Il volto di Bucky era corrugato a causa del sole del tardo pomeriggio insistente attaccato al suo viso, e al quale il ragazzo non era abituato. Natasha, l'unica persona rimastagli vicino capace di insistere con lui e di non seccarsi mai del silenzio remissivo di Bucky, lo aveva costretto a mettere finalmente piede fuori dal suo appartamento, diventato ormai la sua tana da più tempo di quanto potesse calcolare.
Il rumore dei veicoli lenti e veloci lungo le strade di Brooklyn non facevano altro che nutrire l'espressione di malcontento che Bucky continuava a nutrire per quella costrizione ormai impossibile da deviare. Lo infastidivano, tutti quei rumori, quegli odori, quella folla di gente in continuo movimento, dai pensieri troppo superficiali. Natasha evitava di toccarlo, faceva sempre un'enorme attenzione a quanta distanza mantenere dalla presenza di Bucky senza evitare di toccarlo o perderlo di vista. Doveva tenerlo lontano, a lui serviva, e lei lo accontentava per amor suo. Il suo nome non era solamente Bucky, quello era un semplice soprannome che i pochi conoscenti che aveva usavano per tenerlo a mente con più facilità.
Lui si chiamava James Buchanan Barnes, ergo, conosciuto dai pochi come Bucky.
Trovò un po' d'ombra sotto un ponteggio di un palazzo, polveroso e con barriere di strisce plastificate arancioni messe in torno, come se lo stessero nascondendo. Bucky teneva gli occhi bassi per terra, osservando i propri piedi andare avanti, prima uno e poi l'altro, destra e sinistra, con moderata velocità, seguendo la ragazza dai capelli rossi, sua amica.
I jeans strappati all'altezza delle ginocchia gli stavano larghi, come al solito, Bucky si era dimagrito troppo in quelle ultime settimane, un po' per i soldi che iniziavano a scarseggiare molto più del solito, un po' per il suo umore. La pesante felpa nera con una tasca larga al centro del ventre gli calzava molto più grande di come avrebbe dovuto, in questo caso il capo d'abbigliamento era stato comperato apposta di una o addirittura due taglie più grandi, e pur essendo maggio inoltrato, con il caldo alle porte che cuoceva l'asfalto della città, Bucky indossava quell'indumento invernale e scuro addosso, con le mani cacciate in tasca. Gli serviva, a costo di rischiare un calo di pressione o altri piccoli incidenti di percorso simili, James non poteva permettersi di tenere le braccia scoperte, o almeno, di scoprire quel braccio.
Il viso era solcato dalla stanchezza che gli deturpava in maniera affascinate e misteriosa gli occhi, gli zigomi e persino la fronte. Le carnose labbra dal colore dei petali di un fiore, estremamente simili a quelle di una donna, erano però incorniciate da una barbetta scura ed incolta lungo tutto il volto, che rendeva Bucky ancora più sciupato e triste. Era proprio quel sentimento che traspariva da ogni sua parte, la più silenziosa e misteriosa tristezza. I capelli castano scuro cadevano ai lati delle guance con naturalezza, lunghi e morbidi con una compostezza non imposta. Solo che gli occhi di Bucky continuavano ad essere ricchi di colore, due cristalli d'inverno, grandi e chiari, come se il sole continuasse a riflettere i propri raggi su di essi, scaturendo lo stesso effetto che dà l'acqua cristallina. Erano anche imbrattati di tristezza, solo che non lo dicevano. La motivazione di tale uscita era alquanto comprensibile, Natasha era andata a trovarlo frequentemente nelle ultime due settimane, portandogli molto spesso al spesa che a Bucky mancava. La ragazza l'aveva ammonito con il suo solito fare superiore ma amorevole, dicendogli che stava davvero esagerando, che aveva ormai toccato il fondo, che era così al verde da non potersi permettere di pagare né l'affitto né quel poco cibo in scatola che lui chiamava pasto. Bucky aveva bisogno di un lavoro, qualsiasi tipo di lavoro. Natasha lo aveva preso pure in giro, proponendogli persino di fare il gigolò con qualche bel ragazzo ricco, o persino di esibirsi come spogliarellista. Bucky aveva simulato una risata stanca, rabbrividendo alla stupida idea di doversi presentare a braccia scoperte difronte a qualcuno. Così la giovane donna di origini russe, dopo giorni interi di ricerche, aveva finalmente trovato un lavoro per il suo tanto affezionato amico. Tramite un conoscente, Natasha era venuta a sapere che un suo vecchio compagno di liceo, in passato suo grande amico, aveva aperto uno studio di tatuaggi in periferia, un posticino piccolo ma pieno di clienti, così, tramite suppliche poco sconvenevoli, la ragazza era riuscita a trovare un lavoretto per Bucky, certo, disinfettare da cima a fondo ogni tipo di attrezzatura presente in negozio non era poi un granché, ma considerando tutta la premura e la fatica che ci aveva messo Natasha, e lo stipendio più o meno sufficiente per saldare i conti prioritari che Bucky aveva, non poteva di certo rifiutare l'occasione.
La situazione economica di Barnes era disastrosa, continuava a vivere in quel piccolissimo appartamento cupo solamente grazie alla pazienza del proprietario, che si limitava a mandargli per posta avvisi di sfratto sempre più minacciosi, senza mai insistere. In fondo, tutti conoscevano la situazione di Bucky, tutti sapevano che il semplice fatto che fosse ancora vivo era un'enorme privilegio.
Bucky aveva dichiarato la propria omosessualità alla sua famiglia alla giovane età di diciassette anni; il padre lo aveva sbattuto fuori di casa, spintonato e quasi picchiato, mentre la madre non aveva fatto nulla per fermarlo, dopotutto non la biasimava, aveva pensato Bucky, era stato un pessimo figlio, aveva già causato troppi problemi alla propria famiglia, e forse dichiararsi gay e farsi cacciare via era solo un semplice pretesto per tutti di levare di torno il problema, che era lui.
Bucky soffriva di una rara malattia dal nome quasi buffo, ovvero BIID, meglio catalogata come Body Integrity Identity Disorder, una condizione psicologica assimilabile al disordine dell'identità di genere, nella quale il soggetto sente di abitare un corpo che non corrisponde all'immagine idealizzata che ha di sè stesso. Non pensate assolutamente che Bucky abbia tendenze, per così dire, transessuali, il suo disturbo era alquanto diverso e molto più complicato, se vogliamo. La particolarità di questo disturbo, infatti, risiede nel fatto che il corpo immaginato e desiderato è un corpo amputato: i pazienti chiedono infatti di poter essere amputati gambe o braccia per raggiungere una completezza che sentono di non possedere. Queste sensazioni di estraneità con il proprio corpo e questi desideri di amputazione insorgono in età preadolescenziale. È praticamente impossibile stimare quante persone soffrano di questo disturbo, anche se qualcuno ha suggerito che potrebbe essere più frequente del prevedibile, e nascondersi nei casi di amputazioni accidentali degli arti avvenute in circostanze non chiare. Delle cause non si sa praticamente nulla, anche se sono state proposte diverse teorie, come ad esempio l'incomprensione in età infantile, oppure una condizione neuropsicologica nata da un'anomalia strutturale o funzionale della corteccia celebrale che collega gli arti.
I sintomi del disturbo sono anch'essi molteplici, e Bucky li aveva manifestati tutti, all'inizio e durante tutta la sua condizione. All'età di sei anni il moro aveva provato una strana ed insolita sensazione di incompletezza e disabilità simile a quella che potrebbe sperimentare un individuo normale dopo aver subìto un'amputazione. A dieci anni aveva subito sviluppato la sua ossessione, ovvero quell'idea fissa concerne l'arto e il livello di amputazione richiesto, manifestatosi in Bucky nel braccio sinistro.
James vedeva dei film alla TV, horror soprattutto a notte fonda, provando un altro scioccante stimolo, ovvero un sentimento di intensa gelosia alla vista di un amputato, e subito dopo un enorme sentimento di vergogna per questi ultimi desideri. Dai quindici ai sedici anni poi un ennesimo sintomo si era aggiunto alla sua infinita lista, attraverso episodi di depressione e qualche volta pensieri suicidi, nutriti anche dalla propria confusione per quanto riguardava il propio orientamento sessuale.
La diagnosi era stata formulata quando Bucky aveva undici anni, dopo continue visite in diversi specialisti di qualsiasi tipo. La sua famiglia aveva cercato di accettare questa strana patologia spacciata sin dall'inizio come un capriccio, diventato molto più grave quando il figlio dei Barnes aveva iniziato a ferirsi quell'arto che tanto riteneva malato.
All'inizio lo graffiava con le unghie, a lungo, fino a far diventare quei segni arrossati dei veri e propri lividi sanguinolenti, mordendoli poi, con tutta la forza che aveva, e magari quando aveva la possibilità di stare solo in casa, prendeva le lamette del rasoio da barba di suo padre e iniziava a tagliuzzare ripetutamente una parte del braccio, andando sempre più a fondo, con la speranza di arrivare all'osso.
Le ferite le ricucivano, ma Bucky non gli dava mai il tempo di guarire.
Non era una forma di autolesionismo, non lo faceva per sfogarsi o cercare aiuto, semplicemente era la sua testa che glielo imponeva, di sbarazzarsi in tutti i modi di quel braccio non suo.
Lo aveva sempre pensato ma mai detto, che gli faceva più male quando non sanguinava, piuttosto che quando le cicatrici iniziavano a rimarginarsi.
Quando i suoi lo avevano sbattuto fuori di casa chiamandolo frocio, non si preoccuparono né di cosa avrebbe fatto per cavarsela da solo, né di come la sua condizione avrebbe avuto libero sfogo nella totale solitudine, anche perché in casa sua madre cercava in tutti i modi di privare Bucky di oggetti contundenti. Poi era arrivata Natasha, una compagna di scuola che aveva saputo dell'accaduto, sopratutto dopo che James aveva deciso di ritirarsi da scuola. La rossa gli era andata dietro per qualche settimana, avvicinandosi con cautela quasi fosse un animale selvaggio, in fine, acquistando la fredda fiducia del ragazzo sempre a maniche lunghe, facendosi raccontare a poco a poco tutta la sua storia.
Natasha era stata la prima a non giudicarlo come pazzo, a non dargli torto o ad aggredirlo sulla sua condizione. Lei era stata l'unica a comprenderlo e a dargli ragione.Il campanello sopra la propria testa tintinnò quando Natasha aprì la porta di vetro dello studio di tatuaggi, invaso da un odore di incenso nel piccolo ambiente dalle mura ricoperte di disegni ben incorniciati, con un bancone pieno di album e candele, affiancato da un divano in pelle nera. Bucky osservò attentamente ogni dettaglio di quel posto, non facendo caso nemmeno a Natasha davanti a lui, che stava parlando con un ragazzo di colore. Bucky scrollò la testa e poi la affiancò, richiamato dal suo sguardo.
«Sam ti presento Bucky, il ragazzo di cui vi ho parlato, Bucky lui è Sam.» disse Nat sorridendo, indicando con le braccia i due l'uno all'altro. Sam sorrise a labbra serrate, porgendo la mano destra a James, che con fare impacciato ricambiò debolmente la stretta, ritirandosi immediatamente. La mano sinistra, martoriata, era ben cacciata nella grande tasca della felpa, mentre ringraziò mentalmente il ragazzo di avergli porso l'altra mano, così da poter ricambiare con la parte buona di se.
La voce cauta di Natasha continuò a parlare, nel vano tentativo di inserire Bucky nel cordiale discorso tra lei e Sam, che cercò di non appesantire troppo il proprio sguardo sul ragazzo; la rossa aveva avvisato tutti i pochi dipendenti del negozio dei problemi di James, senza approfondire troppo, e di quanto quel lavoro sarebbe stato di vitale importanza per lui. Barnes non riuscì nemmeno a sorridere con gentilezza, limitandosi ad annuire con fare stanco e lento, ignorando ciò che i due presenti affianco a lui sapevano della propria condizione.
La musica rock che faceva da colonna sonora più o meno bassa nello studio parve abbassarsi ancora di più, regolata dal ragazzo alto che si presentò davanti ai tre.
Ampie spalle bilanciavano armoniosamente il suo fisico atletico e ben impostato; il collo muscoloso e le braccia fasciate dalla medesima massa poco contratta, cosparse su ogni centimetro roseo di pelle da centinaia di tatuaggi colorati e grigi. Bucky non poté fare a meno di soffermare la propria attenzione sugli arti superiori del ragazzo, tenuti scoperti grazie alla t-shirt nera aderente che accentuava la vita muscolosa. Quell'uomo intrigante aveva una miriade incalcolabile di tatuaggi che dalle mani salivano alle spalle, nascoste dalla maglietta, salendo fino al collo, per terminare con qualche piccolo contorno stilizzato sul viso. Una lunga barba castana gli incorniciava il viso chiaro, del medesimo colore dei capelli morbidi tirati indietro in un ciuffo più o meno volumizzato. Gli occhi azzurri accendevano tutta la creatività palesemente emanata che teneva in testa, e il suo sorriso gentile trovò immediatamente motivo sull'immagine di Bucky.
«Devi essere la nuova recluta, l'amico di Nat. Molto piacere, Steve Rogers.» disse il tatuatore, porgendo la mano sinistra a James. Quest'ultimo deglutì, stringendo il pugno sinistro dentro la tasca, iniziando a percepire un lieve stimolo di panico dentro di se, irrigidendosi con espressione seria. Bucky annuì, guardandolo negli occhi e accennandogli un sorriso insofferente per cercare di essere meno scortese possibile mentre rifiutò quella stretta data con il lato sbagliato.
«Il piacere è mio, sono James, ma potete chiamarmi B-Bucky...» rispose, cercando di trasmettere simpatia per farsi perdonare dalla maleducazione del suo saluto negato, tenendo la mano in tasca, scaturendo una leggere curiosità in Steve. Il ragazzo dalla pelle colorata non diede peso a quella strana reazione, sorridendo ancora, grazie agli occhi di Bucky. Oppresso da quelle occhiate insistenti, James chinò il viso in maniere imbarazzata, accorgendosi di tutto l'interesse che Rogers nutriva nei suoi riguardi.
Come se avrebbe potuto farsi regalare un sorriso confidenziale da parte del moro, Steve gli sorrise ancora, ammiccandogli d'improvviso. James aggrottò la fronte, irrigidito da uno scatto confuso avuto con il capo, ricambiando quel segnale alquanto fraintendibile ed imbarazzante da parte di Rogers con una smorfia stranita.
«Quindi, a quanto pare Nat ti ha trovato un piccolo spazio qui tra noi. Ti tratteremo bene, sta tranquillo, ci serviva proprio una mano con le pulizie! Sam lascia un porcile in giro quando finisce di tatuare!» disse Steve sorridendo, avvicinandosi di più a Bucky, con gentilezza allegra, facendolo indietreggiare di due passi istintivamente.
«Cercherò di fare del mio meglio...» si limitò a rispondere lui con voce bassa, tenendo comunque gli occhi sulle punte delle sue scarpe. Steve si permise ancora una volta di scrutarlo, approfittando di un movimento lento verso il bancone per odorare il profumo fresco che stava sulla pelle di James. Anche se il suo aspetto era alquanto cubo e trascurato, l'odore di Barnes sapeva di zucchero filato, a parer di Steve. Un'essenza delicata e impercettibile che di sicuro soltanto lui poteva percepire. Si dice che chi riesce a distinguere così nitidamente il profumo di una persona sia destinato a stare insieme a quest'ultima, una bella teoria presa sicuramente da qualche diceria, ma di una cosa era certo Bucky, che di quegli occhi azzurri non sarebbe riuscito a sbarazzarsi tanto facilmente.
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Vita decomposta ||Stucky AU|| ✔
Storie d'amoreBucky Barnes ha un disperato bisogno di soldi, ed è grazie alla sua amica Natasha, che il ragazzo trova lavoro presso uno studio di tatuaggi. Il padrone del negozio si chiama Steve Rogers, un attraente ragazzo cosparso di tatuaggi che non si lascia...