Il carboncino compresso disegna una linea sulla carta, poi ne sfumo i contorni con i polpastrelli, la parte bassa del palmo accarezza una porzione di foglio, trascinando il nero verso una zona più interna. Aggiungo, regolo, modifico le ombre con le dita. È la parte che preferisco, si crea un legame tra me e il disegno, quando le mie mani lo ispezionano e indugiano su di lui. È strano da spiegare, ma è come se in quei momenti prendesse vita e smettesse di essere solo un'immagine bidimensionale. Forse ho passato troppi anni da solo, non lo so. A ogni modo, quando succede, tutto ciò che ho intorno si spegne, viene dipinto di nero, oscurato. Le mani rimbalzano svelte da un punto all'altro del disegno, come se sapessero da sole cosa fare e non riesco a staccarle dalla carta finché non è finito.
Un punto luce sotto il labbro ed è imbronciato proprio come il suo. Non è il primo ritratto di Danae, ne ho fatti a decine, nel corso del tempo. Il primo l'ho realizzato poco dopo la nostra separazione. Ricordo bene quanto mi pesasse la solitudine, nei primi anni. Parlai con la sua immagine per settimane e riempii così un poco il vuoto di questa stanza. Ne feci altri, dopo. Quasi tutti nei periodi in cui sentivo il bisogno di avere qualcuno al mio fianco, una compagna con cui dividere questa esistenza di desolazione.
Un giorno, avevo circa dodici anni, mi accorsi di tratteggiare linee insicure. Non ero più certo di uno zigomo o di un angolo, il volto di mia sorella cominciava a farsi sfocato nella mia memoria. Smisi perciò di rappresentare lei da bambina e iniziai a immaginare che aspetto potesse avere in quel momento.
Le ho detto che va bene, che non fa niente se non prova quello che provo io. Tuttavia, nonostante una parte di me mi dice di darle tempo e mi assicura che un giorno accetterà la nostra unione, un'altra non riesce a non essere delusa dal fatto che per lei amarmi non sia naturale come lo è per me.
Afferro un mucchietto di fogli, il regalo che le farò per il nostro matrimonio. L'idea che ci sposeremo che lei lo voglia o no dovrebbe confortarmi e invece non è così. Io voglio che mi scelga anche se non ha altri tra cui scegliere. Perché io lo so, avrei scelto lei comunque, anche se la Mephista non ci avesse costretti da questa parte della sezione, anche se gli altri fossero sopravvissuti. Ed è questa la consapevolezza alla quale mi sono aggrappato per tutti questi anni, la costante tra il mio passato e il mio futuro.
Quando mia zia portava sue notizie, dopo essere andata a trovarla, ecco che il divieto di uscire dalla mia stanza, di vedere la mia famiglia e tutto il resto acquistava un senso.
«È sempre più bella. E curiosa... fa domande su tutto. Vuole sapere il perché di ogni cosa» mi confessò un giorno mia zia, dopo averla pregata di parlarmi di lei.
Certe volte a colazione, insieme al vassoio con il cibo, portava anche un'informazione nuova su Danae. Il titolo del libro che stava leggendo, il modo in cui aveva attaccato i capelli quel giorno.
Ho pensato a lungo a quale regalo potessi farle per le nozze. Alla fine l'idea mi è venuta ricollegando tutto ciò che sapevo di lei.
C'è stato un periodo, quando aveva circa nove anni, durante il quale non faceva altro che chiedere a tutti di poter attaccare delle stoffe alle pareti per renderle più belle. Voleva in qualche modo che la sezione fosse più ospitale.
E così eccomi a farle disegni da appendere in quella che sarà la nostra casa. I soggetti li ho presi dai suoi libri: il mare, un castello, un albero vero.
Aggiungo il disegno alla collezione e ripongo con cura il pezzetto di carboncino consumato. Me ne restano quattro. In questi anni è stata mia madre a fornirmeli. Quelle poche volte che veniva a trovarmi si presentava con un mucchio di carta o con dei carboncini, dopo si sedeva in un angolo e mi osserva disegnare, rimanendo immobile a fissarmi a lungo. Parlavamo di rado, siamo entrambi poco inclini alle chiacchiere.
«Questi sono gli ultimi» ha detto circa sei mesi fa, mi ha passato una scatola di carboncini nuovi e si è seduta in fondo alla stanza al suo solito. Non è entrata più qui dentro da allora. Forse, adesso che non sono più segregato qui dentro, ha assolto il suo compito. Forse con quell'ultimo pacco di carboncini ha estinto il suo debito nei miei confronti. Non so come passerò il tempo libero non appena terminerò i pochi rimanenti, immagino che troverò altri modi per disegnare.
Sto "mettendo il muso fuori" come mi ha suggerito mia zia a cena. Adesso che posso uscire secondo lei dovrei farlo più spesso. Dovrei provare a socializzare e smetterla di rintanarmi nella mia stanza come una bestia che fugge la luce. E dovrei prendere parte ai pasti con tutti gli altri.
Credevo che mi sarebbe piaciuto poter lasciare questo posto, l'ho creduto per anni. Invece mi sono accorto che certe volte una sezione intera può risultare più claustrofobica di quattro metri quadrati, e che parlare con una pila di fogli sia talvolta più rassicurante che essere attorniato da una trentina di sconosciuti. Rimanere segregato in un posto per tanto tempo è una cosa che ti si modella addosso, qualcosa di permanente, da cui non si guarisce.
Mia zia mi ha consigliato allora di fare una passeggiata a coprifuoco scattato, giusto per ambientarmi tra le pareti di metallo. Ho accettato solo perché a quest'ora non rischio di incontrare qualcuno.
Mi rendo conto di aver toppato, non appena sento una porta chiudersi nel corridoio sul quale sto per svoltare. Ho giusto il tempo di vedere mia madre spostarsi dalla stanza non assegnata dalla quale è uscita a una poco più avanti. Non chiude a chiave la prima, quindi immagino abbia intenzione di tornarci abbastanza presto.
Rifletto un attimo sulla possibilità di fare finta di niente e tornare indietro. In fondo non mi importa più di tanto scoprire cosa nasconda. Ma mentre lo penso mi sto già muovendo verso la porta. Mi fido della mia società, nonostante tutto mi fido, però ci sono alcune cose che non tornano: lo strano atteggiamento di mio nonno durante la somministrazione, il vaccino in meno per Magda, l'ulteriore riduzione dei pasti.
Premo il bottone che apre la porta ed entro dicendomi che non sto facendo niente di terribile, niente che mia sorella non farebbe. Tasto alla cieca alla ricerca dell'interruttore che accenda la luce. Il neon bianco lampeggia prima di stabilizzarsi.
Deglutisco incredulo allo spettacolo che mi si presenta davanti. In una cesta su un tavolo d'acciaio dorme un neonato: il figlio di Magda.
Mi catapulto fuori dalla stanza ancora sconvolto. Ci hanno mentito, hanno mentito a tutti. Abbiamo pianto un bambino che non è mai morto, qualche metro più in là dorme una donna distrutta da un dolore che è tutta finzione.
Ci sarà una spiegazione logica a tutto questo, lo so. Adesso però ho bisogno di parlare con qualcuno di quanto ho visto e c'è solo una persona di cui possa completamente fidarmi, la stessa persona che accetta meno di tutti noi questo sistema e che quindi non mi tradirà.
Nota dell'autrice: Ciao!
Allora, adesso abbiamo capito un po' meglio la psicologia di Ares e abbiamo capito cosa rappresenta per lui la figura di sua sorella, ora sappiamo da dove deriva ciò che prova o pensa di provare per lei.
Ma veniamo alla scoperta scioccante.
Te lo aspettavi? Hai già pronte delle teorie?
Fammi sapere cosa pensi di questo capitolo. Ogni consiglio, al solito, è ben accetto.
Ti ringrazio infine per essere giunto fin qui. <3 Per me è molto importante sentire il tuo supporto. Se ti va, perciò, fammi sapere che sei passato con un commento.
Grazie ancora.
Con affetto,
Giuliana.
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Città Bunker
Science Fiction*** Storia Vincitrice WATTYS 2019 nella categoria FANTASCIENZA. *** A centocinquant'anni dall'epidemia di Mephista che ha invaso la terra, quello che è rimasto dell'umanità è costretto a vivere in una città bunker sul fondale dell'oceano. Danae, un...