Capitolo 3

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Alessandra aveva sempre saputo che la strada per la magistratura fosse ripida e tortuosa, ma mai si sarebbe aspettata che fosse ancora più difficile di come l'aveva immaginata.
Erano trascorsi tre mesi da quando si era laureata e mai prima di allora si era sentita così stressata: tra la pratica forense che era stata costretta a ridurre allo stretto indispensabile (e in questo, l'avere come fidanzato un avvocato le si rivelò di grande aiuto), il corso presso il giudice privato per la preparazione al concorso, il tirocinio presso la Procura della Repubblica, e naturalmente lo studio, Alessandra si sentiva soffocare dagli impegni.
Era giunta a una conclusione in quel breve tempo: diventare un magistrato non era solo una prova di capacità e competenza, era soprattutto una prova di resistenza psichica.
L'intero mondo forense era volto a scoraggiare i neolaureati; che si volesse diventare avvocati, notai o magistrati, non faceva differenza, perché ogni strada nascondeva delle insidie tali, che solo chi si muniva di passione e caparbietà poteva riuscire ad arrivare fino in fondo.
In particolare, per chi come lei aveva scelto la strada del concorso, aveva dovuto fare i conti con una realtà demoralizzante: diciotto mesi di tirocinio presso un ufficio giudiziario (avendo fortunatamente ottenuto un voto di laurea superiore al 105), senza il quale non vi poteva accedere, un corso privato da pagare e infine una mole di studio così corposa, che neanche nei periodi di full- immertion pre-esame si era mai ritrovata a dover divorare tutte quelle pagine.
E così, dopo soli tre mesi che aveva abbandonato l'università, aveva finito col rimpiangerla, perché più trascorrevano i giorni e più si sentiva stanca, demotivata e con l'acqua alla gola. E pure squattrinata, a dirla tutta.
Quel giorno, più degli altri, Alessandra aveva un umore nero come le nubi della tempesta e come ogni volta che la giornata iniziava col piede sbagliato, essa non poteva che tradursi in un climax di disastri e peripezie.
Teneva ancora gli insulti incastrati tra i denti, quando, irritata, mise piede fuori dall'aula dove poco prima aveva seguito quattro ore di diritto civile.
I tacchi dei suoi stivali si scontravano con l'asfalto come se volessero stanare un formicaio intero e dalla sua bocca uscivano, in alternanza, sbuffi inferociti e improperi tutt'altro che signorili rivolti contro ogni essere vivente presente sulla faccia della terra.
In realtà, dietro lo sguardo assassino e il broncio stizzito, Alessandra nascondeva anche una profonda frustrazione dovuta alle ulteriori difficoltà che, aggiungendosi a quelle ordinarie, stava incontrando lungo il suo intricato percorso.
Tutte le predizioni e gli avvertimenti di Marco si stavano a poco a poco concretizzando, e se Alessandra in un primo momento si era illusa di potervi far fronte senza batter ciglio, reduce di due anni relazione clandestina grazie alla quale credeva di essersi fatta le ossa, quando dovette fare i conti con la realtà, si era resa conto che non si sarebbe mai abituata al senso di amarezza che le si attaccava al palato ogni qualvolta si scontrava con i commenti delle persone.
Da quando lei e Marco erano usciti allo scoperto, Alessandra si era liberata di un peso che le opprimeva il petto, ma col tempo, quella dimensione di riservatezza che proteggeva il loro amore dalle malelingue le capitava di rimpiangerla.
Non passò molto prima che si venisse a sapere che lei e il temibile avvocato Marco Ferraro stessero insieme e visto che, come si soleva dire, "ogni munn è paese", la notizia della loro relazione si era diffusa a macchia d'olio, giungendo anche alle orecchie dei suoi nuovi compagni di corso.
Andava detto, però, che loro avevano piuttosto velocizzato il processo, visto che in più di un'occasione Marco era andato a prenderla alla fine delle lezioni. Non ci misero molto i suoi colleghi, di cui molti, da ex studenti, avevano avuto lo spiacere di fare la conoscenza del severo dottor Ferraro, a fare due più due.
Alessandra si asciugò una lacrima nervosa che le solcò il viso, mentre ripensava ai commenti che si era dovuta sorbire quel pomeriggio.
Il giudice, colui che teneva le lezioni, aveva concesso loro qualche minuto di pausa per ossigenare il cervello e Alessandra, insieme ai ragazzi che aveva conosciuto lì, uscì fuori dall'aula per consumare un caffè e scambiare due chiacchiere con i suoi nuovi compagni.
Si stavano confrontando sui loro stati d'animo, perché il fatto che tutti quanti stessero vivendo lo stesso spaesamento li confortava e proprio quando toccò a lei aprire bocca per esternare i suoi timori, fu immediatamente​ traviata da occhiate scettiche e maliziose.
Poi arrivò, l'ormai consueta insinuazione e stavolta uscì dalla bocca di Ornella, una ragazza più grande di lei, che senza mezzi termini le disse: " Di che ti lamenti tu? Tanto hai Ferraro che ti aiuta!".
Ad Alessandra lasciavano sempre di stucco quelle allusioni che non si preoccupavano nemmeno di nascondere la malignità di cui erano intrise. Le arrivavano dritte al cuore, le strattonavano lo stomaco, e nonostante provasse a nascondere ​quanto le facessero male, ingoiava la bile amara che le risaliva in gola e sfoderando la sua faccia di schiaffi, tirava fuori una delle sue risposte a tono.
All'inizio era entusiasta di fare la conoscenza di nuove persone con cui condividere il suo sogno, ma ben presto si era dovuta rassegnare al fatto che in quell'ambiente, l'unica aria che si poteva respirare era quella della competizione spietata e che tra quei banchi non si era amici, ma solo avversari che si facevano buon viso a cattivo gioco.
E Alessandra, che a fingere non era mai stata capace, odiava indossare quella maschera di finto garbo verso persone che non avevano un minimo di riguardo nei suoi confronti ed era stata una stupida a pensare di poter instaurare un rapporto sincero.
D'altronde Marco glielo diceva sempre che era un'ingenua.
Solo Matilde si salvava in quel covo di serpi, l'unica ragazza che non l'aveva mai giudicata per la sua relazione e che come lei, disprezzava quell'atmosfera irrespirabile.
Terminata la lezione, mollò alla sua nuova amica un bacio sulla guancia e rifilò agli altri odiosi ragazzi un cenno granitico, dopodiché, spossata, si avviò verso la metro.
Come ogni giornata invernale, il pomeriggio aveva durata breve e il cielo aveva assunto tonalità più rosee a causa dell'imminenza del tramonto, nonostante non fossero nemmeno le cinque.
Alessandra affrettò il passo, desiderosa di raggiungere casa per via delle incombenze di studio, tuttavia, proprio quando fece per svoltare nella strada che l'avrebbe condotta alla stazione della metro, accadde l'irreparabile.
Un forte senso di calore le avvolse il capo, un calore così prepotente da ustionarle il cuoio capelluto e successivamente, una sensazione di viscoso la travolse, pietrificandola.
- Oh no...- mormorò scioccata, poi si portò una mano nei capelli e a quel punto realizzò, sbarrando gli occhi - NO, NO, NO!- gridò incredula.
Le venne quasi da piangere e se per un momento aveva pensato che la sua giornata avesse raggiunto già i suoi picchi più tragici, quando si guardò le dita sporche di una sostanza bianca appiccicosa, gemette.
- Mi ha cagato un piccione in testa!- sbraitò sconcertata.
Qualche passante si voltò a guardarla, ma Alessandra era troppo impegnata ad auto-commiserarsi e a bestemmiare in aramaico per poter prestare loro attenzione.
Era nel totale panico: non sapeva come agire e di andare in metro in quelle condizioni non ne voleva sapere, si vergognava troppo per poterlo fare. La sfiorò anche l'idea di chiamare Marco, ma era certa che non solo l'uomo l'avrebbe messa in croce per mesi - e lei aveva ancora un briciolo di dignità da preservare- ma probabilmente non l'avrebbe fatta neanche accostare alla sua adorata BMW con i capelli sporchi di cacca d'uccello.
L'unica soluzione apparentemente plausibile era quella di pulirsi alla bell'è e meglio e usare i mezzi pubblici.
Si guardò intorno e dopo aver sondato il territorio, si appartò frettolosamente in un angolino più buio, prelevando dalla borsa una bottiglietta d'acqua e un pacco di fazzoletti. Si sfilò il cappotto per verificare che non fosse stata vittima anche lui dell'attacco di diarrea fulminante del diabolico pennuto, ma un lamento acuto uscì dalla sua bocca, quando si ritrovò ad osservare la scia longilinea bianca che spiccava sul suo cappotto nero.
Alessandra aprì la bottiglia e senza troppi fronzoli, si accovacciò su se stessa e inclinò il capo in avanti, mentre svuotava sul lato destro della sua chioma gran parte del suo contenuto.
Non osava immaginare cosa avrebbero potuto pensare le persone che le si sarebbero parate da dietro, trovandosi davanti la sua figura a novanta gradi.
- Che schifo!- mugugnò tra sé e sé, disgustata.
Un ragazzo le passò accanto e quando vide la giovane accovacciata in una posa sconcia, intenta a sciacquarsi i capelli, si bloccò stranito e strabuzzò gli occhi.
Alessandra borbottava sotto voce coloriti insulti e quando avvertì lo sguardo pressante dello sconosciuto, sollevò gli occhi dal basso.
- Beh, che hai da guardare? Mai visto una ragazza a cui un uccello ha cagato in testa?- ruggì rabbiosa.
Il ragazzo scoppiò a ridere incredulo e con lo sconcerto nello sguardo, andò via, mentre Alessandra sbuffava inviperita e tornava alla sua impresa.
Riuscì parzialmente a rimediare al danno, legandosi i capelli bagnati in una coda scomposta, ma non si aspettava certo di passare inosservata.
Quando valicò il tornello, si diresse immediatamente verso la banchina per attendere il treno che l'avrebbe condotta verso casa. Provò a ignorare le occhiate perplesse degli altri utenti, ma d'altronde anche lei al loro posto non avrebbe visto di buon occhio una persona con i capelli bagnati in una fredda giornata di Gennaio, senza neanche una nuvola in cielo.
Mantenne lo sguardo fisso sui piedi, ma le risatine soffocate di qualcuno e gli atteggiamenti preoccupati delle madri che tiravano verso i loro petti i loro figli non le sfuggirono, anzi, incrementarono quel senso di rabbia e vergogna che le infuocava le gote.
Sentiva gli occhi fissi su di lei, ma nessuno ebbe il coraggio di avvicinarsi.
E anche quando salì sul treno, la scena fu la stessa: le si posizionavano accanto, poi le lanciavano un'occhiata di sottecchi e con una smorfia intimorita e finta noncuranza, cambiavano posto.
E così rimase per tutto il tragitto: seccata, umiliata e segregata in disparte come una reietta, fino a quando, con immenso sollievo, non raggiunse finalmente casa.

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