Capitolo 2.

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Nelle precedenti ventiquattro ore avevo prestato attenzione solo ed esclusivamente alla cartella che mi era stata consegnata dal professor Brown. Al contrario di quanto possa sembrare, però, tutto ciò che ero stata in grado di leggere era un breve, piccolo paragrafo riguardo il crimine commesso. Avevo saltato il foglio riguardante l'identità del mio cliente, avevo risparmiato il paragrafo circa i suoi possibili precedenti reati: la sola cosa sulla quale avevo posto concentrazione era stato quel dannato omicidio, descritto nei minimi dettagli e particolari.

Parole su parole riguardanti la sua colpevolezza, un'arma da fuoco, due vittime sulla scena del delitto, un vicolo cieco. Un brivido fatto di strane sensazioni mi travolse non appena riflettei su quel ragazzo, su come avesse potuto compiere un atto simile, su come debba essersi sentito subito dopo. Doveva trattarsi di un mostro, cos'altro? Quale persona sana di mente avrebbe la forza e il coraggio di uccidere qualcuno? Un altro essere umano?

Per questa ragione quel pomeriggio mi strinsi nella mia giacca a causa di un'improvvisa paura che mi colpì fugace, quando a gambe levate chiuso lo sportello della mia auto e mi avviai verso l'entrata della prigione. Era vero, avrei con piacere ceduto il mio posto a qualcun altro se solo il professor Brown me l'avesse concesso. Eppure eccomi qua, quasi addirittura terrorizzata ancor prima di poter anche solo provare. Entrai difatti nella sala d'ingresso con lo sguardo basso, uno sguardo di timore che sollevai soltanto nel momento in cui fui costretta a fronteggiare un poliziotto. Non era il mio ambito quello, non sapevo con esattezza cosa dire o cosa fare.

-Salve, io... mi manda il signor Christopher Brown.- Annunciai dunque balbettando, nella speranza che l'ufficiale potesse comprendermi al volo. Il mio disagio poteva notarsi da lontano un miglio.

-Ah.- Sbuffò allora l'uomo di fronte a me, sospirando pesantemente contro il vetro che ci divideva. -Lei deve far parte di quel progetto universitario. Mi segua.-

Dopodiché, palesemente annoiato da quella situazione a detta sua inutile, uscì dal suo piccolo ufficio e mi consegnò un cartellino da appendere al petto a segnalare che non fossi nient'altro che un visitatore, poi mi guidò verso una zona dell'edificio a me sconosciuta. Fra porte e corridoi, tutte di uno spento grigiastro che sembrava urlare morte da tutti i lati, il poliziotto mi ordinò di consegnarli la mia cartella così da potermi meglio suggerire.

-Bella rogna.- Si espresse poi, una volta letto il nome nel fascicolo. -È stata assegnata a Michael Clifford.-

Dannazione, le sue parole non aiutarono di certo a tranquillizzarmi. Per questo -Cosa intende dire?- chiesi all'uomo al mio fianco, ancora intenta a stare al suo passo.

-Buona fortuna, la sta già aspettando.- Disse semplicemente lui prima di aprire una porta alla mia destra e condurmi all'interno della stanza. -Io sarò qui fuori.- Acconsentì infine mentre chiuse lentamente la porta, a mo' di consolazione.

Una volta sola, decisi finalmente di dare un'occhiata intorno. Era una minuscola stanza chiusa da quattro mura rovinate e scrostate, non molto differenti dalle precedenti. Il pavimento grigio sembrava poter rallentare i miei passi con lo strano potere di inchiodare i miei piedi su di esso. Al centro della sala vi era solamente un piccolo tavolo bianco, con una sedia in ognuno dei due lati.

Fu a questo punto che alzai completamente lo sguardo e mi trovai faccia a faccia con lui, l'assassino. Dio, era così giovane. Aveva gettato la sua vita per cosa... vendetta, cattiveria, rabbia? Ne era davvero valsa la pena? Furono questi i pensieri che mi portarono a guardarlo in modo critico, con una sorta di paura nei suoi confronti. Rimasi infatti immobilizzata per dei lunghi secondi, senza dire o fare niente, con la vana speranza di poter uscire immediatamente da quel posto e fare ritorno al mio appartamento.

Snuff | Michael CliffordDove le storie prendono vita. Scoprilo ora