Fourteen

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«Se vuoi che a lei non accada nulla, devi pagare, è chiaro? E per essere sicuri che questo pagamento avvenga, non possiamo lasciarti libero, rischieremmo troppo» fissai quell'uomo con disgusto, mentre mi minacciava di potermi via il mio bene più prezioso, mia moglie.
«È sua figlia, cazzo, come può farle questo? Lei ha solo me, non posso lasciarla, non voglio» quasi sbraitai, passandomi una mano sul viso.
«Figurati, le ho fatto di peggio» lui sghignazzò, mentre la mia voglia di ammazzare quel bastardo si amplificava.
«Deve giurarmi che lei non soffrirà, non dev'essere toccata» dissi, a denti stretti.
Lui mi porse la mano, io la strinsi, sentendomi intrappolato all'inferno.

Mi rigiravo di continuo sul materasso scomodo della stanza, sentivo il bisogno di mangiare, ma non sarei riuscito a ingoiare mezzo boccone, mentre i miei pensieri erano rivolti alla ragazza che da l'altra parte dell'oceano si chiedeva dove fossi.
O magari aveva smesso di chiederselo, forse non ero più tra i suoi pensieri, adesso che stava per avvicinarsi il nono mese.
Sentivo le forze abbandonarmi al solo pensiero di lei da sola, in sala parto, senza di me a tenerle la mano, a ricordarle che sarebbe andato tutto bene.
Ridacchiai per tutte le volte che mi ripeteva che  sarebbe stato un incubo mettere al mondo un bambino, che solo il pensiero del dolore la faceva svenire.

Negli ultimi sei anni non ero mai stato così tanto lontano da lei, se non per via di qualche litigata o qualche evento in particolare, ma avevo sempre la certezza che lei, dopotutto, sarebbe stata tra le mie braccia ancora una volta, ma ultimamente questa certezza stava svanendo, come il suo profumo sui miei vestiti, il suo tocco sul mio corpo e il sapore delle sue labbra sulle mie.

Stare lontano dalla persona che ami ti logora dentro, non hai altra scelta che soffrire in silenzio cercando di tenere vivi i ricordi.

Rimasi più di due ore steso nella piccola branda in cui dormivo da mesi, cercando di pensare solo ed esclusivamente al giorno in cui sarei stato libero, libero da ciò che l'amore per Evelyn mi aveva trascinato, perché il vecchio me, quello di sei o sette anni fa, non avrebbe mai amato così tanto da sacrificare se stesso.
In ogni caso la scelta che avevo preso mi faceva stare in pace con me stesso, lei era al sicuro, questo era l'importante.
Improvvisamente però la mia mente si zittì, appena sentii la porta aprirsi.
«Ciao amico» ridacchiò quel bastardi, chiudendo la porta alle sue spalle.
«Abbiamo smesso di essere amici parecchio tempo fa» sbottai io, alzandomi in piedi.
«Giusto, da quando hai deciso di innamorarti della donna che apparteneva a me» intervenne lui, facendomi ribollire il sangue al cervello.
«Sai, ero passato a chiederti se c'è qualcosa in particolare che volevi dire a quella puttana di tua moglie» strinsi i pugni, cercando di non reagire.
«Beh, non le porterò i tuoi saluti allora.»
«Cosa significa?» aggrottai le sopracciglia, sperando per un secondo che non sarebbe andato da lei.
«Vado a portare le mie felicitazioni alla futura mamma, chissà se riuscirà ad esserlo dopo che le farò visita» senza aggiungere altro scappò dietro la porta, chiudendola a chiave.
Scoppiai a piangere, dalla rabbia, dall'impotenza, dalla frustrazione che provavo.
«Brutto bastardo, non erano questi i patti» urlai, sbattendo i pugni sulla porta.
Mi accasciai sul pavimento, l'unica cosa che potevo fare era pregare che non accadesse niente a quella che ormai era la mia famiglia.

Evelyn

Con estrema fatica riuscii ad alzarmi dal divano, appena suonarono al campanello.
Aprii lentamente la porta, per poi pentirmene amaramente.
«Ciao amore» un ghigno si fece spazio sul suo viso.
«Ethan...» sussurrai, senza sapere cosa fare.

...

BENE
IL CAPITOLO È PICCOLO MA TUTTO HA UN SUO PERCHÉ
Spero vi piaccia, continuate a stellinare VI PREGO
vi mando un bacino,
Ev🍂

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⏰ Ultimo aggiornamento: Sep 14, 2017 ⏰

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