentii di troppo, e capii che se non mi voleva lì dovevo accettarlo e basta. Cercai di liberarmi da quell'abbraccio, ma la sua presa era così prepotente che non riuscivo nemmeno a respirare, figuriamoci allontanarmi. «Se mi devi lasciare perché non cominci col lasciarmi andare?», mormorai.
«Ci sono cose che si devono fare, anche se non si vuole», sussurrò, mentre appoggiavo totalmente il mio corpo contro il suo, sperando di non sentire tutti i singhiozzi provenire dal piano di sopra. «Non devi farlo», dissi piangendo. «Sì, devo. È finita. Va' a casa per favore. Ed esci, non oggi, non domani. Ma da dopo domani esci e divertiti», disse prima di prendermi le guance nelle mani e stampare un bacio sulla mia fronte. «Okay», risposi, prendendo in mano le chiavi della sua macchina. Camminai verso la porta sentendo i suoi occhi sulla mia schiena, sentendo tutti i loro pianti. Volevo correre da Annabelle ed abbracciarla, consolare Matt... Ma non potevo perché erano i suoi fratelli. Io ero solo l'ex ragazza di Jake in quel momento. Aprii la porta e la chiusi alle mie spalle. Mi veniva da piangere, ma ricacciai le lacrime indietro. Non era il momento di piangermi addosso perché altrimenti avrei pensato a tutte le cose che nella mia vita andavano male, e non ne avrei trovata nessuna che andava bene. Salii nella sua auto, infilai le chiavi e misi in moto. Delle lacrime iniziarono a sgorgare senza freni dalle mie orbite. Mi sentivo così piccola. Non avrei mai immaginato che mi avrebbe lasciata, che sarebbe finita un'altra volta. Che tutto sarebbe successo così in fretta per ragioni che non mi apparivano valide abbastanza ma che in realtà lo erano. Se non fosse stato per me, tutto ciò che era accaduto si sarebbe potuto evitare. Forse se Bill lo avesse saputo ieri... Forse qualcosa si sarebbe smosso, forse non sarebbe successo ciò che era accaduto, ma nonostante ciò continuavo a non realizzare niente. Come poteva aver deciso di lasciarmi nel giro di cinque minuti? Come poteva vedermi piangere ma rimanere di sasso? L'avevo supplicato in ogni modo, ma era stato inutile, e non ci capivo niente, non capivo cosa fosse d'un tratto accaduto. «Jonas», dissi con voce strozzata dal pianto, mentre guidavo verso l'ospedale. «Ehy, che succede?», domandò sorpreso, forse il mio tono lo aveva spaventato. «Sei in ospedale?», domandai. «Sì, perché? Che succede?», chiese sempre più preoccupato. Trattenni il pianto e sospirai profondamente. «Posso darti una mano stanotte?», gracidai. «Sì, certo. Ma stai bene?», domandò. «Sì, non preoccuparti. Sto per parcheggiare», attaccai. Piansi come non facevo da tempo. Mi stupii del suono che uscì dalle mie labbra quando scoppiai, e continuai a farlo finché non arrivai nel parcheggio. Mi asciugai il viso e mi guardai nello specchietto. Ero un mostro; avevo due occhi rossi e gonfi e il trucco sbafato sulle guance. Mi pulii, sospirai e misi piede a terra. «Alexis», sentii pronunciare alle mie spalle. «Ma cosa ci fai a quest'ora?», mi chiese Jackie sbucando dal nulla. «Tu cosa ci fai qui a quest'ora?», domandai tentando di non far trapelare nulla di ambiguo dal mio tono di voce. «Io sono al terzo anno. Sono qui per imparare il più possibile», disse sorridendo, ciccando a terra. «Io non ho niente di meglio da fare», spiegai, facendo per dileguarmi. «Stai bene?», domandò in tono curioso e stranito. Annuii frettolosamente prima di correre dentro, ed evitare di parlare.
Andai nella stanza degli armadietti e senza rifletterci su mi sfilai la maglietta. «Terza o quarta?», sentii dire. Sussultai, vedendo Simon sgranocchiare patatine seduto in un angolo. Ma quanto ero sciocca! Mi coprii immediatamente e mi voltai per infilare la maglietta. «Idiota», ringhiai. «Perché stavi piangendo?», domandò. «Te l'hanno mai detto che sei inquietante? Cosa ci fai qui di notte? Cosa ci fate tutti qui di notte!», sfuriai, sistemandomi i capelli fuori dalla maglietta. «Tu cosa ci fai qui di notte?», domandò. «Non avevo niente di meglio da fare», spiegai, rigirandomi e chiudendo le mie cose nell'armadietto. Infilai il cellulare in tasca, e presi l'elastico dal mio polso. «Mi aiuti a studiare?», domandò mostrandomi dei fogli che teneva accanto alle patatine. Sospirai ed annuii, prima di sedermi nella panchina difronte e prendere i fogli in mano. «Ehy... Quello è il faccino di qualcuno che ha pianto», insinuò avvicinandosi per cercare il mio sguardo che rimaneva puntato sui fogli. «Smettila», dissi secca. «Manganese, fluoro, tetracloroetilene solvente, DDT : a) causano danni all'apparato respiratorio. b) causano danni di tipo cerebrale (autismo, riduzione capacità intellettive, ecc), oppure c) sostanze cancerogene?», domandai leggendo da quel test, probabilmente fatto in anni precedenti. «B», rispose correttamente. «Allora? Perché piangevi?», domandò imperterrito. «Lo vuoi sapere sul serio?», chiesi sospirando afflitta. «Sì», rispose immediato. «Be' allora mi dispiace per te», feci un passo indietro. Gli restituii i fogli e mi alzai in piedi, per andare a fare qualcosa di concreto. «Mmh, vediamo. È perché non hai trovato la tua taglia di scarpe del paio esposto in vetrina? A causa della mamma pazza o... Del papino?», domandò con sarcasmo e nonchalance. La rabbia mi ribollì nelle vene. Mi voltai furiosa. «Pensi di provocarmi?», domandai assottigliando lo sguardo in due fessure. Rispose con una scrollata di spalle. «Stai per caso pensando a quanto sia patetica la tua vita?», domandò alzandosi in piedi. Incrociai le braccia al petto e attesi che giungesse al dunque. «Perché be'... A quanto si dice non te la passi bene», disse. Non capii dove volesse arrivare. «Senti... Non ho tempo per i tuoi giochetti», dissi stufa, facendo per voltarmi. Mi strinse il polso. «Famiglia ricca, cognome importante e università rinomata. Che dura la tua vita», disse con sarcasmo. «Sì infatti», lo assecondai decidendo di non stare al suo gioco. «Be' purtroppo ultimamente le cose ti vanno veramente male. Non per infierire ma la tua vita fa schifo», disse in tono piatto. «Cosa vuoi? Cosa vuoi che ti dica? Vuoi che ti prenda a pizze? Vuoi che ti prenda a parolacce mentre riempio il tuo corpo di calci? Non accadrà. Non ho tempo per pensare a te, perché i miei problemi non fanno altro che moltiplicarsi e moltiplicarsi, in una vita patetica. L'hai definita alla perfezione: inutile e patetica... Perché purtroppo per quanto lo si voglia la vita non è come nei film, non c'è il lieto fine. O forse non c'è solo per me perché comincio a credere che ci sia qualcosa attorno a me che risucchi in continuo la mia felicità e non mi lasci più in pace. Perché sono stanca, Simon. La verità è che sono stanca! Non voglio credere che questa sia la vita a diciotto anni perché non immagino come sarà a quaranta... O a sessanta. E sono anche stanca di piangermi addosso, stanca di ripetere nella mia mente quanto tutto vada maledettamente storto, perché dentro di me so che niente andrà mai bene o sarà anche minimamente sostenibile per più di qualche giorno. Non mi basta, qualche giorno. Non mi basta qualche giorno di tranquillità perché io... Io...» Sentii le sue mani stringermi le spalle mentre vaneggiavo con lo guardo su tutta la stanza. «Ehy, ehy. Calma», mi frenò sull'arrivo di una crisi isterica. «Volevo che ti sfogassi non che ti autodistruggessi emotivamente», disse, e solo allora mi resi conto che stavo confidando le ferite della mia anima a Simon, e dico Simon. Mi tolsi le sue mani di dosso bruscamente, «ma sai che c'è? A te non importa niente di questo. Nella tua mente stai solo immagazzinando informazioni per affibbiarmi un altro dei tuoi nomignoli o architettare qualche tua altra battuta penosa..» «Zitta!», mi interruppe, ed io obbedii abbassando lo sguardo. «Oh mio Dio! Cos'hai in bocca? Frena quelle parole. Hai già scordato la faccenda della cosiddetta "amicizia"?», domandò sollevando le sopracciglia. «Era questo che facevi?», chiesi sorpresa. Annuì, come se fosse stata cosa ovvia. «E domani è il tuo compleanno», fece una mezza smorfia che sembrò quasi un sorriso, allungando la mano alla tasca posteriore dei jeans. «Era un regalo. Ha pagato Travis, e Jeremy ha aggiunto il biglietto omaggio per un tacos», precisò. Presi in mano il pacchetto blu fosforescente, sospirai e lo scartai. «Un minuscolo carillon?», allargai di poco le palpebre, e feci partire le piroette della ballerina di plastica assieme alla musica. «Lo vedo per la prima volta», confessò. «Tranquillo, non penserò che sei stato gentile», dissi io ascoltando la melodia. «Ricordi quando mi hai detto che non mi avrebbe mai lasciata?», sorrisi amaramente guardando la bambolona bionda piroettare lentamente. «Taradarataradà... Taradadà, taradada», canticchiai quasi impercettibilmente. «Oooh, questo sì che è un colpo di scena in piena regola», esclamò. «Sono felice che lo trovi divertente», dissi amareggiata. «Non lo trovo divertente, lo trovo deprimente, surreale... Perché né io né nessun altro avrebbe avuto mai il coraggio di lasciarti».
«Io vado a casa», dissi immediata. «Ringrazia Travis, e Jeremy per il tacos», farneticai avviandomi verso la porta. Nel corridoio mi imbattei immediatamente in mio fratello. Sbattei contro quel petto duro.
«Tu non vai da nessuna parte», disse subito. «Cosa ci faceva LSD nel tuo sangue?», domandò con la sua solita vena pulsante nel collo. «Devo andare via adesso... Ne parliamo un'altra volta», balbettai con un groppo alla gola mentre tentavo di evitarlo. Mi si piazzò davanti. «Vai via con addosso la
Polo?», chiese accigliato. «Perché vai via se sei appena arrivata? Che succede? Hai pianto?», accalcò una domanda dietro all'altra, quando io avevo solo voglia di nascondermi e piangere in disparte. «Voglio andare via, okay? Lasciami, lasciami stare!», strillai spingendolo via per farmi spazio. «Ehy!», esclamò afferrandomi il polso. «Dimmelo! È lui? È stato lui? Ti ha tradita? Ha fatto l'idiota?», gridò rabbioso. «No, Jonas, no. Non ha fatto niente di tutto questo ma mi fa piacere che ti accorgi solo adesso che piango a dirotto e che sto male! Grazie, per esserci sempre. Non hai il diritto di arrabbiarti, a te non è mai importato niente di me, come a nessuno. Lasciami stare, non voglio vederti. Non mi drogo, se è questo che ti importa. Non fumo e immagino sarai super felice di sapere che non stiamo più insieme. Ora togliti di mezzo, torna a lavorare e a dimenticarti di me come faceva papà e pensa a sbaciucchiare Julie tra un turno e l'altro. Non preoccuparti della tua stupida, infantile ed egocentrica sorella!», feci una scenata memorabile mentre tutto l'ospedale ci fissava.

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