01. Don't pretend you care

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Ero al corrente di non essere l'amica che tutti volevano al loro fianco, di non essere per niente adatta alle uscite di sera, alle feste mozzafiato e ad esprimere me stessa senza il timore di essere giudicata. Ero al corrente che nessuno mi notasse a scuola per via della mia solitudine data dalla poca socializzazione che avevo accuratamente costruito io stessa durante gli anni; per non parlare del mio aspetto, costantemente in cerca di abiti larghi e pantaloni stretti così che fossero la mia fonte di sicurezza in mezzo ad una mandria di umani che non mi facevano sentire all'altezza né a mio agio.
Noora, che di bello aveva tutto sin dalla prima volta che la vidi - ovvero il secondo anno di liceo, quando lei era già al quarto anno -, sembrò l'unica a vedere del bello in me. Pura, gentile, bella come un fiore, si avvicinò lentamente a me e mi respirò, facendomi provare brividi che non avevo provato mai prima d'ora; perfino il cuore rispose alla presenza di Noora, riconobbe la sua presenza e accese automaticamente in me quel sentimento che mi ostentavo parecchio a negare.
I primi tempi non eravamo per niente conoscenti, io e lei. Eravamo estranee, secondo il mio punto di vista. Lei se ne stava con il suo gruppo conosciuto da quasi tutta la scuola ed io, invisibile come un fantasma, mi aggiravo ogni tanto nelle loro stesse zone soltanto per osservarla da lontano come si osserva il proprio idolo incontrato per caso sulle strade di una delle città più famose al mondo e, con la paura di disturbarlo o di irritarlo, non azzardarsi ad andargli vicino ma pretendere di non averlo riconosciuto. E, come un idolo, Noora aveva quest'effetto su di me: con quei capelli lunghi, mori e costantemente lisci, la pelle abbronzata e lo sguardo rigido sempre pronto ad abbozzare un sorriso debole. Era magra e il suo corpo non lasciava spazio a del grasso sui fianchi o sulle gambe; era per giunta più alta di me. Inoltre, amavo il modo in cui si vestiva perché sembrava uscire ogni volta da un magazine americano. Ero convinta che lei non facesse mai caso a me e che la speranza che avevo nel farmi notare nel mio silenzio moriva ogni giorno sempre più velocemente.
La prima volta che avevamo avuto uno scambio di parole, fu in autobus. La mia casa distava parecchio da Bordeaux perché abitavo nelle campagne della città, quasi al di fuori della zona. La mia fermata dell'autobus si trovava proprio alla fine di un vialetto - che era invece l'inizio della zona di Bordeaux - circondato da alberi che se ne stavano lì da secoli; arrivarci a piedi, secondo mia zia, era impossibile, figuriamoci per un'adolescente come me. Io e Noora prendevamo lo stesso autobus, il quale faceva il giro della zona più a sud della città, ovvero la zona più lontana dal centro. Ci metteva un bel po' ad arrivare ad ogni destinazione, ma era il minimo che potessi prendere dato che i miei zii non potevano venirmi a prendere tutti i giorni da scuola e, in più, era l'unico autobus che passava alla mia fermata. Noora - e mi ero informata su questo tramite internet - poteva prendere almeno quattro autobus diversi a quattro orari diversi, eppure me la ritrovavo sempre su quello, sull'autobus più scomodo dell'intera città.
Faceva piuttosto freddo quel giorno, eppure il finestrino al di sopra del mio sedile era leggermente aperto e l'aria che entrava da lì si fiondava su di me, provocandomi brividi su tutto il corpo. C'era molta gente in piedi, quel giorno, tra cui Noora che - guarda caso - si reggeva con una mano sul sedile avanti a me, con le cuffie nelle orecchie e gli occhiali da sole scuri. Per tutto quel tempo, avevo cercato di non guardarla e di fare finta di niente, ma i suoi capelli svolazzanti mi catturavano ogni volta l'attenzione perciò la guardavo furtivamente ogni volta che ne avevo la possibilità. Quando arrivò il momento che non sopportavo più il finestrino, toccai con un dito la spalla del ragazzo che mi era di fronte, seduto bello e beato con quella poca aria che le arrivava sulla nuca.
Non mi rispose.
Riprovai.
Niente.
Mi esposi in avanti per vedere quale fosse il problema della sua sensibilità inesistente, ma questo non c'entrava nulla: aveva la musica talmente alta nelle cuffie che non aveva percepito il mio tocco. Noora aveva posato gli occhi su di me e, quando tornai a sedermi composta, chiuse il finestrino per me.
Corsi a guardarla e la ringraziai con un sorriso.
Lei mi accennò uno dei suoi, di sorrisi, uno dei suoi soliti e magnetici sorrisi.
Deglutii e guardai altrove.
Non le "parlai" più dopo quel piccolo episodio, fino all'inizio di novembre del 2016, quando avevo avuto uno scontro con il suo ragazzo, Davis, uno dei giocatori di basket della nostra scuola. Avevo saputo da poco che si era fidanzata ufficialmente con quel tipo e la notizia mi aveva letteralmente stesa. Mi sentivo delusa, perché non mi spiegavo come Noora avesse potuto minimamente pensare di stare con uno come Davis, che era il suo opposto. Mi chiedevo come fosse possibile che una ragazza si sprecasse così tanto per un ragazzo che non valeva niente. Avrei voluto dirle quello che pensavo, farle cambiare idea, ma poi mi ero detta che non ero nessuno per Noora e che non avevo alcun diritto di interferire con la sua vita.
Davis, quindi, sapeva benissimo quanto mi piacesse l'arte e disegnare, perché sua madre - lavorando nella clinica psichiatrica nella quale si trovava proprio mia madre - almeno tre anni prima lo aveva portato con sé a lavoro e se ne era stato tutto il tempo seduto su una delle sedie dove ero seduta anche io, con il mio album da disegno, intenta a finirne uno. Mi aveva fatto tante di quelle domande ed io avevo risposto soltanto a tre, perché sapevo già quale sarebbe stato il suo intento e, seppure fossimo stati piccoli, era già cattivo.
Quella mattina, dunque, ero inciampata nel cortile della scuola e, a causa di ciò, mi erano volati via alcuni disegni che tenevo saldamente ancorati al petto. Mi ero precipitata a raccogliere tutti quelli che vedevo ma non mi ero accorta della presenza del ragazzo che teneva in mano uno dei miei disegni.
«Questo dev'essere tuo.» Disse Davis, a voce alta, come nei film, quando un ragazzo lo fa a posta per poter catturare la tua attenzione.
Io non volevo affatto concentrare la mia attenzione su di lui. «Lo è.» Risposi in fretta, sistemando quelli che avevo raccolto io. Una volta fatto, alzai gli occhi su di lui e gli andai in contro, posando una lastra di ghiaccio fra me e lui che non doveva oltrepassare.
Non capivo cosa ci vedessero tutte in lui: era alto, muscoloso, le guance un po' paffute e un sorriso da stronzo. Cosa c'era di bello?
Davis, allora, abbassò gli occhi sul mio disegno, che ritraeva una donna - più specificamente, mia madre. Ci lavoravo da giorni e non l'avevo ancora concluso del tutto. Davis aveva abbozzato un sorriso divertito, come se, attraverso di esso, mi stesse prendendo in giro come era suo solito fare. «Carino.» Commentò, con tutta la falsità che avesse nell'anima.
Lo guardai male. «Grazie.» Quasi ringhiai mentre, veloce, cercai di afferrare il disegno nelle sue mani.
Lui, però, utilizzando i suoi riflessi da giocatore di basket, fu più veloce. «Hey, voglio soltanto farti un complimento.» Continuò, senza staccare gli occhi dal ritratto. «Questa chi è?»
Davanti quella domanda, mi diedi un contegno. Non gli avrei mai risposto a quella domanda, perché sapeva bene chi fosse quella donna.
Infatti, come se non l'avessi pensato, ghignò e espose la sua risposta davanti ai miei occhi. «Credo di sapere chi sia.»
Nonostante il mio battito cardiaco alle stelle e la mia rabbia che si stava facendo sentire nelle mie vene, gli parlai con calma apparente. «Dammi quel disegno.»
«Altrimenti?» Mormorò lui con scherno.
Serrai le labbra. «È il mio disegno, dammelo!» Esclamai allora io.
Davis ghignò di nuovo. «Da quanto tempo non ti arrabbi, Anaïs? Devi essere stanca di trattenere la rabbia, eh?»
Feci per rispondergli, per mettergli le mani addosso, ma qualcuno ci bloccò.
«Hey!» Noora, con la sua scia di profumo, ci venne incontro e, con sguardo confuso, posò gli occhi su Davis e poi sul mio disegno. «Che stai facendo?»
Anche Davis era corso a guardarla, ma stavolta sembrò più serio. «Non sono affari che ti riguardano.» Le rispose.
Non volevo che si rivolgesse a lei con quel tono duro e maschilista. «Affari?» Sbottai io, avanzando, sia per stare più vicina a Noora, sia per far vedere a Davis che non avevo per niente paura di lui. «Dammi quel dannato disegno!»
Noora, allora, tornò a guardare Davis, poi il disegno. Fu veloce come un gatto: afferrò il foglio di carta e zittì Davis con uno sguardo agghiacciante.
Il ragazzo restò a guardarla per qualche secondo, poi distolse lo sguardo, lo abbassò indietreggiando e se ne andò.
Noora ed io lo vedemmo rientrare a scuola con passo felpato e offeso.
Volli ringraziarla, ma ero arrabbiata. Con lui. Con lei. Con tutti quanti.
Noora mi porse il disegno senza neanche guardarlo. Ciò mi fece piacere. «Mi dispiace per il suo comportamento.» Mormorò, visibilmente dispiaciuta.
Feci un sorriso nervoso per trattenere la voglia che avevo di urlare. «Non devi dispiacerti.» Risposi in fretta, con il cuore che minacciava di uscire dal petto, mentre cercavo di stendere il disegno lì dove si erano creati dei stropicci a causa della mano di Davis. «Sono abituata ai suoi tormenti.» Aggiunsi, per farla sentire ancor più in colpa. Volevo non abbattere tutta la mia rabbia e angoscia nei confronti del suo ragazzo contro di lei, ma non avevo altra scelta. Mi abbassai sul terreno del cortile per infilare i disegni nel mio zaino.
«Mi dispiace, Anaïs.» Tornò a dire.
Quando pronunciò il mio nome, boccheggiai interiormente. Da quando sapeva il mio nome? «Non fingere che ti interessi questa storia.» Sbottai io, però, senza controllare le parole. «Non ho bisogno delle tue rassicurazioni.»
Noora annuì senza togliermi di dosso quegli occhi azzurri, come se mi capisse. Per quanto mi piacesse la sua protezione, in fondo, non mi capiva per niente. «Non voglio che tu mi dica grazie, se è questo che stai pensando.»
Quello che sto pensando, volli dire, è come sia possibile che non ti rendi conto quanto mi piaci e che solo la tua presenza, in questo momento, sta rendendo il mio cervello instabile. Vorrei che lo sapessi, ma il solo pensiero che tu potresti reagire male mi vieta perfino di pensare tutto questo. E mi fa rabbia, tanto rabbia che non mi noti durante il giorno, durante le settimane. E mi fa ancor più rabbia, ora, il fatto che tu tenti di farmi sentire meglio per curare in qualche modo le ferite che il tuo dannato ragazzo mi abbatte contro.
«Non ho intenzione di farlo.» Scattai a risponderle. «E non fingere che ti interessi.» Ripetei. Iniziavo a sentirmi ingabbiata in quella conversazione strana e inaspettata. Pensai che, come primo approccio, facesse davvero schifo. Perciò la superai, lasciandola sola con mille domande nella testa. Mi sentivo così male all'idea di averla ferita in qualche modo.

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