Capitolo 10.

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Michael terminò il suo racconto con la disperazione a fare da padrona sul suo volto, quando, a trenta minuti dall'inizio, si ammutolì per l'incapacità di proseguire. Seguirono dei lunghissimi istanti di silenzio durante i quali il ragazzo, quasi incredulo delle cose appena narrate, si portò le mani sul viso in modo tale da coprirsi gli occhi, imbarazzato dalle lacrime che minacciavano di uscire. E proprio quando queste lacrime cessarono di trattenersi ed esplosero in una cascata di malinconia e rancore, pochi secondi più tardi, capii il motivo per il quale Michael non aveva mai parlato di quella notte con così tanta facilità. Non era solo una questione di fiducia, no: rivivere la perdita del suo migliore amico tramite un racconto era come tornare indietro nel tempo e ricominciare tutto da capo, partendo da un'iniziale sensazione di spensieratezza pronta a trasformarsi in tragedia da un momento all'altro.

E mentre Michael piangeva immobile lì di fronte a me e i suoi singhiozzi colmavano la stanza, io desiderai di non aver mai sentito il suo racconto. Per una semplice ragione: nonostante poco prima fossi vogliosa di sentirlo parlare alla ricerca di qualcosa che avrebbe contribuito a renderlo umano, magari a giustificarlo, di certo non mi sarei mai aspettata una cosa del genere. E fui spaventata dal mucchio di sentimenti che mi inondò, come una tempesta arrivata all'improvviso incapace di lasciarmi scampo. Se qualche settimana fa ero convinta che mai e poi mai avrei potuto giustificare un assassino, adesso non ne ero più tanto sicura. Ma era proprio questo a spaventarmi, l'improvvisa comprensione che provavo nei confronti di Michael. Questo faceva forse di me un... mostro? Un'ingenua?

Non avevo risposte a questo mio istintivo cambio d'umore, eppure in fondo non volevo neanche cercarle, delle risposte. Col sottofondo del pianto spezzato di Michael mi resi conto di una cosa: io non ero un mostro, quel ragazzo con una disperata storia alle spalle non lo era. E andava bene così.

-Scusa, è imbarazzante.-

Ad interrompere i miei pensieri fu proprio la voce debole di Michael che, dopo un lungo e necessario sfogo, aveva finalmente trovato la forza di esprimersi.

-È la prima volta, dopo...- Continuò dopo, indicando con le mani i suoi occhi tempestati dalle lacrime.

Non lo lasciai proseguire in quanto avevo già intuito ciò a cui si riferisse, piuttosto -Non devi preoccupartene, non è imbarazzante.- lo rassicurai.

E gli rivolsi un lieve ma sincero sorriso, mentre le mie mani si poggiarono lentamente sulle sue come a volerlo consolare. Moltissime volte avevo respinto nella mia mente il pensiero di un contatto simile, eppure questa volta, in queste circostanze, sembrò così dannatamente giusto. Michael aveva bisogno di aiuto più di chiunque altro nei dintorni, più di quanto ne necessitassi io con i miei accumuli di ansia e stress.

-Come ti senti adesso?- Gli domandai dunque quando, nonostante avessi di nuovo preso in mano la mia penna, l'unica cosa di cui mi importò davvero fu cacciare fuori le sue emozioni. Le emozioni di una persona buona.

Il ragazzo parve pensarci un po' su, con un groppo in gola che si ostinava a non uscire, eppure qualche istante dopo parve raccogliere tutta la sua forza ed impiegarla per rispondere alla mia domanda.

-Direi... vuoto.- Ammise infatti, sospirando appieno come chi si è appena tolto un enorme peso dallo stomaco. -Nel senso buono del termine, però. Non mi sono pentito di essermi sfogato con te.- Tirò su col naso con lo scopo di ricomporsi almeno un po'.

-È un bene.- Confermai dunque io, cominciando subito dopo ad appuntare qualche dettaglio in più sul mio block-notes.

Michael mi scrutò a lungo, forse nel tentativo di cogliere qualcuna delle parole che stavo buttando giù nero su bianco. Non a caso -Si tratta di me? Che stai scrivendo?- cercò di informarsi poco dopo, una volta resosi conto di non riuscire a sbirciare dalla sua postazione.

Snuff | Michael CliffordDove le storie prendono vita. Scoprilo ora