09. The paper woman art

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Mi era capitato solo una volta di avventurarmi per i boschi fuori città, con mio zio. Gli era venuta la brillante idea di andare a caccia nell'area apposita ed ero avevo accettato, nonostante avessi dovuto indossare non solo un giubbotto arancione fluo come diceva la regola di caccia, ma anche un giubbotto antiproiettile come aggiunta di mio zio, per prevenzione. Disse che non se lo sarebbe mai perdonato se qualcuno mi avesse sparato.
Così, quella mattina presto, mi ritrovai nuovamente in un bosco, con l'umidità intorno e tanti, piccoli insetti che gironzolavano in cerchio intorno a noi.
«Che schifo. Non potevamo rimanere lì?» Si lamentò Louis ad ogni passo, con faccia a dir poco schifata.
Noora mi guardò per qualche secondo, poi abbassò lo sguardo per vedere dove metteva i piedi.
Alzai la mano che teneva ben saldo il cellulare.
«Prima di andare via da lì, grazie a quel poco campo che c'era, ho chiamato mia zia e ci verrà a prendere non appena usciremo da questo bosco.» Dissi loro. «Lo conosce abbastanza bene.» Ero sicura che zia Félicité avrebbe fatto una ramanzina sul fatto che mi fossi avventurata in un bosco in piena mattinata, ma non me ne importava. Preferivo avventurarmi non sapevo dove con Noora e Louis, piuttosto che restare con degli estranei che volevano soltanto farmi male. Camminammo, quindi, su quel sentiero di terra. Ci raccontammo delle storie, storie che conoscevamo o che ci inventavamo al momento. Fiabe, favole, storie di guerre, di arte, leggende. Fu una passeggiata piuttosto lunga, ma quando arrivammo al confine tra il bosco e Bordeaux, tirai un sospiro di sollievo.
Mia zia ci stava già aspettando a qualche metro di distanza, accanto ad una staccionata di legno che segnava il perimetro di un enorme campo di terra. Non appena fummo in macchina, successe tutto quello che mi aspettavo. Mi sgridò e mi mise in punizione. Tutto, davanti Noora e Louis. Ma non me ne importò neanche stavolta. Mi sentivo più sollevata ora che mia zia era con noi.
Su richiesta di Louis, lo portammo verso l'Église Saint- Bruno dicendo che viveva lì vicino. Non avevo idea se stesse dicendo la verità, non avevamo mai parlato di nulla di così personale, ma facemmo ciò che disse. Sceso dall'auto, lo salutai con un abbraccio e gli dissi che ci saremmo visti il giorno dopo. In quel momento, sentii in me una voglia matta di non lasciarlo, di rimanere lì ad abbracciarlo all'infinito, perché gli abbracci di Louis si stavano rivelando paterni e così sicuri per il mio cuore.
Quando, però, risalii in macchina e ci lasciammo Louis alle spalle, tornai a pensare a quello che era successo in quella maledetta casa.
«Noora può venire da noi, per passare la mattinata insieme?» Tentai di chiedere a zia Félicité, che non aveva osato pronunciare parola con me, troppo arrabbiata per potermi anche solo guardare.
Mi guardò, però, con la coda dell'occhio e accennò ad un debole sorriso. «Sei in punizione, Anaïs.» Mi ricordò, con tono divertito.
«Tu non mi hai vietato di vedere i miei amici.» Mi morsi il labbro. Amici? Louis era mio amico, Noora era molto di più di un'amica, cavolo. Non avevo coraggio di ammettere davanti a mia zia che, quella che avevamo alle nostre spalle, era la mia ragazza, la persona che amavo di più di ogni altra cosa al mondo. Perché mi era così difficile ammetterlo ad alta voce?
Mia zia, comunque sia, mi diede il consenso e, una volta arrivate, Noora rimase a guardare casa. Supposi che la prima volta che aveva messo piede in casa mia, non aveva fatto caso a niente per quanto avesse la fretta di parlarmi, di affrontarmi. E chissà, di baciarmi. «Wow.» Fu la prima cosa che disse.
Ridacchiai davanti la sua reazione. Feci per prenderla per mano ed accompagnarla dentro, ma repressi la voglia di farlo facendole un cenno alla porta aperta. A casa, mio zio Julien era già pronto per andare a lavoro, ma se ne stava seduto davanti la TV a guardare una partita di golf, sport che lui considerava sacro.
«Come mai così presto, Anaïs? Il campeggio era noioso?» Chiese senza voltarsi.
«Abbastanza, zio.» Gli andai dietro per abbassarmi e dargli un casto bacio sulla guancia barbuta.
Lui si voltò appena e, appena vide Noora, fu sorpreso, tanto che si alzò e le andò in contro, con una mano stesa verso di lei. «Wow.» Disse, quasi ammirevolmente. «Non capita tutti i giorni che Anaïs ci faccia ricevere visite.» Scherzò, mentre Noora stringeva la sua mano. «Sono Julien.»
Lei gli sorrise, al quanto imbarazzata. Non l'avevo mai vista così rossa sul viso prima d'ora. «Noora.»
Mio zio indicò la cucina e tornò a guardarmi. «Se volete far colazione, la cucina è tutta a vostra disposizione:» Fece un accenno a Noora e alzò le labbra in un sorriso. «Vorresti restare anche a pranzo, Noora?»
Spalancai gli occhi, di colpo. A pranzo. Insieme ai miei zii. Come se fosse un pranzo dove la mia famiglia incontrava la mia ragazza. Che cosa sarebbe successo se avessero accennato ad un ipotetico ragazzo? Sperai che Noora scuotesse la testa, che dicesse che fosse già impegnata e che sua madre o suo padre l'aspettasse impaziente a casa. Di colpo, l'idea di portarla a casa non fu una grandissima idea e mi maledissi per aver pensato che lo fosse. In un attimo, pensai a tutte le cose più brutte che sarebbero potute accadere e iniziai a sudare freddo.
Noora, infatti, corse a guardarmi, senza dire ancora niente. «Ehm...»
Non c'era niente che potessi fare per aiutarla, in quel momento. I miei muscoli e perfino il mio scheletro si erano intorpiditi così tanto che mi sembrava difficile anche muovermi. Deglutii. Correvo da mio zio a Noora e da Noora a mio zio. Se avessi risposto per lei – e Noora me l'avrebbe lasciato fare – e avessi negato l'opportunità di farla sedere intorno al nostro tavolo, zio Julien avrebbe chiesto il perché ed io non avevo un perché logico. «Ehm...»
Zia Félicité entrò in casa con lentezza, chiudendosi la porta alle spalle. Appena sentì silenzio chiese che cosa stesse succedendo con tono abbastanza divertito.
«Succede che non si sa se Noora vorrebbe restare a pranzo con noi o no.»
Mia zia esultò felicemente. La sua reazione fu come un duro colpo per me. «Ma certo che vuole, non è vero, Noora?»
Noora improvvisò un sorrisetto timido. «Già.» Risultò facile fingere davanti ai miei zii, ma sapevo benissimo che Noora stava provando le mie stesse emozioni.
«Bene...» Commentai. Indicai il soffitto. «N-Noi siamo di sopra.» Annunciai poco dopo, spingendo Noora verso le scale della casa. «Più tardi scenderemo per fare colazione.» Avvisai chiaramente, per evitare che bussassero alla porta della mia camera e l'aprissero per poi scoprire cose che non dovevano scoprire. «Buona giornata, zio, in caso non dovessimo vederci più fino a pranzo.»
Con mio piacere, salendo le scale, Noora ricordava ancora la strada che portava alla mia camera e ne fui felice. La mia stanza da letto era sempre stato un posto perfetto, il mio posto perfetto, che non condividevo con nessuno, se non con me stessa e con i miei miliardi di pensieri ed idee che correvano freneticamente nella mia testa; era un posto che, secondo le mie regole, doveva essere meritato da persone giuste, da persone che potessero avere l'anima buia quanto la mia; non era facile aprire le porte di quella camera a persone che non capivano l'arte di sé, ma, in qualche modo, Noora, sin dal primo momento, mi aveva dato l'aria di capire abbastanza sé stessa, perciò non fu per niente difficile farla accedere al mio mondo pieno di regole stabilite e condotte da me. Sperai che non trovasse del disordine tra i miei schizzi fatti alla rifusa nel mio armadio disordinato, che potesse capire e confrontarsi con l'arte del cielo che si riconosceva grazie al lucernario, che, una volta che ci saremmo trovate sul mio materasso, lei potesse dipingere da sé l'arte dell'amore, su di me, senza aver paura di sbagliare. Perché io, dopo tanto tempo, avevo imparato a non avere paura di confrontarmi con l'amore e la sua arte e sperai che per lei fosse la stessa cosa. Così, una volta chiusa a chiave la porta, tornai a guardare la sua figura che gironzolava intorno alla mia camera e volli dirle di far finta di non essere nella mia camera, ma nella nostra camera; di comportarsi come avrebbe fatto in un posto che la mettesse a suo agio; volli rassicurarla dicendole che se avesse voluto spogliarsi di fronte ai miei occhi che non l'avrebbero giudicata neanche un instante, poteva farlo. Perché quella non era più la mia camera da quando Noora ci aveva messo piede, ma era la nostra camera; se avesse voluto poi baciarmi e stringermi in eterno sotto quel manto di stelle che iniziava a farsi vedere dal lucernario, poteva. Non le avrei negato niente. Perché se voleva farlo, ero a sua disposizione.
Quando avanzai verso di lei, il mio corpo, ad un certo punto, iniziò a bramare il suo, di corpo. Voleva sentirselo addosso, sentire le sue mani che percorrevano tutti i suoi tratti, le sue piccole curve che iniziavano a mostrarsi, le parti più impensabili. Volli che lo facesse, che lo facesse velocemente e lentamente. Volli sentirla sotto di me, sopra di me, dentro di me. Un'emozione inspiegabile che si mischiava a l'arte. Chiedevo tutto questo. Solo questo.
«Hai disegnato, recentemente?» Mi chiese poi, facendomi tornare al mondo. Stava toccando il mio album da disegno che avevo lasciato sul mio letto il giorno prima di lasciare casa e avventurarmi in quel bosco.
Annuii. Fui sollevata che non stesse mettendo in ballo quello che era successo prima di sotto.
Noora, senza chiedere il permesso – e non avrebbe dovuto neanche –, aprì l'album e cominciò a togliere dall'interno tutti i disegni che c'erano – finiti e non. La guardai intensamente mentre le sue mani – su cui le vene erano gonfie – toccavano e lisciavano la carta ruvida e dura. C'era poco da spiegare, in quei disegni: c'era la scuola, il paesaggio che circondava la mia casa, il cielo di notte, schizzi di animali e persone che immaginavo stare davanti ai miei occhi. Un disegno in particolare sembrò prendere tutta la sua attenzione, sistemando tutti gli altri disegni che aveva in mano sulle lenzuola del letto e rimanere soltanto con quello in mano. In piedi, davanti a lei che stava seduta sul materasso, non riuscivo a capire quale disegno l'avesse turbata così tanto da non sembrare più così affascinata, ma ombrosa e triste.
Quando lo volse verso di me per chiedere spiegazioni, un macigno colpì il mio stomaco. Non ricordavo neanche quanti anni avesse quel disegno; inoltre, era quello che Davis aveva in mano, quel giorno in cortile, dove, per la prima volta, avevo avuto il piacere di parlare con Noora. Era come se quel disegno avesse avvicinato me e Noora fino a quel momento, dove ci stavamo per confrontare con esso, stavolta sul serio.
Non mi dovetti spiegare, però. Lei aveva già capito chi era il soggetto che se ne stava in silenzio su quel foglio di album; lei, seppure non la conoscesse, sapeva chi fosse quella donna dai lineamenti delicati e scolpiti, dai lunghi capelli biondi e dagli occhi azzurri e spenti; aveva già capito chi fosse quella donna che si ostinava a sprecare giorni seduta su una sedia, a guardare il vuoto fuori dalla finestra della sua camera, in un centro psichiatrico. Aveva capito tutto. Ero io che non avevo capito niente.
«Ti somiglia molto.» Commentò con voce piccola Noora, mentre continuava ad osservarla, stavolta con un sorriso debole e sincero. «È davvero bella.»
Non seppi perché, ma capii che, in realtà, si riferisse ad entrambe; che il fatto che mia madre, una bella donna come lei, avesse dato vita a qualcuno come me, bello come lei, la faceva stare bene e, in compenso, faceva stare bene anche a me, perché nessuno mi aveva mai detto che fossi bella e nessuno si era mai complimentato con mia madre per avermi donato la sua bellezza.
«È stata una delle poche volte che sono entrata nella sua stanza.» Le spiegai, mentre abbassavo lo sguardo sul mio quadro. «Mia zia era scesa per andare a prendere del caffè e mi aveva detto di stare attenta a mia madre.» Sorrisi al ricordo. «Avevo più o meno quattordici anni.» Toccai il volto di mia madre, lì dove la matita sembrava leggera e liscia come la sua pelle. «Lei già non parlava più, eppure sapeva che fossi lì. Era come se fossi all'interno di un'opera d'arte, come se l'unica persona che aveva il privilegio di respirare e vivere, fossi io.» La mia mente mi riportò a quel momento, forse proprio il giorno in cui Davis aveva scoperto la verità su mia madre. Non ricordai bene, ma il pensiero del ragazzo svanì immediatamente dalla mia testa. «Tutto intorno a me era immobile, perfino la pioggia che, da fuori, sbatteva contro la finestra della stanza. L'unico, a battere in quel momento, era il mio cuore che voleva soltanto che mia madre mi dicesse un ciao, o mi chiedesse qualcosa.» Deglutii. «Penso che sia stata la prima volta che mi sono resa conto di essere sola al mondo.»
Deglutì anche Noora e potei avvertire la sua tensione accanto a me. Mi cinse la vita con un suo braccio e mi baciò la fronte.
«Mi sembrava, però, che fosse perfetta.» Sorrisi. «Lei è sempre stata perfetta. Più di mia zia, nonostante siano gemelle, e più di me, nonostante sia sua figlia.» Feci una pausa. «Ero convinta di avere tutto il tempo del mondo per disegnare mia madre e il vuoto che emanava, perché l'arte di una donna di carta è eterna.»
«L'arte della donna di carta.» Sussurrò Noora, come se avesse capito ogni cosa.
Serrai le labbra. «Non riesco più ad entrare nella sua stanza, perché l'idea che lei non sappia più che cosa sia il mondo, che cosa sia lei e che cosa sia io mi fa rabbia.» Respirai, trattenendo le mie emozioni. «Non so che darei per sentire il mio nome sulle sue labbra.» Conclusi, senza rendermi conto delle parole usate. Mi coprii il volto, emanando un suono come quello di un lamento. «Argh! Ti starò annoiando!»
Noora scoppiò a ridere, allegramente, tornando a farmi percepire i colori della felicità. «Non mi annoi mai, Anaïs.»
Mi lasciai cadere sul materasso, ridendo.
Lei mi affiancò, togliendomi le mani dalla faccia. Avvicinò le sue labbra alle mie e mi baciò con delicatezza, una delicatezza sufficiente per farmi battere velocemente il cuore. La ringraziai per regalarmi sempre della luce quando tentavo di aggrapparmi alle mie tenebre e la ringraziai per essere al mio fianco e di ascoltarmi.
Su quelle lenzuola, non andammo oltre: non potevamo andare oltre. Restammo sdraiate su quel letto, senza abbracciarci o avere qualche contatto. Restammo lì, con le mani sulla pancia e gli occhi rivolsi verso il lucernario, sempre il nostro solito complice.
Il pranzo non fu poi disastroso come mi immaginavo e Noora restò tutto il pomeriggio a casa mia, partecipando anche al second round, ovvero la cena che zio Julien volle preparare. Si era fatto buio, fuori, e il cielo era già coperto dalle stelle.
«Tu pensi che ci siano mondi paralleli, lì fuori?» Chiesi ad un certo punto, con gli occhi pesanti e una grande voglia di dormire.
Noora corse a guardarmi. «Per quale motivo me lo chiedi?»
Alzai le spalle, senza smettere di fissare il cielo. «Perché mi chiedo se in uno di quei mondi, io e mia madre stiamo parlando.» Feci una pausa. «Magari di te.»
Lei non aveva smesso di fissarmi. «Se tua madre fosse in grado di ascoltarti, tu le parleresti di me?»
Fu allora che la guardai. Era bella quando i suoi occhi risplendevano. Era bella quando sembrava particolarmente colpita dalle mie parole insensate. Era bella e basta. «Le direi tutto.» Risposi.
«E non avresti paura di spiegarle chi sei veramente?»
Scossi la testa, tornando a rivolgermi al cielo. «No. Non credo che, in un mondo parallelo, sarei così spaventata da me stessa.»
«Anaïs?»
La sua voce mi colpì particolarmente, così tanto che tornai a guardarla. «Si?»
Noora non mi toccò, ma fu capace, in ogni caso, di raggiungere il mio cuore e di legarlo per sempre al suo. «Voglio che tu mi dica tutto ciò che ti passa per la testa, perché non ho mai visto niente di più affascinante e complesso di te.»
Il suo sguardo pieno di speranza, mi fece distogliere lo sguardo. Non c'era niente di affascinante o complesso in me; c'erano soltanto pietre e pezzi affilati di vetro intorno a me, per proteggermi da tutto ciò che potesse ferirmi. E diamine, era filato tutto liscio come l'olio prima che Noora entrasse nella mia vita e cercasse di rompere ogni mia barriera creata nel corso degli anni. Seppure fosse entrata nella mia vita con un'agilità da far paura, non sapevo quanto potessero resistere, quelle protezioni. Speravo che Noora potesse abbatterle tutte, ma nello stesso tempo volevo che stesse lontana da me, ma il solo pensiero di averla lontana mi soffocava. Mi sentii uccidere dai miei stessi pensieri, ma lei tornò a fare forza intorno alle mie barriere che, definitivamente, crollarono sotto il suo tocco che ora regnava sulla mia guancia. Mi obbligò a guardarla profondamente negli occhi. Me li sentii dentro, quegli occhi. «Fammi spazio nel tuo disordine, Anaïs.» Sussurrò con un filo di voce, come se neanche avesse detto quelle parole.
Venni completamente e totalmente balzata fuori dal confine dei miei scudi, stavolta. Mi ritrovai in un mondo sconosciuto e in preda ai miei sentimenti più profondi, sentimenti che si evolsero automaticamente dopo quelle parole che mai mi sarei aspettata di sentire.
Mia zia ci chiamò dal piano di sotto, ma facemmo finta di non sentirla.
Fammi spazio nel tuo disordine, Anaïs.
Fammi spazio anche tu nel tuo, Noora.

Nel tuo disordineDove le storie prendono vita. Scoprilo ora