I giorni successivi non riuscii a smettere di riflettere su ciò che avevo letto con Alex. Sul sito in generale e sulla proposta di contattarli. Non lo feci perché mi sentii costretta dalla promessa con cui ci eravamo lasciati, quanto perché mi era del tutto impossibile pensare ad altro. Le parole di quelle ragazze mi erano entrate dentro e immaginare di poter vivere in una maniera diversa, se solo fossi riuscita ad uscire da quel tunnel, stava diventando una valutazione allettante. Fantasticavo una me più libera, più sorridente, più piena, meno spaventata e soprattutto più sicura di sé.
Dicono che il corpo di una persona racconti molto di ciò che vive nel suo interno. La sua postura, il suo modo di camminare, il suo modo di porsi, persino il modo di abbigliarsi. Io avevo sempre la testa china quando camminavo, le spalle curve, come se ogni passante potesse spaventarmi o peggio come se inconsciamente chiedessi a chiunque "scusa se esisto". La mia posizione preferita era quella fetale, rannicchiata, completamente stretta su me stessa: tentavo di proteggermi da sola, di cullarmi, ma allo stesso tempo mi avvolgevo di un guscio invisibile che chiedeva all'altro di non avvicinarsi. Quando mi dovevo rivolgere a qualcuno, avevo lo sguardo basso, non riuscivo a mantenere un contatto oculare, mi agitavo e cominciavano a torturarmi le mani, a muoverle intrecciate tra loro come a supplicare di aiutarmi a calmare. Il mio modo di vestire era sempre abbastanza scialbo. Niente di troppo esuberante, di troppo vistoso. Tutto ciò che poteva aiutarmi a passare inosservata era nel mio armadio.
Ecco, immaginare che un giorno sarei potuta divenire diversa, sognare un'altra me che non aveva più paura dell'essere umano, di se stessa, che andava per le strade con passo elegante, una donna ben vestita che invece di guardarsi le scarpe, curiosava tra la gente...un medico che quando si mostrava ad un paziente, gli trasmetteva sicurezza e audacia. Quest'altra Alice mi piaceva, a tratti quasi la desideravo subito.
Ma chiamare? Chiamare per me era un ostacolo insormontabile. Era successo tutto tanto tempo prima, quando ero ancora una bambina. Io ed Erik quella mattina eravamo in camera a giocare. Avrò avuto circa cinque o sei anni. Ad un tratto squillò il telefono.
«Mamma, mamma, vado io!» Corsi in fretta nel tentativo di alzare per prima la cornetta. All'epoca mi divertiva interpretare la parte della grande, che sapeva già rispondere al telefono. Mi faceva sentire più importante all'interno della mia famiglia, in fondo rispondevo per loro.
«Pronto?» La mia voce suonava squillante e vittoriosa.
Ci fu un attimo di silenzio poi una voce maschile.
«So dove abiti. Adesso vengo lì e ti ammazzo con un coltello.»
Raggelai.
Il mio cuore perse un battito.
In preda al panico riagganciai e rimasi immobile. Ferma lì, davanti a quel telefono.
Fu come non essere più padrona del mio corpo e del mio sentire. Venni travolta da un pianto disperato.
Mia madre accorse per capire cosa fosse successo.
Non riuscivo a parlare. Dentro di me continuavo a sentire quella voce minacciosa, quella di uomo adulto.
A pensarci ora, poteva essere stato uno sciocco scherzo di qualche ragazzo idiota che probabilmente neanche mi conosceva. Quei giochi che si fanno pensando che l'altro non saprà chi sei. La mente di me bambina aveva registrato la voce di un uomo adulto, ma è possibile che sia stata solo la mia percezione di una voce storpiata.
Ad ogni modo, credo che da quel giorno il telefono sia divenuto per me un carbone ardente. Volevo starmene il più lontana possibile da quell'affare spaventoso.
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Permettimi di starti accanto
ChickLitAlice. Semplice ragazza ma dai grandi progetti. Vuole diventare medico ed è molto determinata a raggiungere il suo obiettivo, tanto che aldilà dello studio, l'unica distrazione che si concede sono le prove con la band. Ma è proprio qui che si imbatt...