9. KEITH

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Sono seduto su questo sgabello da almeno un'ora, la tela davanti a me continua a fissarmi, bianca e immacolata, come se aspettasse chissà quale miracolo. Il pennello che ho in mano sembra un'arma inutile, e mescolo e rimescolo i colori senza trovare quello giusto.

Tutto sembra spento, morto, e la colpa è soltanto mia, perché ho la mente ingombra da mille pensieri e nessuno di essi è abbastanza chiaro da finire sulla tela.

Lo studio è piccolo rispetto alle altre stanze dell'appartamento, è uno spazio dedicato alla mia arte, dove mi rinchiudo per ore e ore. C'è odore di vernice ovunque, tubetti di colore ammucchiati in disordine sul tavolo accanto a pennelli di ogni tipo, alcuni talmente consumati che dovrei buttarli. Il cavalletto al centro della stanza è l'unico a mantenere un'apparenza dignitosa, anche se adesso lo guardo con la voglia di spaccarlo in due.

Le tele non finite sono appoggiate alle pareti, come testimoni silenziosi del mio umore altalenante. A destra c'è una mensola su cui ho appoggiato qualche spatola, qualche flacone di trementina, e un piccolo mangiacassette che trasmette musica blues. Dovrebbe rilassarmi, e invece vorrei solo spegnerlo e andare a dormire.

Ma dormire non servirebbe a nulla. È da troppo tempo che non riesco a dipingere niente di decente. Ogni volta che mi siedo qui, davanti alla tela, la mia mente sembra svuotarsi di qualsiasi idea interessante. I colori non parlano, le forme non prendono vita, tutto resta fermo. L'ispirazione sembra essersi volatilizzata e io rimango con la frustrazione e il pennello in mano, senza sapere che farne.

E come se questo non fosse già abbastanza, c'è il lavoro... o meglio, il fatto che non ne ho uno.

Mi pesa. Mi pesa un sacco il pensiero di stare ancora sulle spalle dei miei genitori. Siamo una famiglia abbiente, certo, il denaro non ci manca, ma è proprio questo a farmi rabbia. Voglio guadagnarmi la mia indipendenza, non lasciare che mamma e papà mi comprino un posto sicuro in qualche galleria d'arte o che mettano una buona parola per farmi commissionare qualche quadro solo perché il loro nome apre le porte giuste. Voglio farcela da solo.

E invece, eccomi qui, a non combinare nulla. Non sono capace nemmeno di dipingere qualcosa di cui andare fiero, figuriamoci di farmi una carriera come artista.

Mi viene voglia di spaccare tutto. Di alzarmi da questo sgabello, prendere il cavalletto e lanciarlo contro la parete, come se potesse magicamente risolvere qualcosa. Ma so che non cambierebbe nulla. Resterei comunque con la tela vuota, con la stessa mancanza di idee, e probabilmente anche con un buco nel muro.

La verità è che la mia famiglia mi ha sempre supportato, anche se, diciamolo, avrebbero preferito che prendessi una laurea in legge o in economia. Sarebbe stato tutto molto più semplice. Loro conoscono le persone giuste in questi campi, e con una laurea del genere avrei potuto ottenere un lavoro di prestigio, ben retribuito, senza dover faticare troppo.

Mia madre è un avvocato affermato, e mio padre gestisce una piccola azienda di alcolici pregiati. Non producono molte etichette, ma sono destinate solo a una clientela esclusiva. Personaggi illustri, gente con il portafoglio spesso e il gusto raffinato. È un'azienda modesta, ma di grande successo.

Entrambi lavorano a San Diego, la città in cui sono cresciuto. E sì, i miei genitori ci tenevano che seguissi una carriera più "concreta". Ma io, sin da quando ero ragazzino, ho sempre sentito il richiamo dell'arte. Non mi sono mai interessato né alla legge né all'idea di rilevare l'azienda di famiglia. Ho sempre voluto fare qualcosa di diverso, qualcosa che sentivo mio. Forse è anche a causa della città in cui sono cresciuto: San Diego è famosa per i suoi musei, le sue gallerie d'arte, e quelle erano esattamente le cose che mi facevano brillare gli occhi da bambino.

Così, mi sono trasferito a Los Angeles per studiare arte. Ho voluto seguire la mia passione, nonostante sapessi che sarebbe stato più difficile rispetto alla strada che avrebbero potuto tracciare per me i miei genitori.

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