10. EMMA

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«Mi dispiace ma dobbiamo farti sparire» proruppe Burel, il capobanda.
«Che tesoro, volevi rassicurarmi?» risposi sarcastica.
«È stato un grave sbaglio portarti via con noi, lo ammetto. Ma non trovo una soluzione, non so come rimediare» imprecò.
«Mollami su una strada qualunque» gli suggerii «ecco la soluzione! È facile, sai? Senti, mi dispiace per il tuo errore, capita di sbagliare nella vita, fattene una ragione, ma io devo tornare a casa.»
La mia povera bambina. Non pensavo ad altri che a lei. Cosa avrei dato anche solo per accompagnarla un'ultima volta a scuola, o dal logopedista, o a mangiare patatine fritte da Mc Donald. Davo così per scontati i momenti trascorsi insieme e adesso erano proprio quelli, i momenti normali, a mancarmi terribilmente. E poi ero andata via senza salutarla.
Ripensai al giorno della sua nascita, quando rischiai di morire subito dopo averla data alla luce. Nacque tra dolori atroci; quando la vidi spuntare dall'alto, tra le braccia dell'ostetrica si sentiva ancora l'eco delle mie urla.

Forse mi trovavo davvero in punto di morte, forse stavano per uccidermi davvero, perché rividi come un film il giorno della nascita di Emma.
Avevo trascorso tutto il giorno sul divano a rifinire l'ultimo dei tre fiocchi per la sua nascita; ero fuori di me: alla veneranda età di quarantadue anni, oltre a essere lì lì per far nascere la mia prima figlia, mi ero messa a ricamare. Mi dilettavo con il punto croce e la mia pancia cambiava forma, si stava come appiattendo e abbassando... e poi quel bruciore di stomaco mi aveva proprio insospettita, tanto che avevo avvisato Giulio di prepararsi.
«Manca più di un mese» mi aveva fatto notare lui. Ma ruppi le acque in piena notte; lo svegliai che si era appena addormentato, «te lo avevo detto» dissi, scegliendo la peggiore delle frasi e ci precipitammo in ospedale.
Mi accompagnarono in sala travaglio dove mi consegnarono i braccialetti, uno dei quali, più che minuscolo, era per Emma. Uno era il mio, l'altro di Giulio che mai come in quel momento sentivo di amare con tutto il cuore. Mi attaccarono il monitoraggio e lui si accovacciò in un angolo di quella stanza. Venni assalita da una tristezza infinita, mi resi conto di quante volte avevo dato per scontate le nostre notti abbracciati e fuori dal mondo... anche allora, avrei dato qualunque cosa per poter trascorrere un'ultima notte sola con lui, nel nostro letto.
Come ho potuto dimenticare tutto quell'amore in così pochi anni?
L'ostetrica mi suggerì di dormire, sarebbe stato un travaglio lungo, ma io non mi sarei persa neanche un istante di quel giorno.
«Sta per nascere mia figlia e io posso fare tutto, tranne che dormire.»
Restammo svegli, in timida attesa fino all'alba, ma non successe nulla. Non avevo alcun dolore, se non qualche sporadico mal di pancia; infatti non mi dilatavo.
Mentre le altre donne continuavano a partorire tra urla strazianti, io speravo che arrivasse presto il mio turno. Preoccupata da quegli acuti disumani, ma lucida; aspettavo.
«Sei programmata per questo» mi suggerì Giulio, tentando di rassicurarmi.
Verso il tramonto, l'ostetrica mi propose l'epidurale, che rifiutai. In quel momento mi spaventava di più un ago infilato nella schiena che il parto in sé.
Persi la cognizione del tempo, mi trasferirono in sala parto e lì non c'erano finestre. Iniziai a soffrire davvero. Con Giulio iniziammo a scaricare il dolore con i vocalizzi, come mi avevano insegnato al corso di preparazione al parto.
«Arriva, arriva... AAAAAAAAAA»
«Arriva, arriva... EEEEEEEEEEEEE»
I dolori si fecero così intensi che iniziai a piangere e tremare.
Giulio chiamò l'ostetrica che aveva appena cambiato il turno... una ragazza di vent'anni.
Appena mi si avvicinò le vomitai addosso. Soffrivo da morire, il dolore arrivava a ondate.
Entrò un medico con un gruppo di studenti; gli mostrò i dolori del parto. Feci di tutto per non terrorizzare i ragazzi, ma non ci riuscii. Quel dolore mi mandava fuori di testa, non c'era più alcuna sosta tra una contrazione e l'altra. L'onda anomala che mi aveva terrorizzato nei sogni, fin dall'infanzia, era arrivata.
Giulio mi sussurrava parole di conforto, avrebbe voluto esserci lui al mio posto.
Dov'è finito tutto quell'amore?
«Ricordati che sei una guerriera» mi incoraggiava, senza che io riuscissi più a capire il significato di quelle parole.
Ricordo che non lo vidi più. Non vidi più niente, tranne una luce abbagliante; doveva esserci un faro puntato sulla mia testa e quel dolore inspiegabile, insopportabile... scricchiolai. Venti ossa mi si spezzano contemporaneamente. Il dolore divenne un'onda interminabile: fu devastante. Urlai con una voce distante... la mia anima si era rifugiata in qualche angolo di quello sgabuzzino. Qualcosa mi trafisse all'altezza del ventre, senza pietà, e io non ero più una donna, ma dolore allo stato puro.
«Smettila di urlare, spingi!» mi esortò l'ostetrica.
Il bisogno di liberarmi da quell'orrore fu tale che spinsi con tutte le forze che avevo; in pochi istanti la piccola fu fuori.
Ricordo il silenzio.
Non udii nemmeno il suo pianto.
«Se alzi la testa la vedi.»
«Vedo cosa?» chiesi.
Non sapevo più chi ero.
Vidi Giulio piangere.
«Non la voglio vedere!» ringhiai.
Nessuno dovrebbe soffrire in quel modo.
Poi la vidi sbucare dall'alto, sorretta da due braccia. Se ne stava lì, penzoloni, la mia bambina. Con le gambe e le braccia lunghe, il faccino tondo, i capelli bagnati... i capelli! Quanti capelli! Quante volte l'avevo sognata, quanti anni erano trascorsi da quando era sbocciato in me il bisogno di avere un figlio.
Me la appoggiarono addosso.
«Ciao AMORE...» le dissi, chiamandola per nome e lei, quella meraviglia rannicchiata sul mio seno, incazzata quanto me, che tossiva e sputava sangue, smise di piangere. Smettemmo di tremare insieme. Ci scaldammo e ci calmammo; tornammo a essere una cosa sola, questa volta guardandoci negli occhi. Mi persi in quegli occhi, neri come lo spazio infinito dal quale proveniva, che mi guardavano curiosi, che riconoscevano il mio respiro, la mia voce.
Espulsi la placenta senza accorgermene. Non sentivo più nulla, si era creata una bolla magica dentro cui aleggiavamo io e lei, e nessun altro; nemmeno al dolore fu consentito di entrare.
Quando alzai lo sguardo mi accorsi che c'era troppa gente intorno a me, i medici e gli infermieri continuavano a entrare. Il ginecologo di turno imprecò. Fece chiamare l'anestesista. Mi portarono via la bambina, sorridevano tutti nervosamente, chiaro segnale che qualcosa era andato storto. Ma almeno mi avevano permesso di salutarla.
Avevo potuto dirle: «Ciao, amore.»
Emma, la mia "Portata dal vento", mi aveva sfasciato per venire al mondo, ma quando la vidi planare dall'alto, dimenticai ogni dolore. Avevo trascorso una vita a inseguire l'amore, a cercarlo in un letto, in una canzone, ed eccolo lì, invece, con i suoi immensi occhi neri.
Quando me la portarono via, per operarmi d'urgenza, le dissi "ciao". Le diedi un bacio. Non sapevo cosa stesse accadendo, sentivo che avrei potuto morire; avevo perso oltre due litri di sangue, ma sarei morta per lei.

«Lasciate che la saluti, almeno» dissi ai tre rapitori.
Piansi. Odiavo farlo davanti alla gente. Piangere significa mostrare la propria debolezza, svelarsi intimamente e non tutti sono degni di assistere a un simile evento. Raro per altro, almeno per quanto mi riguardava. Ma la tristezza per Emma si impose violenta. Dovevo buttarne un po' fuori.
Il pensiero di Giulio, così affettuoso, così premuroso, mi confortò. Avrebbe consolato lui nostra figlia, avrebbe inventato la bugia giusta per giustificare la mia scomparsa. Giulio, così buono, uno spirito eccelso. Le amiche lo prendevano a esempio quando parlavano di un brav'uomo. Quando litigavano con i mariti non dicevano: «Comportati bene», dicevano: «Comportati come Giulio!» E io ho sempre riconosciuto questa sua grandezza, questa sua gentilezza. Avrei potuto sposare solo lui. Come avevo potuto credere di non amarlo più? Il sentimento impetuoso che ci aveva uniti vent'anni prima e che ci aveva accompagnati nel tempo si era affievolito. Forse era solo invecchiato, come noi.
I sentimenti che invecchiano, ecco la vera tragedia umana, altro che la morte.
L'abitudine aveva placato i sensi, ma non l'amore. Fu illuminante.
Dovevo essere rapita da tre deficienti che si spacciano per viaggiatori del tempo, per capirlo.

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