Seth - Capitolo 16

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Se a cinque anni mi avessero chiesto che lavoro avrei fatto da grande, la risposta sarebbe stata: «Il Funzionario.»

Naturalmente a quei tempi non sapevo ancora che la scelta non sarebbe spettata a me, perciò lasciavo che i mestieri assumessero ai miei occhi acerbi fattezze fantastiche e, questa figura in particolare, quasi magiche. Li vedevo così i Funzionari, paladini della giustizia disposti a vegliare sulla città.

Prima che i miei fratelli nascessero e prima ancora che iniziasse la scuola, nei pomeriggi in cui non scorrazzavo con gli altri ragazzini per il quartiere, passavo ore a marciare avanti e indietro per la mia via, fingendo di essere uno di loro.

Quando mi venne spiegato che il lavoro mi sarebbe stato assegnato da altri, mi arrabbiai. Avevo l'età di Milena e come lei avevo appena iniziato gli studi. Mi sembrò ingiusto e quella fu la prima volta, credo, in cui mi accorsi che la mia idealizzazione della comunità e la realtà non collimassero. Questo interstizio minuscolo come lo spazio tra gli incisivi di mia sorella Elise si fece con il passare del tempo sempre più ampio. Oserei dire che guadagnò centimetri in concomintanza con quelli che acquistai io in altezza.

Mio padre cercò di smussare la prima delusione della mia vita decantando i pregi del lavoro manuale. Se fossi diventato un Pitturatore, per esempio, avrei potuto ridipingere la volta celeste, opera che sarebbe poi stata visibile a tutti i cittadini, garantendomi una certa fama. Come Fabbricante, invece, avrei potuto provvedere al sostentamento della società, altra carica di non indifferente importanza.

Poi, non riuscendo a convincermi, fece presa sull'orgoglio infantile e mi affidò la carica, sebbene non ufficiale, di suo assistente personale nella manutenzione e mi permise di aiutarlo con piccoli lavoretti.


Io e la fuggiasca siamo ammassati contro la facciata laterale di un edificio, nel punto in cui una rientranza funge da riparo. In fondo alla stradina in cui ci troviamo ci sono due Funzionari. Siamo troppo lontani per sentire cosa si dicano, ma è chiaro che cercano lei. Staranno pianificando una strategia per stanare una ragazzina scappata dalla cella in cui era rinchiusa. Lancio uno sguardo nella sua direzione, il petto le si gonfia e le si sgonfia a ogni respiro, troppo in fretta. Anche se non abbiamo scambiato neanche una parola da quando abbiamo lasciato la sua cella, anche se non sono riuscito ancora a vederle il viso, che tiene nascosto sotto l'insolito mantello che indossa, capisco che ogni cosa, per lei, dipende da questa fuga.

Non vegliano sulla città i Funzionari, la controllano. Non hanno a cuore i cittadini, sono le mani del Sindaco.

Lo scorcio di uniforme marrone scuro, che riesco a scorgere dal punto in cui mi trovo, mi provoca un moto improvviso di ripugno, un rigurgito acido. Si tratta di un fastidio radicato nel profondo, fuso nell'inconscio, come il solco che la sveglia scava mattina dopo mattina nella quiete del sonno, mentre ancora si è assopiti, ma che immerge le sue radici anche nella veglia, dandoci a noia quel suono a qualsiasi ora del giorno per caso lo si ascolti.

La dedizione, provata nei confronti dell'incarico un tempo tanto ammirato, negli anni si è imputridita e oggi, più che mai, mi sento lontano dalla antica mitizzazione.

Le ultime luci si accendono e il cielo risplende del suo azzurro brillante, mi spingo ancora contro il metallo freddo della parete, che vorrei potesse inglobarmi. Per fortuna l'incavatura nella quale siamo nascosti ci protegge e non veniamo notati, ma muoverci adesso che è mattino sarà ancora più difficile. Come se non bastasse, tra l'altro, non ci vorrà molto prima che mio padre si accorga dell'assenza delle chiavi.

Vattene, lasciala qui, non è affare tuo, mi suggerisce la parte più saggia di me. Poi penso a questo respiro, così vicino, che non mi appartiene e che adesso, qui fuori, dipende anche da me. Milena è dispersa, avrei potuto proteggerla e non l'ho fatto, ma posso ancora salvare lei, posso almeno provarci.

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