Avevo bisogno di dimenticare.
Avevo bisogno di distanziare la mia vita dalla città in cui ero nata, vissuta e cresciuta… La città in cui avevo ucciso delle persone, ma specialmente dove avevo ucciso mia madre. Il solo pensiero continuava a darmi la nausea. Per gli altri non avevo sofferto… ma vedere mia madre sofferente e costretta a renderle la libertà, come da mio compito, aveva influito in me dandomi quella sofferenza che non meritavo.
Stavi facendo il lavoro che Cristo voleva… perché dovevo anche soffrire? Perché voleva farmi questo?
O… o forse stavo sbagliando? Forse avevo intrapreso male le volontà di Cristo? Possibile che le avessi malintese?
Fu per questo che partii.
Avevo voglia di cambiare zona, di cambiare me. Avevo voglia di cambiamenti.
Così mi certificai come Sarah, diciannove anni, orfana.
Ero una nuova persona. O, per lo meno, cercai di esserlo.
Silenzio.
Adoravo il silenzio che si fermava, quello che non si muoveva nemmeno un po’. Tenevo gli occhi chiusi, assaporandolo come se fosse cioccolata, come se fosse qualcosa di dannatamente dolce da assaporare sino all’ultimo briciola. Ma sul treno durò molto poco quel silenzio liberatorio. Un bambino, infatti, entrò dentro la mia stanza disturbando il mio silenzio.
Non dissi nulla.
Era solo un bambino di cinque anni.
E continuai a fingere di dormire.
Mi sentivo osservata, dannatamente osservata. E sapevo che il bambino mi stava guardando, mi stava osservando… Per la prima volta mi sentii come quell’uccello che, quasi alla stessa età del bambino, studiai prima di renderlo libero.
“Sei morta?”
Mi venne da sorridere alla voce flebile del bambino, eppure senza un motivo di pudore. I bambini non hanno mai quella vergogna di parlare, di dire ogni cosa senza pensarci. Per questo erano i miei preferiti.
Dovette accorgersi del mio minimo movimento delle labbra perché emise una leggera risata “No, non lo sei…” si avvicinò ancor un po’ a me poggiando la sua piccola manina sulla mia gamba. La sua piccola mano calda, piena di vita, pulsante… sulla mia gamba gelida. “E non stai nemmeno dormendo… Apri gli occhi”
Mi chiesi dove fosse sua madre. Perché l’aveva lasciato solo? Non avrebbe dovuto… Il bambino invece di me avrebbe potuto trovare qualche peccatore, e allora sarebbe stati guai. Con un leggero fastidio, leggerissimo però, aprii gli occhi. Inizialmente vidi il volto del bambino del tutto sfocato, ma chiudendo e riaprendo gli occhi velocemente cominciai a capire meglio i lineamenti del volto. Pelle chiara, capelli biondi a caschetto ed occhi meravigliosamente azzurri. Sembravano tanto color cielo. Il cielo limpido in una serena giornata d’inverno. Gli sorrisi, e lui fece lo stesso.
“E adesso? Perché hai voluto che aprissi gli occhi?” gli chiesi fra l’essere scocciata dal turbamento del silenzio e il simpatico. Ma sicuramente il bambino si era reso conto solo del secondo sentimento, oscurando il primo.
Si avvicinò e si sedette accanto a me. “Voglio parlare. Mio padre dorme e.. lui dorme sempre. Ed io sono sempre solo…”
Non appoggiava nemmeno i piedi per terra, per quanto fosse piccolo. Lo osservai sorridendo.
“Bene… allora parliamo” sussurrai, accarezzandogli la testa.
Di certo non avrei preso io il filo del discorso, ma sapevo già che l’avrebbe fatto il marmocchio accanto a me.
“Perché sei sola? Non hai la mamma e il papà tu?”
E non era proprio il filo del discorso che desideravo prendere. Il mio sguardo cambiò. Il sorriso scomparve, così anche quelle fossette sul volto che mi spuntavano quando sorridevo. Serrai le mascelle per qualche istante socchiudendo gli occhi.
“Non ci sono più”
“Perché?”
Mi voltai guardandolo. Aveva quei occhi così incantevoli… “Perché… Perché il Signore li ha portati con se”
“Umh…” guardò dinanzi a se “.. Dio non deve essere poi così buono come dicono”
Sgranai gli occhi per qualche istante prima di sorridere. Mi ricordai della morte del nonno. Il signore che dava la morte.. il Signore buono… La morte Buona. Erano tutti passaggi della mia mente, passaggi reali. “No… No… Dio è molto buono. Il Signore li porta li sopra per non farli soffrire più, perché li sopra c’è un mondo migliore, una vita migliore…”
“Ma rende infelici gli altri” lo guardai un attimo senza capire. Lo sguardo gli era diventato triste in un sol attimo “La mia mamma è morta quando sono nato. Non l’ho mai conosciuta.”
Pensai che doveva essere strano essere senza una mamma. Senza una persona che ti coccolasse sin da piccolo, che prendesse le tue difese, che ti teneva fra le braccia anche quando eri grande… solo perché glielo chiedevi con gli occhi luccicanti di lacrime. Gli sorrisi, alzai la mano e gli accarezzai i capelli “Ma la tua mamma ti vuole bene lo stesso. Sta li sopra e ti osserva. Ti guarda, ti manda messaggi…”
“Non è vero” scosse la testa facendo agitare quei capelli color sole “Il mio papà dice che sono tutte cazzate” sbarrai lo sguardo. Non tanto per la parola usata – anche, se devo ammetterlo – ma tanto per il padre che aveva detto che tutto questo erano solo delle cavolate. I bambini dovrebbero sapere la verità sin dal principio. I bambini dovrebbero credere a tutto già da piccoli, anche più piccoli del bambino di fronte.
“E tu credi di più a tuo padre?”
Annuì. Sicuramente non aveva altra persona al mondo se non il padre.. ecco perché gli credeva.
Gli sorrisi scuotendo il capo “E tu credigli.. Ma vedrai che tua madre presto o tardi ti manderà un messaggio”
Mi guardò sorridendo, come se fosse estasiato dalla mia risposta. Si inarcò verso di me per abbracciarmi, e lo fece… solo qualche secondo. Restai sospesa, sospesa nel vuoto quasi. Alzai le mani come se il bambino mi stesse puntando una pistola. Rigida nel corpo, proprio come un tronco d’albero. E il bambino non sembrava essere nemmeno un po’ imbarazzato.
“James!” la voce maschile mi fece quasi sussultare. Un uomo sui venticinque anni spuntò dinanzi la porta della camera. Aveva i capelli scuri, gli occhi verdi, carnagione olivastra. Non somigliava per nulla al bambino. Sicuro che egli somigliasse maggiormente alla mamma che al padre. “James, quante volte ti ho detto che non devi disturbare le altre persone?!”
Si avvicinò al bambino che si distaccò da me, guardando il padre con un misto di terrore e vergogna. Guardai prima l’uno e poi l’altro.
“Papà… Papà aspetta…”
“Te l’ho detto un sacco di volte!” lo prese per un braccio strattonandolo quasi facendolo cadere per terra.
Rimasi scioccata. “Sign…”
“Chiedi scusa”
Il bambino mi guardava con gli occhi pieni di lacrime.
L’uomo lo strattonò ancora per un braccio “Chiedi scusa, James!”
“Guardi che … “
“Scusi”
Mi fermai sul bambino. Il labbro in giù, triste. Il volto rivoltò sul pavimento. Gli occhi allagati di lacrime. Mi resi conto che le scuse non erano sincere, semplicemente perché il padre l’aveva costretto a farlo, a chiedermi scusa.
“… non c’era alcun bisogno”, fermai lo sguardo sull’uomo il quale ricambiò. “James non stava facendo nulla di male. Stavamo parlando del più e del meno” gli spiegai continuando a guardarlo.
L’uomo non poté far altro che scambiare lo sguardo dal mio a quello di suo figlio.
“Andiamo” lo voltò prendendolo per mano “E mi scusi ancora…”
Mi dava le spalle, ma riuscii a percepire il suo volto. Serio, sfinito…
Il mondo continuava ad essere pieno di sofferenza.
Il bambino non aveva la madre, e un padre che cercava di educarlo, di farlo venire su bene… senza aver alcun riscontro positivo.
Da questo capii che avrei dovuto cambiare destino. Da questo capii quello che avrei dovuto fare.
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Il Diario di una Psicopatica
Horror"Il mio dono è la morte.. e sono qui per donarla anche a te" E' questo quello che crede la Psicopatica. Uccidere è quello che adora fare, e lo fa con grande sentimento... come se fosse davvero il suo modo di vivere. Vivere, uccidendo gli altri.