Astrea - Capitolo 4

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Qualcosa martella vicino al mio orecchio. 

Schiudo gli occhi e premo i palmi contro le tempie pulsanti: è il rubinetto che perde.

Una, due, tre gocce precipitano con ritmo cadenzato, ferendomi i timpani e trafiggendomi il cranio, prima che riesca a muovermi.

Insopportabile. È un rumore insopportabile, penso mentre una fitta di dolore mi fa sfuggire un lamento dalle labbra.

Mi sollevo dal pavimento freddo, cercando di scacciare le vertigini e le stilettate alla nuca. Sono stata drogata di nuovo. Ormai riconosco il sapore del ferro, le percezioni amplificate e il mal di testa. 

  Attraverso a gattoni la stanza oscillante e raggiungo la fonte delle mie torture. Un'altra goccia raggiunge il fondo della vasca grigia, con un suono simile a quello del metallo che si accartoccia.

 Stringo i pomelli d'acciaio con tutta la forza che possiedo, sia per far tacere il gocciolio sia per mantenere l'equilibrio, quando un nuovo capogiro mi travolge. Rimango aggrappata alle manopole con il briciolo di vitalità che mi resta, le nocche diventano più pallide di quanto già non siano, mi scappa un lamento; poi mi lascio ricadere sfinita.   

  Ora che il rumore è cessato, sento che comincio pian piano a rimpadronirmi della mia lucidità.  

Appoggio la schiena alla vasca, mettendomi seduta, e ciò che ho intorno ondeggia già meno. Mi asciugo il mento sporco di saliva con la manica del mio abito da cerimonia.

Mio padre dice che ognuno ha la propria prigione. Per lui è il potere. Certe decisioni non ti danno scampo nemmeno nel sonno, ripete da una vita. Per qualcuno è la città bunker in cui il genere umano è costretto a vivere ormai da quasi due secoli. Per qualche altro è la paura; una gabbia, seppur mentale, dalla quale non è più semplice evadere. La mia, invece, è grande quattro metri e ha le sbarre alla porta.

Mi trascino verso l'inferriata e la inondo di pugni fino a quando non sono stremata, poi lancio un grido esasperato.


Alzo lo sguardo verso la telecamera. La spia rossa lampeggia, così so che mi stanno osservando. In passato mi bastava urlare nella sua direzione affinché i miei genitori accorressero. A quanto pare dopo i miei numerosi tentativi di fuga hanno deciso di lasciarmi marcire qui dentro. Non che mi abbiano mai fatto uscire, però almeno venivano a farmi visita.

«Abbiamo cose più importanti a cui pensare che intrattenere una ragazzina viziata» mi ha detto mio padre l'ultima volta che l'ho visto. 

È stata la settimana scorsa? Un mese fa?

 Non lo so. Da quando le iniezioni si sono fatte più frequenti, passo la maggior parte del tempo incosciente e mi è difficile tenere il conto del tempo che passa.


Le molle del letto cigolano quando mi ci siedo con poca grazia. Do un calcio a uno dei libri sparsi sul pavimento.

«Sei l'unica a possedere dei libri propri e ti lamenti pure di non poter uscire» diceva mia madre quando da bambina la pregavo di portarmi fuori, almeno solo per qualche minuto.

A quei tempi vivevo ancora segregata nella mia stanza, lì avevo almeno una finestra.

 Quanto mi manca una  finestra! 

Se ne avessi una, forse, mi accontenterei del mio isolamento. Se ne avessi una, forse, mi sentirei ancora umana.

«Non mi affaccerò mai più, lo prometto. Non cercherò più di attirare l'attenzione» la supplicai il giorno in cui mi condusse con la forza qui dentro. Mi mise uno specchio davanti e si inginocchiò accanto a me.

«Secondo te io e tuo padre non vorremmo il meglio per te? Credi che ci piaccia tenerti rinchiusa? Ma guardati, Astrea, guardati: tu non sei come gli altri. Non potrai mai uscire da qui.» Inghiottii le lacrime che mi inondavano gli occhi da cinquenne, mentre le sue dita mi stringevano il mento per impedirmi di distogliere lo sguardo dall'immagine riflessa: terribilmente sbagliata.


Sento la serratura scattare e faccio un balzo in piedi. La porta insonorizzata si spalanca e subito dopo sento anche lo scatto della grata di ferro.

Labdaco stringe il vassoio tra le braccia, ma non entra. Resta sulla soglia, quasi abbia paura di me. Forse è proprio così, visto che l'ultima volta gli ho provocato una lesione cranica e quattro punti di sutura sull'occhio destro. Osservo l'ematoma violaceo e quasi mi fa pena. Non era mia intenzione fargli del male, ma non potevo farmi sfuggire la possibilità di scappare. Quindi l'ho colpito con la sedia e sono fuggita. Sono stata riacciuffata neanche un paio di metri più lontano, da mio padre. Anche se immaginavo mi stesse monitorando, dovevo provarci. Mi sono presa uno schiaffo in pieno volto e un'iniezione sulla spalla.

Labdaco posa il vassoio e se ne va. Le budella mi si attorcigliano al solo odore del cibo. A quanto pare non mangio da parecchio. Afferro una manciata di preparato di purè e lo porto alla bocca. Non importa che scotti. Il pane caldo e friabile mi fa venire voglia di piangere. Annuso a fondo e lo divoro. Faccio fuori anche la zuppa di piselli, la torta di mele e tutta l'acqua che riesco a ingurgitare. Per una volta non mi pesa neanche il dover mangiare con le mani. 

Le avevo le posate, fino a poco tempo fa, poi ho provato a scassinarci la porta e mi sono state sequestrate.

Cerco di posare la brocca sul pavimento, però mi scappa dalle mani. Batto le palpebre e mi ritrovo a terra, anche se un secondo fa non lo ero. 


Nota dell'autrice: Adesso, finalmente, conoscete anche Astrea. ^_^ Spero riuscirete ad amare questo personaggio quanto lo amo io, e spero che la storia non vi deluda. 

Intanto vi ringrazio per essere giunti alla fine di questo settimo capitolo. Grazie di cuore per il tempo che mi dedicate e grazie per la fiducia che riponete in me. 

Con il prossimo capitolo torneremo a vedere Antevorta dagli occhi di Danae. Mentre noi siamo qui, ne stanno succedendo di cose a quella ragazza, vedrete!

P.S. La mia illustratrice sta lavorando ad Ares, perciò presto potrete vedere anche il suo volto. Io sono scalpitante, non vedo l'ora di conoscerlo e scoprire se ancora una volta la mia fantastica illustratrice mi ha letto nel pensiero.

A presto!

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