Esperimento di morte

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Avere come “dono” la morte è qualcosa che riempie in fondo all’anima, nel cuore e che ti fa star bene nel corpo. Non pensavo che la Morte potesse rendermi così felice.
Sin da piccola mi sono sempre chiesta cosa fosse la morte… o meglio, chi fosse. Ma sebbene ponessi le domande ai miei genitori, nemmeno loro sapevano rispondermi. Ma in verità, chi mai avrebbe saputo cosa o chi fosse la morte?
Al mio sesto compleanno mio nonno morì.
Mia madre, accanto a me con la mia mano nella sua, non faceva altro che piangere. E mi chiedevo: Ma perché? Perché piangere per un uomo che è andato in un posto migliore? Che ha avuto la “fortuna” di passare, di morire?
Mamma, perché il nonno è morto?” mi ritrovai a chiederle guardandola in volto.
Le sue lacrime continuavano a scendere e con un gemito quasi strozzato riuscì a rispondermi “Il Signore se l’è preso”.
Allora il Signore è la Morte?
No, tesoro… Il signore è buono…
E allora anche la Morte deve esserlo…
 
Per anni la mia convinzione fu che il signore e la morte fossero la stessa cosa. Il Signore… era così che mia madre lo chiamava spesso, specialmente quando andavamo in chiesa la domenica. Quando le chiedevo dove stavamo andando con il vestitino della domenica, lei mi rispondeva “Andiamo a trovare il Signore”. Erano risposte strane di cui non capivo il significato. Il signore… perché non aveva un nome? Filippo, Tommaso, Eduardo.. No, lui era il Signore.
Un giorno mentre eravamo in chiesa, mia madre mi permise di uscire con altri bambini. Loro andavano in giro con delle fionde, giocavano all’acchiapparello, o a nascondino… giochi che a me non interessavano tanto. Ma uscì ugualmente perché mi ero scocciata di ascoltare le preghiere.
Forse fu un segno del destino. Forse fu proprio il Signore che mi volle illuminare. Ma mentre ero fuori i miei occhi videro l’esibizione della Morte. Videro le sue tragiche vesti sul corpo di un povero uccellino. Lentamente mi avvicinai e mi accovacciai dinanzi ad esso.
Gemeva, si lamentava.
Mi chiesi se avrebbe dovuto farmi pena. Mi chiesi se avrei dovuto salvarlo. Ma i miei erano fissi solo su quella creatura mezza morta, sofferente. E più la guardavo soffrire più mi accorsi che dentro di me nasceva e cresceva una strana adrenalina, uno strano volere di soccombere quella sofferenza.
No… non devo… la mamma non vorrebbe…”, mi dissi voltandomi verso la chiesa. La mamma non era ancora uscita sebbene le campane avessero già suonato. Sicuramente stava salutando tutti i parrocchiani e un ultimo saluto al Signore, visto che non l’avrebbe rivisto per tutta la settimana. Il gemito del piccolo uccello riprese la mia attenzione. Continuava a soffrire, continuava a gemere. Qualcosa mi attaccò lo stomaco. Era una strana voglia, come se qualcuno mi chiedesse di… soccomberle. Di ucciderlo.
Avanzai lentamente la mano verso la povera creatura e gli presi la testa. Si dimenava sotto la mia mano, cercava di uscire.. ma non solo era troppo debole, ero anche io ad essere superiore a lui.
Io sarò il tuo destino” premetti l’indice e il pollice contro la testa dell’uccellino e poi piegai.
L’uccello smise di cinguettare. Smise di gemere. Smise di soffrire.
Era morto.. e per mano mia.
Riposa in pace” mi feci il segno della croce, come mi aveva insegnato la mamma, e mi alzai guardandolo dall’alto. Dopo di che la mamma venne a chiamarmi e io la seguì.
Avevo ucciso un essere vivente.
Avete tenuto nelle mani il destino di qualcun altro.
E questa cosa mi riempì di una sconcertante adrenalina che mi riempiva lo stomaco sino ad arrivare alla bocca e coprirla con un sorriso.

Il Diario di una PsicopaticaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora