30. IL RISVEGLIO

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SECONDA PARTE

Acqua.
Scorgo dell'acqua, laggiù, oltre il giardino. Gli alberi piangono le loro foglie disperse; i rami spogli ostruiscono in parte la visuale, eppure non vedo che quella distesa liquida. Il resto è solo un contorno offuscato.
Quel blu lontano, scostante, assopito, mi è caro più dell'aria; la sua densità ovattata mi rammenta lo strappo che ho appena subito.
Voglio tornare nel blu. Se solo potessi muovermi.

Anime inquiete mi ronzano attorno; camici azzurri, occhi celesti, capelli rossi vanno, vengono, mi accarezzano; si occupano di ciò che resta di me. Non so chi siano, dove le abbia incontrate, cosa mi leghi a loro; mi sono familiari, ma non troppo; fastidiose, come tutto ciò che eccede in premura.
L'unico punto di riferimento, specchio di ciò che mi è rimasto dentro, polvere di memoria, è quel dipinto oltre la vetrata.
Voglio uscire, scoprire se è reale o il prodotto della mia immaginazione.

Non so se dormo o sono sveglia, non capisco, non ricordo, riesco solo a pensare all'acqua.
Una pietra galleggia, sospesa a mezz'aria; produce un sibilo. Le anime accorrono.
Vuole andare sul lago, dice la donna dagli occhi tristi.
Non so cosa sia un lago.

Mi hanno portato fuori, trascinandomi su una poltrona antica. Quella distesa liquida tra le montagne è a pochi passi da me. Il paesaggio cupo mi ricorda un passato lontano; le case abbandonate, le ombre che proiettano su quella superficie immobile, mi struggono.
Scopro che il dolore mi conforta più del nulla.
Ho una vertigine.

Non so chi sono, come mi chiamo, cosa ci faccio qui. Mi sento sola in un mondo alieno. La pietra verde non si allontana da me, dev'essere un'estensione di questo mio corpo inutile. Tutti la osservano, vogliono guardarmi dentro; smaniano di comunicare con me. Non so rispondere ai loro dubbi, non capisco le loro domande. Ho solo voglia di guardare il mare.
Quello che hai davanti è un lago. Ricordi il mare?
Una strana luce attraversa lo sguardo triste della giovane donna che ho spesso davanti; riconosco la sua voce. Non pensavo si comunicasse così. Non ricordo i comandi di questo marchingegno ottuso che chiamano corpo; sono intrappolata.

Un uomo bruno, grande e grosso, mi saluta allegro.
Facciamo progressi, si complimenta.
Una nostalgia spietata mi attanaglia la gola. Mi manca qualcosa, ferocemente; forse un luogo, una persona. Ho perduto il mio centro.
Questa non è casa mia!
Ho voglia di piangere.

Una di loro ha qualcosa in comune con la mia pietra: il colore degli occhi; un identico verde scuro che sfuma sul giallo. Si avvicina con uno specchio tra le mani, mi chiede se sono pronta.
La guardo, il significato di quelle parole mi sfugge, ma non il suo sorriso tremulo.
Questa sei tu, dice.
Un volto inespressivo, senza capelli, ha un guizzo di stupore osservando se stesso.
Sono io. La persona più sconosciuta e vecchia lì dentro; forse la sorella maggiore di questo gruppo strambo.

C'è bisogno di te, qui, mamma.
Il ragazzo dai capelli rossi risveglia in me un sentimento fastidioso; la rabbia prende il posto della malinconia. Gli darei un pugno sul naso, se solo riuscissi a muovere un braccio.
Ehi, questa mi guarda minacciosa, dice preoccupato.
Al posto suo ti darei un pugno sul naso, conviene la donna con gli occhi uguali ai miei. Forse è mia figlia.
Ti prego daglielo!
La mia pietra rotea, emette un sibilo. La giovane donna colpisce il ragazzo dai capelli rossi.
Bel colpo Smilliu, si complimenta il gigante bruno.
Il ragazzo dai capelli rossi impreca, si tocca il naso.
Adesso siamo pari, mamma. Comunque non è colpa mia.

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