Prologo: Five Seconds

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Aurora

È come quando ti svegli, durante la notte, magari perchè hai avuto un incubo o semplicemente per andare in bagno. Ti siedi sul materasso, infili le pantofole e inizi a camminare per il corridoio come un'anima in lista per il Purgatorio. Eppure la tua mente è altrove, la tua coscienza per metà dorme ancora.
Fai i tuoi bisogni poi torni a dormire, e il mattino seguente non ti ricordi neanche di esserti svegliato nel cuore della notte.

O almeno così è come la penso io, che prima di acquisire il completo consenso delle mie facoltà mentali ho bisogno di un secchio di acqua gelida in faccia e, che ne so, la sveglia che inizia a squillare.

Ma stamattina non mi sono svegliata diversamente dagli altri giorni. È stata la stessa routine: colazione, videochiamata con Sophie e discussioni con Justin. Justin è il mio cane.

Stamattina non mi sono svegliata con l'idea di porre fine alla mia vita, eppure adesso sono sul tetto del grattacielo più alto di Sydney, in bilico sul cornicione, con il mascara colato sulle guance e le lancette dell'orologio che segnano le 11:11 di sera.
Il momento più ironico della mia vita.
Manca poco al countdown che decreterà la fine di quest'anno di merda, così come manca poco alla mia morte.

Spalanco le braccia per mantenere l'equilibrio, mentre cerco di ricordare da quanto tempo mi trovo quassù. L'aria sembra tagliarmi in piccoli pezzi e spero soltanto che mi porti con se.

«È solo un passo. Solo un piccolo passo in avanti e tutto sarà finito.» Sussurro. Non mi sento più le dita delle mani, avrei dovuto portarmi i guanti.
Ma cosa sto dicendo? Tanto tra alcuni minuti mi saró sfracellata contro l'asfalto della strada qui sotto e i guanti serviranno a ben poco.

Tutto puó annullarsi in pochi attimi. Tutto puó andare a puttane con un battito di ciglia. Sono nel bel mezzo dell'Occhio del Ciclone ed ho paura di andare avanti. Ho paura di confermare tutte le mie teorie, gli ideali e le incertezze.

«Cinque miseri secondi di vuoto e tutto sarà finito. Vedrai, Aurora, andrà bene.»
Sorrido, sbattendo un paio di volte le ciglia per scacciare le lacrime.
È inevitabile. Cinque fottuti secondi sospesa in aria e il mio corpo esalerà il suo ultimo respiro.
Chissà a cosa penseró un secondo prima di morire, chissà cosa proveró quando il mio volto si scontrerà con l'asfalto.

Gioia, tristezza, soddisfazione, paura? Non ne ho idea. So solo che ora sono le 11:23 e la mia determinazione si sta sgretolando. Magari non è la notte giusta per farlo, devo ancora chiedere a Sophie com'è andata la visita, e andare al compleanno di Julie.
Potrei regalarle quelle scarpe che aveva adocchiato la settimana scorsa per le strade del centrocittà, di cui si era follemente innamorata. Dovrei almeno presentarmi al compleanno di mia cugina.

Ora abbasso lo sguardo sulla strada, ai piedi del grattacielo, e rabbrividisco.

«Ne hai per molto?»

Mi volto all'improvviso.
Prima che possa cadere di sotto, una mano mi afferra e riacquisisco l'equilibrio. Il cuore sta per balzare fuori dalla mia cassa toracica.

«Porca puttana!» mi aggrappo al cornicione con entrambe le mani e fisso il volto della figura davanti a me.
È un ragazzo.
Ha dei capelli biondi e un pearcing al labbro.
«Cazzo,» borbotto «Tu sei Luke Hemmings!»

Il biondo, mia cotta dalla prima media al terzo anno di liceo, aggrotta le sopracciglia. «Aurora? Sei tu?»
«Sì, merda, sono io!»
Quando sono agitata tendo a utilizzare vocaboli poco adatti.

Ma questo, invece, è il momento più imbarazzante della mia vita.
Luke è il capitano della squadra di basket della scuola, il miglior giocatore in campo e il ragazzo con la media alta quanto questo grattacielo. Ha file di ragazzi e ragazze che stravedono per lui ed è la classica persona determinata e orgogliosa.
Siamo come due poli opposti, insomma.

«Non pensavo di trovarti qu-qui,» dice. Sembra agitato. Io rimango immobile. «Bene ehm– allora... aspetto il mio turno.»
Quindi si allontana, si volta dalla parte opposta alla mia e inizia ad osservare la porta dalla quale è arrivato.

«Hemmings!»
Lui si gira verso di me. La luce dei led ticchettanti illumina i suoi occhi azzurri e per un momento mi tranquillizzano.
«Si?» Il suo tono di voce sembra quasi speranzoso. Non so in cosa stia sperando.

«Non mi fermerai?»
«Perchè dovrei?» chiede. «Solo tu puoi decidere se farlo o no.»
Annuisco, per convincere me stessa che posso farcela. In lontananza sento le sirene della polizia e sobbalzo.
Luke mi guarda. Sembrano occhiaie, quelle che ha scavate sotto gli occhi. Le sue labbra sono screpolate e le mani tremano.
«T-ti lascio sola. Mi metto laggiù, fai finta che non ci sia.»

Annuisco di nuovo e lo osservo dirigersi ancora una volta vicino alla porta in vernice verde militare, scrostata e arrugginita.
Sospiro.
Guardo di nuovo sotto ai miei piedi e decine di macchine sfrecciano sotto i miei occhi.
Mi sento come se stessi dimenticando qualcosa.

«Luke?» la mia voce trema.
«Si?» la sua si incrina nel pronunciare l'ultima lettera.
«Vuoi andare prima tu?»
Mi siedo sul parapetto e scivolo fino a trovarmi a pochi metri di distanza dal ragazzo. Le mie gambe tremano.

«Volevo... volevo stare solo, in realtà.»
Mi stringo nelle spalle, per sembrare calma e fiduciosa. Non so neanch'io in cosa sia fiduciosa, ad essere sincera.
«Okay, bene, allora spetto dietro quella porta.»
«Completamente solo, veramente. Ho bisogno di morire solo.»

Nell'istante in cui sto per proferire parola, una seconda persona varca la porta. È un altro ragazzo. Ha dei capelli scuri, gli occhi color pece e un naso strano.
Luke lo guarda, assottiglia gli occhi e poi spalanca la bocca.
«Calum? Cosa ci fai qui?»

Il moro scoppia a ridere. «Potrei farti la stessa domanda, amico. Oh– sono sicuro di averti già vista» punta gli occhi su di me e corrugo la fronte.
Tutto questo è incredibile.
«Frequentiamo lo stesso corso di trigonometria e letteratura italiana.»
Sospiro.
Nutro un odio non indifferente nei confronti di questo ragazzo, dopo l'avvenimento di quattro mesi fa.

«Aurora Smith, come dimenticarsi! Quella della foto alla festa di Mendes?»
Luke lo strattona per un braccio. «Calum, sei ubriaco?»

«Io sono sempre ubriaco» ride il moro. Mi allontano da loro e fisso il parapetto.
Ormai tutta la scuola mi riconosce come la ragazza della foto, quella ubriaca e circondata da tre ragazzi che neanche conosce e quasi nessuno sembra ricordare il mio nome. Spero che lo faranno, quando saró morta.

«Me ne sono appena andato dalla festa di Watson; io e Cole siamo finiti di nuovo in una rissa e sono scappato prima che arrivasse la polizia.»
«Sei un coglione,» sbotta Luke.
«Tu, invece, vuoi buttarti di sotto?»
«No,» borbotta sarcasticamente il biondo, aprendo le braccia con fare teatrale «Volevo guardare le stelle».

𝐂𝐎𝐔𝐍𝐓𝐃𝐎𝐖𝐍Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora