Non riuscii a chiamarla per l'intera settimana. Sembrò totalmente sparita dalla circolazione. Era così brava a nascondersi tra i corridoi che, appena sembrava che la vedessi, subito spariva. Le ferite causate da Davis e Louis – successivamente dopo portati dal preside con delle cattive notizie da dare ai loro perfetti genitori – dovevano essere state così dolorose che ancora sanguinavano. Fu la prima volta che capii quanto fosse difficile per Noora vivere con la consapevolezza di avere un padre differente da tutti gli altri, con un padre assente e che non aveva voluto sapere più nulla della sua famiglia. Mi chiesi se si sentisse abbandonata, non accettata. Proprio come me.
Quel martedì, inoltre, all'ora di chimica (nella quale vi era anche Louis), cercò di parlare con me, apparentemente dispiaciuto di quanto successo, ma non c'era più nulla che lui potesse fare: mi aveva tradita, mi aveva rubato la fotografia per mettere in atto quel piano malato e senza cuore. Gli avevo creduto sempre, perché era solo quanto me e pensavo avesse bisogno di un amico; invece era sempre stato un falso pronto a manipolare la situazione appena possibile. Alla fine della lezione, mi seguì per i corridoi appena uscii dall'aula. Mi sentii oppressa dalla sua presenza. Quello che aveva fatto mi aveva sconvolta, delusa. Non c'era niente di cui volevo parlare.
«Anaïs!» Esclamò, nel pieno centro del corridoio.
Abbassai lo sguardo, continuando a camminare, ma mi fermai quando mi piombò di fronte.
«Ti prego, ascoltami.»
Distolsi lo sguardo dal suo volto. «Non voglio ascoltarti.» Biascicai, cercando di superarlo.
Lui mi toccò una spalla.
«Non mi devi toccare.» Gli ringhiai.
Non servì che i miei occhi lo inchiodassero. Il mio tono rabbioso lo convinse a farsi indietro. «Sono stato uno sciocco.»
«Non è il termine che userei io, ma si: lo sei stato e lo sei tutt'ora.» Corsi a guardarlo. «Che cosa pensavi di fare, eh? Mettere fine alla mia relazione? Perché?»
Louis si bagnò le labbra, strinse la stringa del suo zaino. «Non volevo mettere fine alla tua relazione. A me non interessa che tu sia gay o no.» Deglutì. «Davis... Davis mi aveva proposto del denaro affinché io trovassi qualcosa da abbattere contro Noora.» Resse per un po' il mio sguardo, poi lo abbassò. «Appena ho visto quella fotografia che avevi in mano...»
«Sai che c'è?» Sbottai io. «Non mi interessa sapere la storia, davvero. Non mi interessa. Vai pure a dire in giro che sono gay, che sono stata con Noora, che abbiamo fatto qualunque cosa voi inventerete.» Indietreggiai, alzando di poco le mani in segno di sconfitta. «Non mi interessa più sapere cosa pensano le persone di me.» Le lacrime mi salirono agli occhi. «Non ho più nulla da perdere, tanto.» Invece di superarlo e continuare a camminare per il corridoio, girai sui tacchi e uscii dalla porta d'ingresso.
Mi rintanai in cortile, seduta sul prato e sotto quell'albero che mi ricordava tanto Noora, che mi ricordava la nostra prima e seria conversazione dove, solo ora me ne resi conto, aveva ammesso di provare qualcosa per me. Perché quei giorni, ad un tratto, mi sembrarono così lontani? Erano passati mesi o settimane? Non ricordai. Ricordai soltanto che volevo premere le mie labbra sulle sue, sentire il suo odore dentro di me. Volevo sentire la sua presenza accanto a me senza sentirmi così sola e indifferente al mondo. Ora sembravamo soltanto due fantasmi che avevano molto da dirsi ma che, in qualche modo, non volevano più parlare né incrociarsi nei corridoi. Due fantasmi che avevano condiviso un letto, delle lenzuola, stanze e segreti. Due fantasmi che avrebbero soltanto dovuto essere risucchiati l'uno dall'altro perché sapevano troppo dell'uno e dell'altro.
Non volevo sentirmi un fantasma, però. Non volevo comportarmi da tale perché ero umana, avevo dei sentimenti a differenza di un semplice spirito che tormenta gli uomini giorno e notte. Non volevo essere definita come un fantasma. Non volevo che lei fosse il mio fantasma.
Presi un'altra volta il mio cellulare. Mi asciugai qualche lacrima caduta sulle guance e composi il suo numero. Non ero certa che mi avrebbe risposto, ma volli provare. Mi portai il cellulare all'orecchio ed aspettai, fin quando non scattò la segreteria telefonica. Buttai il cellulare sul prato e mi nascosi il volto tra le mani.
Mai come in quel momento desiderai che ci fosse mia madre a confortare me e il mio cuore; avrei voluto piangere sulla sua spalla, singhiozzare quanto bastasse per sentirmi più leggera.
Avevo bisogno di mia madre in quel preciso momento.
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Nel tuo disordine
Teen Fiction'Mi obbligò a guardarla profondamente negli occhi. Me li sentii dentro, in un instante. «Fammi spazio nel tuo disordine, Anaïs.» Sussurrò con un filo di voce, come se neanche avesse detto quelle parole. Venni completamente e totalmente balzata fuori...