7 Primo bacio

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Gettò la testa all'indietro, lasciando fluire l'ennesima e lenta, boccata di fumo. La sigaretta rigirata continuamente tra le dita, in bella mostra, era più l'ennesimo dispetto per la persona che lo stava facendo attendere da una mezz'ora piena, piuttosto che per un reale bisogno di nicotina. In altri momenti, il richiamo del preside durante l'orario scolastico, lo avrebbe allarmato e messo in guardia, dal momento che nessuno dei due ci teneva più di tanto a far notare la propria parentela con l'altro, nonostante quest'ultima fosse del tutto evidente. Ma quel giorno, non riusciva a togliersi di dosso la sensazione di un candido torpore, che sentiva forte nelle braccia scoperte e nel petto. Inizialmente, aveva attribuito quella sensazione alle ore di sonno avute, che seppur poche, erano state piene e prive di incubi, ma con il passare del tempo, durante il suo tragitto a piedi e in metropolitana, si era riscoperto a pensare più volte ad una certa persona. Non si sentiva in colpa per aver abbandonato il tugurio di casa di Irwin Smith, senza avvertirlo o ringraziarlo (che poi diamine, gli aveva perfino riordinato casa!), e non si era nemmeno preoccupato del disturbo che effettivamente gli aveva dovuto causare quella notte, o dei programmi che gli aveva rovinato. (Che poi, a pensarci bene, cosa ci faceva uno come lui in un pub? Cos'è, doveva vedersi con una chierichetta sorseggiando acqua frizzante?).

 Il problema reale, era l'aver ricevuto delle cure da Irwin Smith. L'essersi lasciato toccare e prendere in braccio. L'aver pianto di fronte a lui. L'aver indossato un suo indumento per la notte e avergli dormito accanto. Se la sua mente, col passare delle ore e il ritorno della lucidità, non si era concessa di avere altri ricordi nitidi, era sicuramente perché l'imbarazzo nel ricordarli sarebbe stato troppo. Lui era Livai, non mostrava la sua debolezza a NESSUNO, e mai lo aveva fatto, dopo la morte di sua madre. Aveva sopportato, stringendo i denti, lottando sempre da solo, confidandosi solo con il suo unico amico Lawr. Aveva cercato di non provare repulsione per il sesso, dopo quell'accaduto, vomitando dopo ogni amplesso, ma continuando a eseguirlo per togliersi dalla testa quelle cazzo di immagini che la notte tornavano ancora a tormentarlo. L'unica cosa che non era stato in grado di superare era la sensazione delle sue mani mentre toccavano la pelle nuda, mentre entravano in contatto con la vita, con la carne e il sangue delle persone. Ricordava solo due sensazioni, una più orrida dell'altra, prima della sua decisione di mettere dei guanti e usarli come protezione dal mondo esterno. La prima di queste, era il ricordo delle sue dita mentre sfioravano la guancia morta e gelida di sua madre dentro la bara, poco prima della cremazione. A quei tempi, non aveva mai conosciuto suo padre. E nemmeno i suoi fratellastri, che invece abitavano con lui e la sua compagna. 

La seconda, era stata quella volta. Mani fredde che lo ghermivano con una presa d'acciaio, e di contrapposto, un corpo bollente, madido di sudore, animalesco, che grugniva e si agitava sopra di lui. Ricordava l'appiccicume, le sue gambe nude mentre erano scivolate nella sua stessa urina. La sensazione fastidiosa, di più liquidi seminali sparsi sul suo petto e sul suo viso. Era stato questo, l'ultimo punto, che aveva portato in lui la paura di toccare ed essere toccato. Repulsione, disgusto, odio. La morte e la vita delle persone, il loro calore o gelo, il loro sangue e il loro sudore, persino i loro umori, tutto sarebbe stato staccato da lui grazie a quella barriera protettiva. 

Nessuno...Tranne Irwin Smith. E aveva abilmente scavalcato quella invisibile barriera, senza alcuna fatica, seppur senza sapere nulla di lui e del suo passato. Lo aveva fatto con naturalezza, la spontaneità e l'ingenuità di un bambino, in un modo così pacifico e privo di intenti che perfino lui era stato incapace di reagire. Chiuse gli occhi, inspirando nuovamente il tabacco, lasciandolo fluire in lenti e graduali cerchietti. Aprì un occhio, soltanto quando udì la porta aprirsi e vide suo padre far capolino nella stanza. Appena lo individuò, serrò la mascella contrariato. Sia per la nuvola di fumo che si era generosamente espansa, sia per la posa sconveniente, ma ben calcolata, in cui si era fatto cogliere. (Postura floscia sulla poltrona, gambe divaricate sulla scrivania, testa all'indietro con un solo occhio aperto e braccio molle con la cenere della sigaretta che sporcava il pavimento). Lo osservò mentre chiudeva la porta. Studiò con disgusto il suo completo blu notte, i mocassini in pelle, il taglio di capelli perfettamente ordinato. Tutto in lui puzzava di falso e naftalina, perfino la sua camminata mentre gli si sedeva di fronte, sembrava essere innaturale. Le sue mani incrociate e appoggiate sul legno, erano curate, le unghie ben pulite. Sogghignò, aprendo con nonchalance anche l'altro occhio. "Quale onore, preside. Finalmente mi degna della sua presenza."

Akai ito (La leggenda del filo rosso)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora