Capitolo 21.

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Avevo lasciato l’appartamento di Calum solo cinque minuti prima, portandomi appresso quanto più coraggio riuscissi a racimolare. Ciò che mi aveva consigliato Cal era sicuramente la cosa giusta da fare e, in un modo o nell’altro, me ne ero resa conto anche io. Allora perché, se dapprima mi era sembrato tutto semplice e sbrigativo, adesso avevo un’enorme fitta al cuore provocata dalla paura? Il punto era che temevo di essere nuovamente respinta da Michael senza alcuna ragione e, per quanto fosse difficile per me ammettere che questo avrebbe fatto male, non riuscivo a liberarmi da tale pensiero.

Per questo scrissi a Luke senza pensarci troppo, così da non potermi più tirare indietro. Gli chiesi se sapesse dove potesse essere Michael e sperai in tutta me stessa in una risposta affermativa. Il suo messaggio non tardò ad arrivare.

“Mike è ai servizi sociali a dare una mano”.

Giusto, i lavori sociali. Ero davvero curiosa di scoprire in che modo Michael stesse aiutando il prossimo, così curiosa di vederlo per l’ennesima volta distruggere tutti i miei iniziali pregiudizi nei suoi confronti. Se fosse la Bethany di quasi due mesi prima a parlare, direbbe che uno come Michael Clifford preferirebbe marcire in prigione ancora un po’ piuttosto che abbassarsi ai livelli dell’altruismo. Dio, quanto devo esser stata ridicola.

Ad ogni modo, speravo che Michael avrebbe trovato del tempo per me. Misi quindi in moto la macchina e guidai verso l’indirizzo dettatomi da Luke, un posto che fino a quel momento non avevo avuto modo di conoscere. Ci misi un pezzo ad arrivare ma, quando finalmente parcheggiai e mi chiusi lo sportello alle spalle, un enorme edificio marrone mi si parò davanti. Sembrava potesse crollare da un momento all’altro, tenuto insieme soltanto da uno sputo. Come se lì fosse concentrato lo scarto umano di cui poco importava al resto della popolazione benestante della città. Era triste.

Dovetti sforzarmi un po’ per mettere da parte il mio disgusto nei confronti di questo spettacolo fatto di mattoni scorciati, mura perforate, finestre bucate e chi più ne ha più ne metta e, alla fine dei conti, riuscii ad entrare al suo interno e vi trovai un’infinita quantità di tavoli e persone ammassate quasi l’una addosso all’altra come carne al macello. Provai ad orientarmi meglio cercando con lo sguardo qualcuno che potesse far parte del personale e, quando notai con sollievo delle donne appostate dietro un lungo bancone, mi avvicinai a loro. Inutile dire che molti dei presenti cominciarono a squadrarmi dalla testa ai piedi, forse perché ero un volto nuovo o forse -molto più probabilmente- perché lasciavo facilmente intendere di non appartenere a quel posto. Mi sentii come un pesce fuor d’acqua, nel senso letterale della frase. Il più fortunato, là dentro, si riparava dal freddo con una piccola coperta sgualcita e consumata dal tempo. Provai un’insistente sensazione di compassione nei loro confronti, poi squadrai per bene il mio vestiario e mi resi conto di quanto inutili, in realtà, fossero metà degli indumenti che indossavo. Quei guanti touch-screen che avevo comprato per poter utilizzare al meglio il cellulare, ad esempio. “Beh”, ricordai. “Questa è la ragione per cui studio legge, per poter un giorno aiutare la gente”.

Ancora assorta nei miei pensieri, continuai a camminare verso il bancone ed una volta giuntavi mi piazzai di fronte ad esso. Feci per chiedere a qualcuno informazioni riguardo un nuovo arrivato, ma fui costretta a bloccarmi non appena scrutai Michael sbucare da una piccola porta dietro la postazione. Si raggelò all’istante non appena anche lui si accorse della mia presenza, maledicendomi sicuramente con il pensiero per poi tornare a lavoro come se niente fosse. Lo vidi sistemare del cibo all’interno di alcuni recipienti in plastica con la massima attenzione, come se da ciò dipendesse la sua intera esistenza. E un po’ era così. Poi, rimanendo al di là del vetro che gli copriva per metà il viso, si rivolse a me in un sussurro.

Snuff | Michael CliffordDove le storie prendono vita. Scoprilo ora