Turn away.

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Eravamo distesi sul mio letto. Cioè, io ero disteso, Frank tecnicamente non sfiorava la superficie del letto, ma fluttuava su un tappeto di nuvola scura disteso di di essa. Io davo i piedi alla finestra, lui alla porta. Avevo la testa che penzolava fuori dal bordo e guardavo i numeri luminosi che lampeggiavano sulla sveglia, con le mani sul ventre, mi rigiravo i pollici. Erano le 2:37. Era notte fonda, ma la stanza era illuminata dalla luce di un lampione proprio dall'altro lato della strada stretta, e una luce arancione, luccicante come il miele, attraversava la finestra e illuminava soffice le sagome degli oggetti.
"Non dovrebbe succedere." Erano ore che borbottava le stesse frasi, ed io, puntualmente, replicavo sempre nello stesso modo.
"Mi dispiace." Ma lui non sembrava mai dar peso alle mie risposte, quindi continuava.
"Come è potuto succedere."
"Scusa."
"Non è così che dovrebbe andare."
"Non volevo."
Si mise dritto, sentendolo tirarsi su, mi portai le mani dietro la nuca e la tirai su, per guardarlo bene. La luce che entrava dalla finestra lo contornava con una striscia dorata e le chiavette della chitarra dietro la sua schiena brillavano.
Rispetto all'ultima volta che si era allontanato da me, adesso sembrava essersi ripreso meglio e molto più in fretta, per qualche motivo. Fui felice di vedere che la luce dello spicchio di luna, in un angolo della finestra, non lo attraversava.
In effetti, si era ripreso molto meglio e molto più in fretta dell'ultima volta. Poi, man mano che i miei occhi si abituavano al buio -dopo aver fissato numeri luminescenti per troppo tempo- vidi la sua espressione.
riuscii a vedere i suoi occhi, mi guardavano interrogativi, quasi spaventati, un volto che tradiva il tono neutro e piatto con cui parlò, con cui disse qualcosa che in quelle ore non aveva ancora detto, ma che era stato il suo vero ed unico dubbio.
"Cosa mi stai facendo."
E io, non seppi come rispondere. Lui continuava a guardarmi, come se aspettasse davvero una risposta, ma ero in un vicolo cieco.
Sospirò. Sparì.
Ormai mi ci ero abituato, sapete? Andirivieni di sospiri e nuvole di fumo, viavai di sguardi senza fondo né logica.
Mi misi seduto, sistemandomi con le spalle verso il muro, e, senza rendermene conto, sospirai anche io.
Chiusi gli occhi.
Era ancora lì.
Nessuno dei due si era avvicinato alla finestra -meglio dire, nessuno dei due lo aveva lasciato fare all'altro- quindi la stanza era fredda anche senza la presenza di Frank.
Ma lui c'era. Non riuscivo nemmeno a preoccuparmene. Lui c'era.
"Perché lo hai fatto?" Per un attimo, credetti di aver sentito quella voce nella mia testa, ma mentre le parole mi arrivavano alle orecchie sentii prima una folata, come di vapore freddo, sfiorarmi il collo, poi una leggera pressione sulla schiena, che mi mise più dritto.
"Cosa?"
"Perché hai espresso quel desiderio per saperne di più su di me? Perché ti sei offerto di usarne uno per il mio compleanno?"
Ci pensai. Ripetevo la domanda nella mia mente. Il motivo in quei momenti mi era sembrato più che logico, adesso mi sembrava come se non fossi stato io a esprimere quei desideri.
"Io... non lo so."
Per un attimo il silenzio regnò padrone.
Poi, per la stanza vibrò una nota. Si affievolì. Si spense. Poi un'altra, che fu l'inizio definitivo di una melodia leggerissima, come se chi la suonasse non volesse essere sentito. In effetti, era poggiato contro la mia schiena, e la chitarra di solito era sempre lì.
"Mio padre diceva sempre che chi non ha nulla è la persona più fortunata, perché non sarà mai capace di aspettarsi qualcosa." Dissi.
"Mh... non saprei -disse distratto, assorto dalle note- non molte persone ricche sono interessate a comprare una vecchia chitarra." A quelle parole, seguì una nota vagamente più violenta, coperta da un gemito infastidito, ripeté le ultime note in uno sbuffo e andò avanti. "Però... sì. Chi più ha più vuole."
Annuii, silenzioso. Volsi lo sguardo fuori dalla finestra, dove le stelle sembravano innocue fiaccole argentate disposte a casaccio. Sfiorai la sua nuca facendolo, e mi presi la libertà di poggiare la testa, stanca, sopra la sua - per quanto in alto le sue nuvole lo portassero, rimaneva un ragazzo minuto, così la mia visuale era perfetta- lui fermò le dita agili sulle corde per una frazione di secondo, forse infastidito, poi riprese.
"Tu perché mi hai difeso da quei tre, a scuola?" Si fermò di nuovo, un attimo sospeso sul prolungarsi delle ultime corde pizzicate, una pausa più lunga di quella di prima e del tutto fuori luogo nella melodia.
"Beh, le cose stavano degenerando, non potevo continuare a stare lì fermo."
"Aspetta. Tu non potevi continuare?" Fu lì che finì definitivamente di muovere le dita sulle corde, svuotando la stanza da ogni suono.
"Emh, insomma, io... semplicemente ho sempre voluto... ho sempre creduto di voler vedere un mio padrone in situazioni del-del genere..." chiusi gli occhi e osservai i residui delle luci del cielo notturno stampate sui miei occhi. "Io... io volevo intervenire subito, davvero, ma io... non lo so... pensavo fossi come gli altri." Verdi, viola e celesti, quei relitti luminescenti danzavano sfumati nel buio, e cercavo di concentrarmi su quello.
"Scusami." Mormorò, roco.
"Non fa niente."
Insomma, non potevo immaginare cosa significasse trovarsi ad essere degli schiavi e costretti ad agire contro la propria volontà, seguendo gli ordini di un padrone,per anni.
Ero arrabbiato con lui? Sì. Ma diciamo che non potevo biasimarlo.
Lui ispirò, come se stesse per dire qualcosa di importante che si era dimenticato, poi sentii la sua testa riabbassarsi sotto la mia, con un verso​ frustrato.
Volevo dirgli di mia madre, volevo escogitare il desiderio più adatto per rimettere ordine nel caos in cui inciampavo di continuo in quei giorni, ma prima che potessi aprir bocca mi ritrovai disteso sul letto, atterrato con un tonfo ed un gemito strozzato, le mani all'altezza della testa. C'era una leggera nebbia opaca sopra di me, e, quando si dissolse, vidi Frank, con il suo ciuffo carbone che gli ricadeva leggermente brizzolato sugli occhi, mi teneva il polso -quello ormai cosparso di vene rossastre- e lo osservava perso.
Alzò gli occhi, e io mi chiesi come qualcosa potesse brillare così intensamente a quell'ora della notte.
"Scusami." Ripeté, con una voce ancora più sottile, ma più sentita.
Il mormorio, il sussurro che, per qualche ragione, ti fermi ad ascoltare fingendo indifferenza.
"Non fa nulla." Ripetei io, che senza accorgermene avevo iniziato a sussurrare, come se d'improvviso dovessimo stare nascosti.
Dopo qualche secondo in cui nessuno dei due si mosse né sapesse cosa dire, mi decisi a parlare.
"Frank, sarà... sarà meglio dormire. Tra circa tre ore suonerà la sveglia."
"Tre ore?!" E il silenzio che si era creato tra i sussurri si ruppe così, tanto che io dovetti portarmi un dito davanti le labbra con uno ssh, perché con quel tono avrebbe potuto svegliare mia madre o Mikey. Ma, ammetto, che io dovetti controllare delle risate, che sbucavano ad intervalli dalla mia bocca.
"Devo lavare la macchina del signor Armstrong." Sbuffò, incrociò le braccia, ed evaporò -letteralmente, mi pare ovvio- dal mio letto.
Ma dormii poco.
Perché appena si spostò dal mio corpo, mi accorsi che senza di lui faceva più freddo.

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