2. LA RAPINA

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Dopo dieci minuti ero ancora lì, così pensai di lasciare l'assegno compilato al cassiere. Lo avrebbe depositato più tardi, con calma. Era un espediente a cui ricorrevo spesso, quando il mio ritardo superava ogni limite o quando la mia claustrofobia rasentava l'attacco di panico; lui mi capiva, ci stava male anche lui lì dentro, forse per questo accoglieva sempre la mia richiesta con un sorriso. Ero convinta che un giorno o l'altro gli sarebbe venuto un colpo apoplettico. Aveva proprio l'aria dell'uomo di mezza età che sarebbe morto d'infarto al primo sforzo, magari mentre spostava un pacco da cinque risme di carta. Era di quelli così molli, che pure un minimo sforzo sarebbe risultato letale se fatto nel momento sbagliato. In un momento di stress magari, e lui lì dentro viveva sotto pressione, glielo si leggeva in faccia. Era un uomo magro ma con la pancia piuttosto voluminosa, un sedentario, ed era sempre agitato. Una volta mi era capitato di sfiorargli le mani mentre gli restituivo la penna che mi aveva prestato per firmare un documento; fu a dir poco disgustoso. Erano fredde e umide come quelle di un morto.
Mi avvicinai cercando di non indispettire i due clienti prima di me, dissi ad alta voce, con evidente disagio: «Scusate, non voglio passarviavanti, lascio solo questo al cassiere e vado; ho una bambina piccola che trapochi minuti esce da scuola».
Giunsi a pochi passi dallo sportello con il mio assegno sollevato; sorrisi al cassiere, il quale mi rispose con uno sguardo pieno di sgomento. Era come sempre sudaticcio ma i suoi occhi sporgevano più del solito e non sorrideva. Osservai la persona che gli stava di fronte: aveva i capelli rossi, l'espressione grave, si voltò appena; puntava una pistola su di lui.
«Scusate, non volevo disturbare, vado... vado, torno un'altra volta» dissi sforzandomi di mantenere la voce bassa e le mani alzate. Dovevo far capire che a me di quella faccenda non importava niente.
Retrocessi verso l'uscita con le gambe divenute di gesso, senza distogliere lo sguardo dall'arma. Tra i pensieri confusi che iniziarono ad affollarmi la mente, ve ne fu uno molto lucido: come aveva fatto, quell'uomo, a entrare in banca con quel pezzo di ferro? Quando per sbaglio dimenticavo le chiavi dell'auto in tasca, il sistema mi rimbalzava senza pietà. Si trattava, forse, di una pistola giocattolo?
«Abbassi le mani» ordinò l'uomo piazzato davanti alla porta d'ingresso, contro cui imbattei di spalle. Mi scostai subito.
«Scusi, non volevo travolgerla» dissi mortificata.
Impiegai qualche istante a realizzare che si trattava di uno dei due uomini in fila prima di me, un complice.
«Si sieda e non le succederà nulla» continuò serio.
Guardai l'altro uomo seduto in sala d'aspetto, pallido e angosciato.
«Mia figlia esce da scuola» farfugliai, poi svenni.

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