Il fatto che Loki si offrisse spesso di accompagnare Bucky al lavoro era per lui, come già detto e ripensato mille e mille volte, un agio prezioso. Non ringraziava l'amico, rimaneva nella propria riservatezza muta e fredda, scambiando solo con gli occhi un eccentrico segnale di gratitudine a Loki, poco prima di scendere dall'auto parcheggiata davanti lo studio di tatuaggi. Tutta questa premura da parte degli unici due amici del moro, ergo, Natasha e il ragazzo dalle fattezze corvine, era scaturita da una motivazione non di certo trascurabile. Lo notavano ormai a vista d'occhio, senza aver nemmeno bisogno di gettare un'occhiata di troppo al braccio sinistro di Barnes. Le nocche ed i polpastrelli colorate di un rosso fiammingo dal sangue bollente avvampato per colpa delle medicazioni troppe strette all'altezza del polso e del dorso della mano, difficili da nascondere persino con la felpa larga. Bucky stava peggiorando a vista d'occhio, gli capitavano periodi simili di ricaduta, dove per aiutare la sua testa a sbarazzarsi di quell'arto bastavano anche semplicemente i denti, o le unghie. Capitava non molto di frequente che si martoriasse a tal punto da rischiare serie infezioni o lacerazioni profonde, ma quando ciò tempestava ancor peggio quella pelle sottile e bianca di vecchie cicatrici, nessuno era in grado di attenuare il calvario di Bucky. Già gestirlo normalmente, tutti i giorni, quando si limitava -per così dire- a tagliuzzare qualche lembo di pelle un po' lì, qualche pezzetto sulla spalla, un taglio sul gomito, era estremamente complicato, figuriamoci quando traboccava di impeto violento in modi simili. Natasha aveva contattato parecchie volte la famiglia di Bucky, per pregarla di aiutare il figlio, per spiegargli le condizioni di salute del ragazzo, e soprattutto della sua condizione precaria, aveva provato in tutti i modi a far riavvicinare perlomeno la madre, perché sapeva che il solo aiuto di Loki e suo non sarebbe stato sufficiente. Ma i coniugi si limitavano ad arricciare il naso in un'espressione sdegnata, facendo increspare la fronte rugosa e percossa dalla stanchezza del tempo e dalle situazioni persoanali. Nat diventava ancora un po' insistente, fino a quando, l'uomo dagli occhi scuri che aveva dato il cognome a James, alzava la voce con rabbia, ringhiando in cagnesco una frase del tipo: «Non voglio più federe quel frocio malato tra i piedi!»
Natasha era passata sopra quel tipo di risposta per due volte soltanto, la terza volta, e anche l'ultima in cui si era presentata alla porta di casa Barnes, lei li aveva categoricamente mandati al diavolo, urlandogli contro tutte le ragioni possibili che l'avevano spinta ancora una volta a chiedere il loro aiuto. Qualche imprecazione, un insulto poco cordiale e alla fine di tutto, un calcio alla siepe ben curata della signora Barnes, e poi Natasha aveva sbattuto lo sportello della sua auto, messo in moto, e abbandonato per sempre i tentativi di un nuovo tipo di rapporto tra genitori e figlio.
Quando, appunto, James aveva le sue gravi ricadute, né Natasha né Loki erano in grado di trovarne un effettiva ragione, un fattore scatenante che avrebbe potuto innescare quell'improvviso peggioramento. Si limitavano quindi a tenerlo d'occhio più spesso possibile, così da accorgersi tempestivamente delle ferite più gravi, se pur difficili da individuare.
Il sesto giorno di lavoro di James iniziò con un saluto in auto da parte di Loki, e poi un altro ancora da Sam allo studio, e come ultimo quello di Steve. Rogers però non dava il benvenuto ormai abituale a Bucky con un semplice sorriso e un'alzata di mano da lontano, così da lasciarlo subito al suo lavoro; Steve lo sentiva arrivare quando la porta di vetro del negozio si chiudeva, sempre allo stesso orario, esattamente, alle dieci e dieci di mattina. Non un minuto più non un minuto meno. Dalla prima stanza del corridoio, quella in cui lavorava agli stencil al computer, Steve aveva immediatamente imparato i rumore dei passi di Bucky. Le sue Vans un po' consumate e sporche, di un colore blu scuro, strisciavano appena sul parquet, picchiettando il tallone sulla soglia della porta, nell'atto di chiuderla. James non rispondeva al saluto di Sam a parole, ma semplicemente sorrideva ed annuiva, certe volte, accennando un gesto timido e amichevole con il capo. Il ragazzo di colore non se la prendeva, lo avvertiva, aveva capito che quello era il carattere di Bucky, e che in quel silenzioso ragazzo di non più di ventitré anni, educato e sempre sulle sue, non c'era segno di antipatia o sgarbo. Così, anche senza sentire la sua voce, Steve lo riconosceva, ed in quei sei giorni di permanenza al negozio, lui non aveva mai sbagliato una volta, a riconoscere i passi di Bucky.
Poi si alzava dalla sua postazione, comoda e circondata da piccoli soprammobili raffiguranti teschi o bizzarri pupazzi dall'aspetto buffo, tutti comperati da Sam. Rogers abbandonava il proprio lavoro, senza esitare sul punto preciso e minuzioso in cui era arrivato; chiudeva la porta scorrevole della piccola stanza, e subito si immetteva all'entrata abbastanza ampia in cui si era appena presentato James. Lo abbozzava per un'istante, esaminando ogni suo dettaglio, che fossero i capelli lunghi sciolti o raccolti in un piccolo chignon, la felpa larga e scura, i jeans larghi stracciati sulle ginocchia o sulle cosce, o addirittura le scarpe, che di solito erano sempre le stesse. Steve gli sorrideva, con i denti bianchi e perfetti, arricciava di poco il naso e si sforzava di non strizzare troppo gli occhi, colmi di tenero entusiasmo. La barba un po' chiara nascondeva le fossette sulle sue guance, così Steve poteva permettersi di sorridergli liberamente senza doversi preoccupare di apparire troppo buffo con quei solchi sul viso. Si avvicinava a James, allungava una mano per poggiarla sulla spalla del ragazzo, e lo salutava porgendogli entrambe le guance. Aveva immediatamente fatto caso alla minuziosa attenzione che Bucky riservava al lato sinistro del proprio corpo, sempre attento a proteggerlo, ad evitare spigoli, e ad allontanare qualsiasi tipo di contatto fisico con qualcun altro. Steve era l'unico ad essersene accorto, perché lo guardava attentamente, come se avesse dovuto disegnarlo e imparare meglio ogni sua linea. Guardava Bucky quando entrava, quando si dirigeva indiscretamente verso lo stanzino per prendere i prodotti disinfettanti per le macchinette per tatuare, quando facevano la pausa pranzo e allora il moro si sedeva timidamente per i fatti suoi e mangiava il proprio sandwich in silenzio. Lo guardava, poi, prima che se ne andasse, che finisse di lavorare e di pulire. In quel momento lo guardava meglio negli occhi, piuttosto che addosso. Perciò in sei giorni aveva imparato a non sfiorare Bucky dalla parte sinistra, anche se osare una carezza d'affetto sul braccio destro indisponeva il moro, Steve lo faceva comunque, già che aveva capito che da quella parte poteva farlo.
Era quasi trascorsa una settimana da quando James si destreggiava senza fiatare tra i lavori di pulizia e ordine dello studio, che grazie a lui era diventato splendete. Steve, come si era ormai preso d'abitudine, appena lo sentì entrare gli andò in contro, salutandolo con due baci sulla guancia, educati e amichevoli, e poi quella pacca gentile sulla spalla di Bucky diventò invece una flebile carezza attraverso il tessuto caldo della felpa. Bucky se ne accorse, incorniciando le sopracciglia lo guardò, e senza nemmeno avere il tempo di mettere a fuoco gli occhi azzurri di quello davanti, ricevette da lui un'ammiccare provocatorio. Barnes si morse l'intero della guancia, sforzandosi di sorridere, ma soprattutto, di non trasparire di imbarazzo impacciato. Abbassó immediatamente lo sguardo, scavalcandolo abbastanza velocemente, con le mani cacciate nella tasca della felpa. Sam assaporò con divertimento tutta la scena, preparando le battute scherzose che avrebbe fatto a Steve più tardi, in quel momento troppo impegnato a seguire James.
«Se vuoi oggi, per la pausa pranzo, possiamo andare a mangiare qualcosa qui vicino.» gli propose Steve, da dietro, sorridendo nella speranza di essere visto dal ragazzo sportosi sulle mensole del piccolo sgabuzzino alla ricerca di un prodotto chimico ormai dimenticato per colpa della presenza ambigua del biondo.
«Ti ringrazio, ma non posso.» gli rispose Bucky con voce rauca, continuando a dargli le spalle.
Per tutta la sua breve permanenza in negozio loro due avevano scambiato si e no qualche saluto o chiacchiera breve, sempre su iniziativa di Steve. A Bucky quella proposta fece raggelare il sangue, per il timore e l'insicurezza ormai cronica nel proprio carattere.
«Se è per i soldi non preoccuparti, offro io.» continuò Rogers con voce serena.
James si voltò verso di lui, impacciato e mortificato, quasi a dover chiedere scusa per avergli fatto pensare una cosa simile. Steve gli si era avvicinato troppo, e gli occhi di Bucky non dovettero nemmeno indirizzarsi al viso dell'altro, a pochissimi centimetri di distanza da lui. Stringeva al petto, tra entrambe le mani, il contenitore trasparente di pomata disinfettante da sistemare nel tavolino da lavoro della macchina per tatuare, mettendo così in evidenza, senza farci proprio caso, la mano sinistra, ferita e arrossata da un lungo taglio che dallo spazio molle tra l'indice e il medio correva fino al dorso, all'altezza del polso.
Steve non poté fare a meno di accorgersene, preoccupandosi di quella brutta ferita così vistosa e fresca, priva di medicazioni.
«Ti sei tagliato, sulla mano. Ti fa male?» gli chiese preoccpato, porgendosi premurosamente verso quella mano. Bucky avrebbe voluto scomparire, si sentì persuaso dal terrore e dalla mortificazione, pietrificato, sudò freddo. Era riuscito a non farsi accorgere delle ferite alla mano, aveva cercato in tutti i modi di evitare di ferirsi in quel preciso punto, spostando tutta la propria attenzione sul bicipite, ma la sera prima si sentiva sull'orlo di un attacco di panico, e con la lama di una forbice da cucina nascosta tra i panni sporchi per non farsela togliere da Natasha, si era tagliato in quel preciso punto. Si sarebbe tagliuzzato le dita, in quel momento, voleva togliere gran parte di quel braccio, almeno le dita, con il polso non vi sarebbe mai riuscito solamente con quello strumento, ma provarci con un dito? Con l'indice? Con il miglio forse, così piccolo e delicato. Un pezzetto alla volta, iniziando dalle dita magari sarebbe riuscito a levare la mano, e poi il braccio, e poi ancora l'avambraccio. Cristo, quanto lo odiava quel dannato arto, pensarci e ripensarci di tagliarlo, di rimuoverlo, di bruciarlo e farlo a pezzetti, la notte non poteva che sognare di annegare nel suo stesso sangue, senza più quella parte della sua malattia, ma con il sorriso in volto.
Alla constatazione di Steve si ficcò immediatamente la mano incriminata in tasca, puntando il mento verso il basso, con gli occhi lucidi dal panico. Spinse piano con la spalla destra quella di Steve, per passare, per uscire da quel muro fatto dal corpo del ragazzo, così da poter fuggire da lui e prendere aria.
«Tutto bene?» gli chiese ancora Steve, preoccupato, voltandosi verso di lui, ma senza seguirlo.
«Si, mi sono soltanto tagliato mentre cucinavo a casa, niente di grave.» gli rispose velocemente.
«D'accordo. Allora oggi, per pranzo?»
«Ti ringrazio ancora, ma non posso accettare, davvero, sarà per la prossima volta.» ripetè ancora James, voltandosi verso di lui, anche se abbastanza distante, per rispondergli senza essere più scortese di quanto non lo fosse già stato. Deluso, ma con sguardo tenero, il ragazzo pieno di tatuaggi gli annuì, sorridendogli ancora;
«D'accordo, sarà per la prossima volta.»
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Vita decomposta ||Stucky AU|| ✔
RomanceBucky Barnes ha un disperato bisogno di soldi, ed è grazie alla sua amica Natasha, che il ragazzo trova lavoro presso uno studio di tatuaggi. Il padrone del negozio si chiama Steve Rogers, un attraente ragazzo cosparso di tatuaggi che non si lascia...