Se la mia storia era cominciata con omicidi, adesso stavo cercando di cambiare. La morte di mia madre mi aveva portato a pensare che la sofferenza non può che portarne altra, e sempre ancora. Qualcuno finisce di soffrire e ci sarà sempre un altro a soffrire ancor di più. Era qualcosa che non riuscivo a concepire, qualcosa che mi sconvolgeva… eppure si, era reale. La prima io avevo sofferto tanto nell’uccidere mia madre, ma ancor più costatando che lei non ci sarebbe stata più, che non avrei più potuto osservarla di nascosto, osservare i suoi lineamenti che giorno dopo giorno invecchiavano. Non avrei più potuto osservare i suoi occhi grigi ormai spenti, sempre pieni di lacrime. Non avrei più potuto osservare quel sorriso bagnato di lacrime mentre leggeva qualcosa di mio o guardava le foto.
Non l’avrei più rivista.
E avevo deciso.
Se il Signore mi aveva chiesto più volte di togliere la sofferenza, forse non c’era bisogno della morte in alcuni casi. Forse in alcuni casa bastava… bastava cambiare il modo di vivere. Forse alle volte si poteva cambiare la sofferenza in felicità. Ed io potevo farcela… potevo aiutare qualcuno a cambiare la sua vita, a cambiare la sofferenza in qualcosa che si avvicina alla felicità.
Fu per questo che andai a lavorare in un centro assistenza. Non era proprio un lavoro. Mi ero proposta come volontariato. Non ricevevo denaro ed in cambio cercavo di aiutare la gente.
Li di persone sofferenti ce n’erano abbondantemente. Da bambini a vecchi, donne e uomini, ragazzi e ragazze.
In primo tempo mi sentii spaesata. Tutta quella sofferenza… Come avrei fatta ad eliminarla tutta? Ricordai quelle fiamme, quella puzza di gas… Ricordai il mio secondo omicidio. Era stato qualcosa di esilarante, qualcosa che non dimenticherò mai per tutta la mia vita. E li avrei dovuto far la stessa cosa… Solo che non era possibile.
Avevo vent’anni.
Al centro mi facevano assistere qualunque, ma io preferivo parlare con i bambini. C’era chi parlava troppo, c’era chi non parlava proprio. Era una bambina a cui venivano fatte delle codine alla testa, volto pulito. Aveva sette anni forse, se ricordo bene. Indossava una salopette jeansata, una magliettina colorata di sotto e delle comode scarpe da tennis. La prima volta che la vidi era seduta su una della scala del’edificio. Stava giocando con delle biglie colorate. Le prendeva e le esaminava con cura, proprio come io qualche anno prima facevo con i coltelli, prima di uccidere qualcuno.
Lentamente, più silenziosa di una gatta, mi avvicinai alla bambina e mi sedetti vicino.
“Ciao!”
La bambina sussultò prendendo il sacchetto con le biglie e portandolo al petto. Le labbra avevano preso la forma di un broncio, e la sua espressione era… era.. davvero arrabbiata. Ma con chi? E per cosa?
“Non voglio prenderti le biglie, tranquilla”, come se potessero interessarmi. Ma era pur sempre una bambina, normale che tenga maggiormente alle biglie che ad altro. Magari non teneva nemmeno al’affetto umano. “Come ti chiami?”
La bambina abbassò il capo senza emettere un sol suono. Nessuno parola. Uscì due biglie e cominciò a giocarci facendo finta che io non ci fossi.
“E va bene” sospirai. Non ero la tipa che mi arrendevo così facilmente, quindi sorrisi. “Io mi chiamo Sarah, e ho vent’anni.” Va bene, diciamo che non le interessava nemmeno questo e quella bambina stava cominciando a darmi un tantino sui nervi. Quella sua inespressività, quel suo modo di reagire… tanto simile al mio. Non le importava di nulla e nessuno. Come ero io. Non mi importava delle persone, solo di me stessa. Non parlavo con le persone perché mi prendevano per pazza. Non parlavo con la gente semplicemente perché loro non capivano. E invece lei perché non parlava? Che motivo aveva per racchiudere la sua voce dentro i polmoni? “Sai, quand’ero piccola, anche più grande di te, nemmeno io parlavo.” Alzò il capo. Adesso sembrava alquanto interessata “La gente non mi capiva. Pensava che fossi pazza, e allora mi richiusi in me stessa perché… perché… non volevo essere presa per una folle per quel che facevo. Lo facevo per bene, per chi sta in cielo e che mi aveva chiesto di…” mi fermai. Non potevo rivelare tutto alla bambina. I segreti del signore erano di lui, e se mi aveva scelto non potevo certo raccontare a tutti che Cristo mi aveva dato il compito di uccidere. La questione si sarebbe ripetute ed io sarei stata nuovamente presa per la folle che non ero. Ma la bambina sembrava abbastanza curiosa, mi guardava con quei occhi grigi spalancati. Voleva sapere. Sospirai socchiudendo gli occhi “… parlare con gli animali” inventai sul momento. Non era vero, nessuno era in grado di parlare con gli animali, tranne me con Linguetta, si intende. “E quindi le persone mi prendevano per pazzi”
La bambina mi guardava , seria inizialmente. Poi le sue labbra si inarcarono sino a formare un sorriso. Sorrisi anche io. “Davvero puoi parlare con gli animali?” che bella voce che aveva. Una bellissima voce fina.
Annuii mentendo. Ma che importava una bugia quando potevo far parlare quella bambina. “Prima. Adesso non più. Non credo almeno” spiegai guardandola “Adesso me lo dici il tuo nome?”
“Terry”
“Che bel nome!” alzai una mano per scompigliarle i capelli ma a quel gesto si scostò deviando la mia mano che rimase in aria. Tornò il suo sguardo cupo. “Terry…” non feci in tempo a dir altro che la bambina, proprio come prima, si alzò con le biglie e corse per le scale sino a chiudersi dentro una stanza. Era strano. Era davvero strano quel comportamento. E volevo scoprire cosa le fosse successo per aver quell’atteggiamento. Non ero semplicemente curiosa, volevo scoprire il codice per eliminare la sofferenza di Terry, e ci sarei riuscita.
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Il Diario di una Psicopatica
Horror"Il mio dono è la morte.. e sono qui per donarla anche a te" E' questo quello che crede la Psicopatica. Uccidere è quello che adora fare, e lo fa con grande sentimento... come se fosse davvero il suo modo di vivere. Vivere, uccidendo gli altri.