16 Prima dichiarazione

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Si asciugò gli occhi con la manica del cappotto, osservandosi intorno, sperando che nessuno lo avesse visto. Il cartellone delle partenze, aveva iniziato a riempirsi di scritte azzurrine, segno che forse il suo aereo stava atterrando. Livai tentò di scacciare la sensazione di nausea che gli invadeva il palato e la gola, deglutendo. Strinse più forte il manico della valigia. Era l'ora. Avanzò di qualche timido passo, aumentando il ritmo per mettersi in fila con gli altri passeggeri. Fortunatamente la coda non era molta, quindi sarebbe riuscito a passare senza dover attendere troppo. L'attesa gli avrebbe portato altri ricordi, pensieri, esitazioni. E lui, ormai troppo stanco di quella vita, per la sua giovane età, non voleva guardarsi indietro nemmeno un'ultima volta.

Aveva già sopportato troppo, il dolore, il segreto, il suo tentativo di autodistruggersi sempre costante. Voleva scappare, da tutto e tutti quanti, lasciando solo una debole traccia del suo passaggio, che presto sarebbe stata dimenticata. Gli doleva solo, aver dimenticato il suo prezioso bracciale da Irwin. Ma oramai non avrebbe avuto modo di tornare a prenderlo, né di incaricare qualcun altro, dato che non avrebbe mai fatto ritorno in quella città. Ma non importava, sua madre non era il ricordo di un bracciale dal nastro consunto. Alzò con fierezza il volto, estraendo dal portafoglio il biglietto e la carta di identità. Di fronte a lui, c'erano ormai poche persone, e un uomo dall'aria annoiata e il volto scarno, analizzava i biglietti e le valigie. Livai fece qualche passo avanti, frettoloso ed impaziente. L'ansia ormai lo attanagliava senza ritegno. Perfino le sue mani sudavano freddo. Strinse il biglietto tra le dita con maggior vigore, quando di fronte a lui, scorse la divisa dell'uomo. C'era quasi...

E poi, di colpo, qualcosa accadde. Non seppe mai cosa fosse stato, un istinto primordiale che lo portò a voltarsi indietro, quando aveva giurato di non farlo. E fu buffo, perché tra tutti i posti in cui i suoi occhi avrebbero potuto depositarsi, trovarono immediatamente l'oggetto del loro desiderio.

Affannato, con il trench stropicciato e una cera pallidissima, Irwin lo stava fissando con disperazione. Livai sentì il proprio sangue gelare, mentre veniva spinto avanti dalla fila. I loro occhi erano incatenati, e tutto quello che c'era, attorno a loro, svanì. Un fremito di eccitazione e desiderio si risvegliò, ma Livai lo soffocò prontamente. Non poteva dimenticarsi di quello che gli era stato fatto. Non poteva perdonare.

Distolse lo sguardo, arrabbiato, ma non riuscì a non guardare nuovamente il suo professore, quando questo fu abbastanza vicino a lui da permettersi di sfiorarlo. Erano separati solo da un nastro divisorio blu, una protezione troppo leggera per permettergli l'indifferenza che desiderava. "Vattene" sbottò, ritraendosi dalla sua mano. Irwin prese fiato, ma la sua condizione aveva già attirato gli sguardi delle persone in fila dietro di lui. Livai lanciò loro un'occhiataccia, poi tornò a rivolgere la sua attenzione verso l'uomo. "Non mi hai sentito? Voglio che tu te ne vada, e non toccarmi cazzo!" ruggì, quando Irwin tentò di toccarlo nuovamente. L'uomo tossicchiò, appoggiando le mani sulle ginocchia tremanti. "Cosa ci fai qui? E come sapevi che dove mi trovavo?". La fila davanti a lui si era notevolmente ridotta. Livai concesse a una comitiva di ragazzi di passare, e rimase fermo e altezzoso a scrutare il suo professore ansimare. "Allora? Non ho tutto il giorno. Devo andarmene."
Due iridi cristalline e impaurite si alzarono verso di lui. "Non farlo. Non andare."

Livai restò di sasso, mentre Irwin ricominciava a tossire. Come osava chiedergli una cosa tanto dolce, dopo averlo trattato in quel modo? Come poteva mostrarsi intristito, proprio lui, che era stato carnefice e non vittima! Si premette le unghie contro la carne dei fianchi, sentendo l'ira nascere. "Irwin Smith, non osare fare questa fottuta sceneggiata! Se tu non mi avessi fatto questo, non sarei qui ora." La sua voce si incrinò, nel pronunciare quella frase. Cazzo!
Intanto, un poliziotto si era avvicinato loro, e li fissava disorientato. "Va tutto bene qui?" chiese, lanciando uno sguardo all'uomo affaticato, passando poi a lui. Fu Irwin a intervenire, cercando di apparire calmo nonostante il pallore evidente della pelle. "Si, ci scusi. Il ragazzo ha dimenticato una cosa e sono corso per dirglielo."
L'uomo aggrottò le sopracciglia. "Ah, capisco, ma piuttosto, non potrebbe far passare indietro il ragazzo rispetto al resto della fila? State creando problemi con lo scorrimento."
Irwin fissò Livai, speranzoso. "Certo...è una questione di dieci minuti. Solo dieci minuti "ripeté, e il tono della sua voce gli parve disperato. Livai si accorse di avere gli occhi del poliziotto premuti addosso. Si schiarì la gola, cercando di non lasciar trapelare le emozioni che si agitavano dentro di lui. "Perfetto, mi metto in fondo alla fila." L'uomo annuì. "Si sbrighi, però, altrimenti rischierà di perdere il volo."

Akai ito (La leggenda del filo rosso)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora