03. Always the fugitive

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Nel tempo della mia permanenza sulla Terra, priva di un qualsiasi amico o di una qualsiasi gradita compagnia, giunsi alla conclusione di quale fosse la peggior maledizione che una creatura mai potesse esser costretta a sopportare

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Nel tempo della mia permanenza sulla Terra, priva di un qualsiasi amico o di una qualsiasi gradita compagnia, giunsi alla conclusione di quale fosse la peggior maledizione che una creatura mai potesse esser costretta a sopportare. Niente fiamme, niente torture fisiche o psicologiche... solamente la solitudine.

La solitudine, infatti, negli anni che trascorsi senza un appiglio sulla terra dei mortali, tentò più volte di condurmi sulla strada della follia. Non mancava giorno in cui m'imponessi di non dar corda a quella sorda sofferenza, conscia che - se mi fossi abbandonata all'autocommiserazione - non sarei mai stata in grado di portare a termine il mio compito.

Per questo avevo cominciato a scrivere. Nelle ore perse, mentre attendevo di potermi rimettere in marcia, afferravo i fogli e i quaderni che avevo rubato e con una calma che non ricordavo d'aver mai posseduto vi imprimevo parole d'inchiostro rosso. Scrivevo poesie, narrate in chiave melodica, inni alla solitudine che provavo dentro di me, per esorcizzarla in qualche modo.

Ero sicura che, se mai uno qualunque di coloro a me cari fosse stato capace di raggiungermi, non l'avrei reso partecipe delle mie creazioni, semplicemente perché non ero - e non credevo lo sarei mai stata - pronta a condividere e mostrare come davvero mi sentissi.

Quando era il momento di riposare facevo in modo di rifugiarmi in anfratti oscuri e di tenermi al caldo, in attesa di raggiungere la mia meta, con il primo e unico corvo a me giunto costantemente al mio fianco. Di notte ammiravo le stelle e osservavo la volta celeste immaginando, un giorno, di potervi fare ritorno, di metter piede nel luogo in cui ero nata, dove la mia vera vita si era svolta e si era conclusa per una scelta che sarebbe spettata a me soltanto.

Ogni parte del mio corpo desiderava essere in sintonia con il mondo che lo circondava, mentre la mente sognava di poter dimenticare tutto quel ch'era successo e ricominciare da zero, come Dio si sarebbe aspettato io facessi. Forse, avevo perduto la parte migliore di me, cadendo dal Paradiso, ed era per quella ragione che, dai miei antri di tenebra, volgevo gli occhi scuri al firmamento, conscia di non essere più degna di poterlo sfiorare di nuovo. Era tutto quel che sapevo della nuova me.

Mi sentivo come se, all'interno del mio petto, nel momento in cui avevo sollevato le palpebre stesa su quel litorale in Danimarca, si fosse scatenata una tempesta e, mano a mano che il tempo era passato, essa si fosse tramutata in uragano. Mi pareva che il mio cuore fosse pronto a scoppiare da un momento all'altro, tanto era il dolore che la lontananza da Michael e l'impotenza di potermi riavvicinare a lui mi arrecava.

Era stato Lui a rovinare il mio sogno, e se la mia anima era ormai marcita e sepolta era solamente colpa sua; se avessi potuto avere una bambola voodoo a forma di Dio non avrei fatto altro, durante le mie giornate, che conficcarvi spilli con violenza inaudita, in un disperato tentativo di recargli anche solo una minima parte del supplizio che Lui aveva provocato a me, conscio delle proprie azioni ma indifferente alla sorte che mi sarebbe spettata.

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