Chapter 28: Are you serious?

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Ashton

Tre anni prima.

«Sicuro di volerlo fare? Amico, è un'idea davvero di merda.»
Osservo Calum con espressione riluttante, cercando di farlo desistere dalle sue idee malsane.

«Ce la faró. Sicuro.» Ghigna e sistema il piede sullo skateboard.
Siamo in una pista, alle dieci di sera, Calum pronto a saltare da una rampa davvero troppo alta e io con una telecamera in mano, obbligato dal mio migliore amico a riprendere il mio migliore che si sfracella al suolo. Una sorta di atto autolesionista.

«Potresti morire» urlo, per cercare di farmi sentire da lui, già pronto a rotolare giù e finire chissà dove. Mi sudano le mani per l'agitazione e devo passarmele un paio di volte sul tessuto dei jeans per tenere saldamente la telecamera.

«È legale?» chiedo.
«Certo che no. La pista chiude alle otto.»
Infatti avevo sospettato di qualcosa quando siamo entrati scavalcando la recinzione.
«Ci sono delle telecamere?» chiedo, spostando lo sguardo attorno a noi. Se così fosse, siamo fottuti.

«Ce n'è solo una a circa un chilometro, vicino alla tabaccheria. Ma è vecchia, nessuno l'ha mai controllata. E per di più noi non passeremo da quella direzione; ho trovato una scorciatoia che ci porta direttamente ad un club di Burlesque.» Scoppio in una fragorosa risata, forse per distogliere la mia attenzione dalle preoccupazioni e le solite paranoie, mentre Calum mi dice di accendere la telecamera e tenermi pronto.

«Se ti facessi male?»
«Non succederà. Ma, se così fosse, cerca di portarmi fuori di qui e chiama i miei. Di' loro che stavamo tornando a casa quando è accaduto un imprevisto. Non lo so, inventa qualcosa.»
La fa semplice, lui. Rischia la vita e mi dice di usare l'immaginazione quando dovró riferire ai suoi genitori che ha perso pezzi.

Accendo la telecamera e la punto sulla sua figura, illuminata dalla torcia appoggiata a terra. Calum fa un cenno di saluto con la mano e trattiene un risolino.
«Okay, te lo chiedo per l'ultima volta: sei totalmente, completamente e interamente sicuro di volerlo fare? Saltare da... saranno quattro metri di altezza?»

«Sono totalmente, completamente e interamente sicuro di voler saltare da quelli che sono quattro metri di altezza.»
E be', c'era da aspettarselo. D'altronde lui è Calum Hood; colui che non si tirerà mai indietro per paura. Lui non è me.

Annuisco.
«Pronto?» chiedo.
«Pronto.» Sorride. «Tu sei pronto?»
Ingoio un groppo in gola. «Pronto.»

Conta fino a tre. Poi lascia scivolare il piede sinistro sulla piattaforma e si da una spinta, piegando le ginocchia e usando quella sua tecnica "alla Calum" che mi piace da morire.
Raggiunge il bordo della piattaforma in legno, si mantiene in equilibrio e salta.
All'inizio tutta prosegue come divrebbe andare; mano sullo skate, schiena perfettamente ricurva e il braccio alzato.
Ma poi si sbilancia, il baricentro si sposta e Calum si scontra con il cemento duro e freddo della pista.

Te l'avevo detto, vorrei sputare fuori, ma l'urlo dolorante del mio amico mi costringe a lasciar cadere la telecamera e precipitarmi subito verso di lui, stramazzato al suolo affianco allo skateboard capovolto con le rotelle che girano girano e girano.

«Merda, Calum!» sangue. C'è sangue.
Mi slaccio la felpa e la infilo sotto la sua testa, mentre lascio dei piccoli schiaffi sul suo volto per cercare di mantenerlo lucido.
«Dov'è che ti fa male? Ti sei rotto qualcosa?»

Annuisce. Chiude gli occhi. «No, Cal, apri gli occhi. Tienili aperti.»
Afferro le sue mani. Pochi giorni fa ho guardato dei tutorial su come comportarsi in situazioni del genere. Per precauzione. «Muovi le dita», ordino. Lui, con una smorfia di dolore, le muove una alla volta. Tutte intatte.
Gli tolgo le Vans e «Adesso quelle dei piedi».
Lui lo fa e constato che anche quelle sono a posto. Gli faccio piegare il gomito sinistro. Ce la fa. Quando è arrivato il momento del destro, caccia un urlo di dolore e non accenna a voler fare altro. «Va bene, probabilmente è il gomito. No, Calum, apri gli occhi. Ti aiuto ad alzarti, okay? Non so come portarti fuori da qui, altrimenti.»

Il mio respiro accelerato sembra calmarsi quando Calum annuisce. Ha una ferita alla nuca. Il sangue ha sporcato la mia felpa e la sua maglietta. Il cemento, per quanto possibile, è rimasto dello stesso grigio spento e consumato. Tiro un sospiro di sollievo.

Infilo la telecamera dentro il borsone e tiro fuori il telefono dalla tasca, digitando in fretta il numero di casa Hood. A rispondermi è suo padre, con tono visibilmente preoccupato, così gli dico di raggiungerci davanti al Garden Quarter perchè suo figlio si è fatto male.

«Coraggio Calum, alzati.»
Passo una mano sul suo busto, lui allunga il braccio sano attorno alle mie spalle.
Quando sta per mettersi seduto una fitta lo costringe a chiudere gli occhi e trattenere il respiro.
«Le costole.» Asserisce, e tanto basta per farmi capire che c'è qualche altro osso rotto.
«Ce la puoi fare?»
Annuisce. Mi metto in spalla il borsone e, zoppicando e a denti stretti, io e Calum raggiungiamo la recinzione dalla quale siamo entrati. Salgo sul rialzo in pietra e abbasso la recinzione come meglio posso. Gocce di paura e sudore mi bagnano la fronte e faccio il possibile per rendere la cosa rapida e indolore. Aiuto Calum a scavalcarla. Lui non proferisce parola, si limita a seguire i miei movimenti e lasciarsi andare a smorfie di dolore quando piega il busto o muove il braccio.

Vorrei tanto prendere a schiaffi entrambi, in questo momento, ma Calum è già abbastanza ammaccato e credo che quando tutto questo si sarà risolto me le daró di santa ragione.

«Come stai?» gli chiedo, quando è di nuovo steso a terra e io al suo fianco, a cercare di dargli conforto. Il sangue ha smesso di uscire, a parte le mani graffiate e alcuni taglietti sparsi qua e là.

Calum mi osserva. Studia il mio volto con circospezione. Pare confuso. L'espressione dolorante che prima era impressa nel suo volto lascia spazio a una più interdetta. Sembra sul punto di mettersi a piangere o tirarmi un cazzotto.

«Chi se–» fa per dire qualcosa, ma dei fanali spuntano dall'altro lato della strada e in un secondo balzo in piedi, poi nascondo il borsone con la telecamera dietro ad un'aiuola.
«C'è tuo padre.» Sorrido per rassicurarlo, aiutandolo ancora una volta a mettersi in piedi. Suo padre accorre per aiutarmi e in pochi minuti Calum è steso sui sedili posteriori, io su quello del passeggiero e il fottuto skateboard sopra le mie gambe.

«Stavamo tornano a casa. C-Cal era sullo skate, ha provato a fare una piccola acrobazia da sopra un muricciolo ma è scivolato. Credo abbia il gomito e alcune costole rotte. P-prima perdeva sangue, credo dalla testa.»
Suo padre annuisce. Sembra sconvolto e spaventato tanto quanto me e il figlio.

Imbocchiamo la strada per l'ospedale.

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