Monster and ass face.

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"Aspetta, aspetta, aspetta." Disse con tono perplesso, guardando me e lo schermo della televisione, prendendo distrattamente quante più patatine poteva in un pugno e infilandosele in bocca.
"Quindi siamo tipo nel nono secolo, in arabia, e quel tipo blu-"
"Il genio." Lo interruppi io.
"Sì, quello. Il tipo si trasforma in persone che non sono ancora nate?"
"È solo un cartone per bambini."
"Beh è stupido." E si riempì di nuovo le guance di patatine.
Alzai gli occhi.
"I morti possono mangiare?"
Alzò le spalle.
"Non ho mai avuto... conseguenze, mangiando. Ma non sento il sapore di nulla. Nè salato. Nè dolce. Nè amaro. Nulla."
"Allora perché mangi?"
Mi lanciò uno sguardo tagliente come una lama. Portai le mani in avanti, arreso, e rimisi gli occhi sul televisore, ma la mia testa era da tutt'altra parte.
Infondo, la risposta alla mia domanda era ovvia. Era una delle poche cose che lo accomunava ancora al mondo dei vivi, così come dormire. Non sentiva il sapore del cibo, tantomeno aveva bisogno di mangiare, ma sentire lo scricchiolio delle patatine sotto i denti, sentirsele appiccicare al palato, anche quelle erano sensazioni.
"Oh Dio santissimo."
Scossi la testa e mi risvegliai dai miei pensieri.
"Cosa?"
"Il tipo blu ha messo il cappello di Pippo! Ti rendi conto? Non c'è veridicità storica." Sbuffò e una nuvola nera lo alzò come un onda -luccicante, di un mare agitato, illuminato solo dalla luna- dal divano su cui era sgraziatamente seduto. Scivolò per un attimo sul dorso del divano come mercurio su una tela di velluto, per poi sorvolare la mia testa e vagare senza meta per il soffitto.
Rimasi qualche secondo a fissare con il naso all'insù le spalle strette che spuntavano dalla nuvola, insieme a penzolanti ciocche scure e il manico della chitarra, e nella mia mente, nei profondi meandri più nascosti del mio inconscio, mi chiesi se Frank riuscisse a provare almeno dei sentimenti.
Il suo carattere scontroso e ironico sarebbe dovuto essere la dimostrazione del fatto che potesse effettivamente sentire delle emozioni. Ma non potevo saperlo. E, ancora più in profondità nella mia mente, le domande mi opprimevano. Un corpo in coma risponde comunque agli impulsi nervosi. Intendo, si tratta solo di memorizzare delle risposte, supporre quale -secondo un determinato carattere- sia la più appropriata da dire. Come guardare la propria vita dal punto di vista di un fastidioso spettatore di un film horror, che urla ai protagonisti cosa fare per sopravvivere. Trovo difficile credere che si riesca ad abbandonare il proprio carattere anche se si assume la sfera emotiva di una pietra.
Erano dubbi che si ammassavano, e, ammassandosi e addossandosi, si facevano strada verso la mia bocca.
Ma ormai sapevo che Frank non mi avrebbe degnato di nessuna risposta.

"Sono a casa!"
Donna Lee Way, mia madre, si fermò sulla porta e si sfilò con evidente sforzo le scarpe marroni evidentemente scomode, si passò con fare frettoloso una mano sulla fronte, rovinando quel poco che era sopravvissuto della pettinatura con cui era uscita di casa quella mattina.
"Com'è andata a scuola? Dov'è tuo fratello?" Quasi urlò, mantenendo quel tono caldo e stressato di chi è tra l'essere stanco morto dopo una giornataccia e sollevato di  tornare infine a casa.
"Bene." Dimenticai perfino di avvisarla dell'incidente di Mikey, per l'ansia di ciò che stavo per fare.
Spensi la TV e cercai Frank con lo sguardo. Stava volteggiando intorno a mia madre, scrutandola dalla testa ai piedi. Da quando aveva scoperto quanto era riuscito ad irritarmi con la storia dell'appuntamento di Lynz- che, tralaltro, sarebbe stato appena il giorno dopo- analizzava sempre con scrupolosissima attenzione tutti coloro che mi circondavano, cercando di capire cone poterli sfruttare per riuscire a strapparmi con la forza dalla bocca un desiderio.
Ma quella sera sarebbe stato piacevolmente sorpreso.

"Mikey! Scendi, è pronto!"
Urlai sporgendomi sul primo gradino delle scale che davano in salotto.
"Com'è morto tuo padre, Gee?"
Con volto neutro, Frank guardava la foto di un uomo robusto in tuta militare e sguardo fiero, con le mani poggiate sulle spalle di un bambino paffuto- invero il sottoscritto. Io rimasi solo un attimo pietrificato, e per un attimo ancor minore rivolsi gli occhi alla schiena di mia madre, intenta a mettere cosce di pollo nei piatti, come se potesse girarsi ed esplodere da un momento all'altro. Poi, fui grato che lei non potesse sentrlo.
Lo guardai e scossi la testa, non è il momento, questo dicevano i miei occhi.
Nel frattempo, mio fratello atterrò saltando gli ultimi due scalini, indossava una felpa nera con il cappuccio tirato fino agli occhi, teneva la testa bassa, in modo che l'ombra del cappuccio coprisse tutto il viso. Illuso, pensai. Nemmeno una maschera lo avrebbe salvato.

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