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Su Emily la notte aveva sempre avuto un fascino unico. Quando era piccola non aveva paura del buio, al contrario, era sempre stata attratta dalle strane ombre che si proiettavano sulla parete della sua camera al passaggio di una macchina. I suoi genitori erano convinti fosse stato proprio quella sua immotivata "non paura" a renderla la ragazza che era e a far sì che i lati più oscuri di una persona potessero avere tanto fascino su di lei. Il fratello più grande, addirittura, era stato certo per anni che, un giorno, la sua unica sorella sarebbe stata annoverata nel vasto elenco di pazzi che a lei piaceva tanto studiare. Per Emily, però, non era stato così. Nella notte lei stava bene per via del buio e del silenzio, perché solo in quelle condizioni i mille pensieri e le centinaia di fantasie che le riempivano perennemente la testa nell'arco del giorno, potevano essere ascoltate veramente. Si sentiva un'anima notturna, un puntino di rosso nel buio, incomprensibile a molti.

Aveva sciolto il suo sguardo nella Londra delle nove di sera quando il caffè riempì della sua aroma il cucinino in cui lei si trovava. Quell'ala del St. Bartholomew's Hospital era ormai deserta e con il cervello che lavorava a pieno regime in cerca di chiarezza sulle nuove scoperte, la ragazza versò due generose tazze di caffè nero, zuccherandone una come piaceva a lei e preparando l'altra per Molly. Le afferrò entrambe e tornò in laboratorio, dove Sherlock stava ultimando le sue ricerche sui campioni di sangue di Horvat. L'anatomopatologa lo stava aiutando mentre Emily, in disparte, aveva raccolto quante più sfumature possibili di quella sera, nella continua speranza di riuscire a carpire la mente del detective. John era andato via da un paio di ore e la sua assenza si sentiva nel laboratorio di ricerca.

Appena Emily rientrò sfilò accanto a Sherlock per portare la tazza di caffè a Molly. La donna la ringraziò e come la ragazza si voltò notò l'uomo con la mano tesa nella sua direzione, in attesa. Non la stava guardando, continuava invece a fissare il portatile, su cui varie formule chimiche si alternavano in cerca di una compatibilità.

«Cosa vuoi?» domandò infine Emily, dopo aver osservato a sufficienza la mano spalancata di Sherlock.

Lui si voltò e le lanciò un'occhiata di sufficienza. «Il mio caffè.»

Di tutta risposta la ragazza osservò la tazza, poi di nuovo l'uomo. «Questo è mio, Sherlock. Quando ho chiesto chi voleva un caffè non mi hai risposto, quindi non te l'ho fatto.»

«Noi due zuccheriamo il caffè esattamente alla stessa maniera. Due zollette. Non puoi essere certa che quello che tieni in mano sia proprio il tuo» concluse, in tono ovvio.

Emily lo guardò sbigottita per un lungo momento, infine alzò gli occhi al cielo, sbuffò e mise la tazza in mano al detective. «Spero si sia raffreddato» disse acida.

Non notò il sorriso sornione di Sherlock mentre si sistemava nello sgabello accanto a lui, proprio davanti al pc. Rimase a osservare varie formule chimiche che si accavallavano fra loro: i risultati di una ricerca lanciata poco prima dal detective. Anche Molly li raggiunse, si fermò alle spalle dell'uomo e fissò anche lei gli occhi sullo schermo.

Quello era l'ultimo atto di ore di analisi. Sherlock e l'anatomopatologa avevano eseguito diversi test sui campioni di sangue di Horvat e, una volta isolato quello che aveva tutte le probabilità di essere il responsabile del decesso del croato, il database informatico era stato avviato. Le indagini avevano portato a isolare una complicata molecola, appartenente alla famiglia dei terpeni, una famiglia sconfinata, che stava richiedendo molto tempo per essere scandagliata.

D'improvviso il detective si fermò. Posò la tazza e digitò rapidamente qualcosa sulla tastiera del portatile, bloccando la ricerca. Emily trattenne il respiro e si allungò sulla scrivania per vedere meglio lo schermo.

The young redheadDove le storie prendono vita. Scoprilo ora