3. LA FUGA

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Quando mi ripresi, venivo sballottata su un'auto che viaggiava all'impazzata. Mi trovavo sul sedile posteriore accanto al rapinatore dai capelli rossi che in quel momento, per mia fortuna, era disarmato. Mi sentivo molto confusa, con un pensiero, forse un ricordo, fisso nella mia mente: il vagone di uno dei molti convogli che ogni giorno percorrono la linea verde della metropolitana. Doveva essere l'ultima cosa a cui avevo pensato prima di perdere i sensi. Provai a sollevarmi per mettermi seduta. Battei la testa contro il finestrino.
«Stai giù» ringhiò il pilota di formula uno.
«Dagmos, tienila giù!» sbraitò l'energumeno accanto a lui.
Mi avevano rapita. Non ne comprendevo il motivo, non era così che si facevano le rapine nel 2017; nemmeno in Texas portano via la gente. Provai a dirglielo, ma Pel di Carota mi spinse con la testa sulle sue gambe e mi mise una mano sporca sulla bocca.
«Prova a urlare o a mordermi e ti imbavaglio» disse risoluto.
Non sapevo dove mi stessero portando, né quanta strada avessimo già percorso, ma non mi azzardai a fiatare. Cercavo di fare chiarezza nella mia mente; non c'era un solo motivo che giustificasse quel rapimento. Non ero ricca, non avevo riconosciuto nessuno di quei delinquenti, non ero bella. Ero stata bella venticinque anni prima, ma in quel momento non ero che una quarantottenne in crisi di mezza età da oltre un decennio, che assumeva ormoni per ritardare la menopausa e spendeva un patrimonio in creme antirughe e trucchi miracolosi nel tentativo di sdrammatizzare l'odioso mezzo secolo scolpito sulla faccia. E si scolava litri di birra e vino per annebbiare la vista durante le frustranti sedute davanti allo specchio.
«Ho sete» dissi con un filo di voce. Cos'avrei dato per una Moretti ghiacciata.
Nessuno mi avrebbe rapita per un accesso di passione - tanto meno quei ragazzi che potevano avere la metà dei miei anni - né per estorcere qualcosa alla mia famiglia. Possedevamo solo la casa in cui abitavamo; Giulio era un medico di serie B, io guadagnavo qualcosa con i miei libri; potevamo considerarci tutto, fuorché ricchi. Pensai alla piccola Emma, accompagnata nella classe del doposcuola. Forse a quell'ora avevano già chiamato Giulio. Non avevo la più pallida idea di che ora fosse; era metà maggio, le giornate si stavano allungando e la guida sconsiderata del rapinatore-rapitore non mi aiutava certo a raccapezzarmi.

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