10. Another side of the heart

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La cena si rivelò al quanto interessante rispetto al pranzo. Ero ancora scossa dalla conversazione avvenuta tra me e Noora, ma mi ero sciolta quando avevamo cominciato a parlare di musei e quadri, con l'accenno di mio zio a quanto io amassi l'arte – come se Noora non lo sapesse.
Il giorno seguente, dopo scuola, io e Noora non vedemmo Davis tra i corridoi e fummo sollevate. Mi disse, però, che quello stesso pomeriggio mi avrebbe portata in un posto che conoscevo abbastanza bene ma anche non amavo particolarmente.
All'inizio non ci arrivai e passai l'intera giornata scolastica a pensare che posto avesse quelle caratteristiche da lei nominate. Il cinema no, l'amavo; i musei d'arte no, li amavo; il supermercato no, perché in fondo mi piaceva andare a fare la spesa con mia zia; le Parc Bordelais sulla Rue di Bocage no, perché lì avevo iniziato a disegnare i miei primi quadri raffiguranti dei paesaggi. Non avevo idea che luogo intendesse, eppure la risposta fu così facile, dopo.
«Dove mi porti?» Indagai, allora, sull'autobus che aveva indicato lei alla fermata.
Noora sorrise, quasi divertita. «Lo scoprirai.»
Quel suo volermi nascondere ogni cosa non mi piaceva affatto: odiavo le sorprese, però lei rendeva il tutto così dannatamente misterioso che la curiosità mi tradiva. Restai al suo gioco, anche quando scendemmo alla fermata che Noora aveva deciso, anche quando mi ritrovai la clinica di mia madre davanti gli occhi e anche quando Noora mi diede una leggera pacca sulla spalla.
«Perché mi hai portata qui?» Non ero arrabbiata, neanche frustrata. Semplicemente... perché?
Noora tornò a guardare l'edificio. «Perché hai bisogno di vedere tua madre.»
Non le rimbeccai niente. Aveva ragione.
Entrammo nella clinica. Era così strano entrare lì dentro affiancata da Noora e non da zia Félicité, ma mi sentii più rilassata del solito. La cosa che più mi sorprendeva e che più mi rendeva felice era che dopo tutto quello che ci eravamo dette, aveva ancora il coraggio di starmi accanto e portami in quel luogo perché pensasse fosse utile. Chi altro avrebbe fatto una cosa del genere per me?
Una dottoressa dal lungo camice bianco ci venne vicino e, con aria a dir poco frettolosa, ci chiese chi stavamo cercando. Le dissi il nome di mia madre, Viviane.
La dottoressa controllò il nome sulle tantissime schede che portava in mano e, una volta che lo trovò, annuì. «Tu sei Anaïs, vero? Sua figlia.»
Annuii. Credevo che la somiglianza fosse qualcosa di incredibile, perciò non le chiesi neanche come facesse a saperlo. «E tu sei...?» Rivolta a Noora.
Corsi a guardarla.
Lei corse a guardare me.
Era una semplice domanda. Chi sei tu, Noora? Sei disposta a dire che sei la mia compagnia, o almeno la mia ragazza o ti tratterrai ancora come faccio io, nonostante l'amore incondizionato che sto imparando a conoscere ed apprezzare?
«Lei è Noora. Ed è qui con me.» Risposi, determinata, sicura delle mie parole, certa di aver intendo, finalmente e involontariamente, che Noora fosse qui perché, oltre ad essere un supporto morale, era anche la mia ragazza, la mia compagnia di vita.
Ma la dottoressa annuì e basta. Sembrava troppo tranquilla per aver capito qualcosa di troppo grande.
La seguimmo tra i corridoi, mentre pazienti e parenti ingombravano ogni centimetro di quel posto.
Pensai che non ce ne accorgessimo mai - durante il giorno, il pomeriggio, la notte - ma c'erano così tante persone nella stessa situazione di mia madre, che passavano intere giornate ad osservare il vuoto dalla loro finestra mentre, dietro le porte della stanza, c'erano i loro familiari che si disperavano, che pregavano Dio o qualsiasi forma divina per riportarli indietro. Gente che si disperava, gente che piangeva... e poi c'eravamo noi, il mondo esterno, che se ne fregava dei problemi veri e complicati. Quel posto poteva piacermi o non piacermi, ma era vero che mi aveva insegnato molto di più della scuola.
Mi ritrovai, così, davanti la familiare porta nera di mia madre. La dottoressa ci ricordò di non pressarla perché il suo stato mentale non avrebbe retto. Ciò mi fece male, ma mi rincuorò quando ci avvertì che, per qualunque cosa, lei sarebbe stata fuori ad aspettarci.
Non ebbi coraggio ad afferrare la maniglia e aprire la porta, perciò fu Noora a farlo, posandomi una mano sulla schiena e invitandomi ad entrare.
La luce solare proveniva dalla finestra che si trovava dall'altra parte della porta. C'era calore all'interno, un calore nuovo e naturale, un calore che non avevo voluto mai conoscere. Il letto giaceva a qualche metro di distanza dalla porta ed era ordinato e sistemato. Il calendario appeso accanto ad esso era rimasto a dicembre dell'anno prima ed era vuoto, non c'era neanche  una scritta, un qualcosa che potesse ricordare qualcos'altro. La stanza era interamente bianca, nessun colore in particolare regnava lo spazio intorno a noi, se non lo scintillio di una piccola ma significante stella che, nonostante non lo sapesse, brillava ancora. Come l'avevo lasciata, si era presentata davanti ai miei occhi. Mia madre se ne stava seduta sulla sedia accanto al letto e guardava fuori dalla finestra, senza neanche essersi resa conto che avesse degli ospiti. Smisi di respirare. Se mi concentravo ancora un pochino, con quel silenzio, avrei sentito il suo cuore battere.
Noora mi toccò la spalla e mi invitò a fare il primo passo.
Deglutii. Era difficile.
Camminai accanto a letto, per poi arrivare davanti il suo corpo quasi inerme. Non seppi se toccarla o inginocchiarmi ai suoi piedi, evitando il suo contatto. Avevo paura che, posando una mia mano su di lei, magari, potesse iniziare ad urlare e dare di matto, impedendomi di stare in quella stanza. Avevo bisogno, però, che mi guardasse e pronunciasse il mio nome. Volevo che le sue mani trovassero le mie. Odiavo il fatto che non potesse percepire niente. Era colpa mia se mia madre si era trovata in quelle condizioni? Era perché non era più riuscita a sostenere la mancanza di mio padre e, insieme, l'idea di dover crescere sua figlia da sola? O era semplicemente il destino, che sapeva dal principio che mia madre avrebbe vissuto una fine così insensata e triste? Potevo cambiare qualcosa?
Le toccai il ginocchio. Mi aspettavo che facesse qualcosa, che muovesse almeno un muscolo del dito o della gamba stessa, ma non accadde niente. Restò immobile, a guardare quell'infinito che, però, io non riuscivo a guardare né a percepire. Volevo dirle che mi mancava, che non c'era giorno che non pensavo a lei e ad un mondo parallelo dove io e lei eravamo felici e spensierate all'idea di vivere una vita insieme. Volevo dirle che volevo così tanto che le cose tornassero come prima. E volevo ripeterle che mi mancava come non mi era mancata mai, dirle che mi dispiaceva per lei e per me. Volevo sentire le sue braccia intorno al mio collo e sentire la sua presenza accanto alla mia presenza.
«Mamma?» Mi uscì dalla bocca, senza un motivo logico, senza pensare al perché avessi pronunciato quella parola che, dopo anni ed anni, era diventata soltanto una composizione di una consonante ripetuta per tre volte e una vocale ripetuta due volte. Non pensavo che potessi essere tanto spaventata nel pronunciare la parola mamma, soprattutto nel momento stesso in cui le mie labbra si chiusero e aspettarono una sua risposta.
Di Noora, non avvertii niente. Né un sospiro, né un respiro. Sembrava come sparita.
«Mamma, mi manchi.» Continuai, allora, sperando ancora che potesse dirmi qualcosa.
Mi bagnai le labbra. Realizzai solo in quel momento che non c'era nulla da fare, come non c'era nulla da fare dal principio. Che cosa mi aspettavo davvero? Che Noora avesse poteri magici e che potesse aiutare la mia speranza a dare di nuovo vita a mia madre? Che dicendole quanto mi mancasse si sarebbe svegliata? Che dopo tutto quel tempo, ora che c'era Noora con me, fosse il momento giusto? Da quando mi affidavo così tanto al fato?
Noora mi posò una mano sulla spalla. «È stata una brutta idea.» Sussurrò, in colpa.
Le strinsi la mano e socchiusi gli occhi. «Va tutto bene.»
Sapevo che l'aveva fatto per me, che voleva che affrontassi una delle mie paure più grandi. Noora non voleva farmi del male, voleva soltanto aiutare. «È come se fosse una statua, non è vero?» Le feci notare, con un filo di voce. Strinsi una mano di mia madre. Era fredda ma liscia come me la ricordavo.
Noora si inginocchiò accanto a me. «Che cosa le piace?»
Corsi a guardarla. Quasi mi ero dimenticata le lunghe passeggiate con mia madre, lungo il viale della nostra vecchia casa, a canticchiare le nostre canzone preferite e a ridere di quanto fossimo stonate. Le piaceva la musica e, quando iniziavamo a cantare, ero convinta che stonasse per farmi sentire meglio, per non farmi sentire imperfetta, perché lei, in realtà, era un usignolo. Come me, aveva un debole per l'arte e credo di aver preso da lei sin dalla tenera età: dipingeva e si perdeva così tanto nei movimenti del suo pennello che, intanto, le ore passavano e lei neanche se ne accorgeva. Ricordavo ancora l'ultimo quadro da lei dipinto: io che giocavo davanti a lei, nella mia cameretta. Quel giorno fortunatamente c'era il sole e sembrava una giornata come tante, ma non mi ero accorta del dolore di mia madre che era cominciato a presentarsi nel suo cuore da quel periodo in poi.
«Le piace disegnare.» La guardai e, nonostante l'espressione in volto che aveva, mi regalò pace e serenità. «Le piace disegnare come piace a me.»
Noora si alzò, allora, e, senza saperlo, trovò un block-notes e una penna all'interno del comodino accanto al letto. «Disegna per lei.» Disse, porgendomi il tutto.
Mi alzai dal pavimento e la guardai. Non seppi bene il perché volesse che lo facessi, ma accettai. Mi misi seduta sul letto, con gli occhi totalmente concentrati sulla carta.
Noora mi fissava, in piedi, dietro le mie spalle.
Finii per disegnare l'enorme finestra che mia madre si ostinava a fissare e lei stessa di spalle.
Strappai il disegno e lo porsi a Noora.
«Tutto questo per quale motivo?» Chiesi allora, stiracchiandomi le braccia.
Noora mi baciò la fronte. «Per farti tranquillizzare.»
Tornai a guardare mia madre. «Secondo te può sentirci?»
«Secondo me può farlo eccome, solo che non ha la capacità di reagire.»
Le strinsi una mano. «Grazie per essere qui.»
Noora mi sorrise, cingendomi le spalle. «Non mi ringraziare. Volevo conoscere tua madre.» Rispose, facendomi ridere. «Volevo ringraziarla per averti dato al mondo.»
Restammo qualche minuto zitte, ad osservare fuori dalla finestra. Serrai le labbra, poi. «Tu non mi hai mai raccontato nulla di te.» Me ne uscii.
Noora alzò le spalle. «C'è poco da sapere. Vivo con mia madre in città.»
«Tuo padre?» Chiesi, curiosa.
Noora sospirò. «Mio padre è scappato di casa almeno un anno fa.» Mi intimò. «Ha avuto a che fare con problemi di...» Fece una pausa, sospirando pesantemente. «Possiamo evitare di parlarne?» Chiese, come se facesse fatica a respirare.
Annuii, nonostante volessi che continuasse a parlare. Non volevo che si sforzasse, questo era certo, ma le avevo raccontato tutto di me, a differenza sua, e il fatto che non volesse parlarmi mi faceva dubitare su molto. Forse non si fidava abbastanza, forse non voleva condividere la sua vita con altre persone - perfino con me - o forse non amava parlare di se stessa e basta. Rimanemmo in silenzio per un bel po' di tempo, a fissare fuori dalla finestra. Quando il sole cominciò a tramontare, decidemmo di lasciare la clinica. Promisi a me stessa, però, che sarei tornata al più presto.
Prendemmo il primo bus che ci capitò davanti e sperammo che ci avrebbe condotte alle fermate desiderate. Io sarei stata l'ultima a scendere.
«Ho fatto bene a portati in clinica?» Chiese, di colpo di nuovo serena.
Annuii, senza alzare lo sguardo su di lei.
«Però c'è qualcosa che ancora ti turba.» Concluse, leggendomi di nuovo dentro.
Volevo che la smettesse di farlo, che non ero più così prevedibile come pensava che fossi e che, in fondo, ancora non aveva imparato a conoscermi completamente. Non volevo sembrare un libro aperto ai suoi occhi. Non volevo che leggesse il mio cuore quando io non potevo farlo e non riuscivo a farlo. «Non c'è nulla che mi turba.» Ribattei, sembrando sicura della mia risposta e cercando di farla stare in torto.
Noora alzò le sopracciglia. «Avanti, ti conosco.»
Corsi a guardarla. «Non mi conosci affatto, allora.» Sbottai, tornando a guardare il finestrino.
Noora non parlò per qualche secondo. «Vedi che c'è qualcosa che ti turba?»
Mi morsi la lingua per non proseguire il mio discorsetto da femminuccia, però mi rodeva. Mi rodeva un sacco la sua privatezza. «Tu sai tutto di me. Probabilmente sei l'unica persona che sa ogni cosa.» Le feci notare. «Perché io non posso sapere niente di te?»
Noora alzò gli occhi al cielo. «Perché è acqua passata, la mia, e non ci tengo a parlarti di ciò.»
«Perché?»
«Perché non è importante.»
«Stiamo parlando della tua vita.»
«Appunto. Non è importante.»
Solo ora realizzai che l'unica cosa che aveva sempre fatto Noora era quella di azzerare la sua mente e il suo cuore per preoccuparsi degli altri, di me, proprio come io facevo con lei. Non c'era spiraglio di luce che parlava di sé, della sua vita, dei suoi problemi. Chiudeva le porte di sé stessa con così tanta facilità da perdere il filo che conduceva alla porta del suo cuore, chiusa da chissà quanto tempo e che neanche il mio, di cuore, era riuscito ad aprire. Noora si annullava completamente a me. Ed io non mi ero mai annullata a lei completamente. «Perché parli così?»
Noora serrò le labbra, evitando il mio contatto visivo. «Perché è la verità, Anaïs.» Parlò con durezza, quasi con disprezzo. Qualunque cosa non volesse dirmi, l'aveva segnata nel profondo. «Non ne vado fiera.» Commentò, poi, abbassando lo sguardo.
Pensai a quante volte lei era stata premurosa con me, a quanto fosse stata paziente ad aspettare una mia risposta certa per quanto riguarda il nostro rapporto, a quanto fosse stata gentile a non pressarmi per raccontarle la mia storia. Io stavo facendo tutto il contrario, invece, e mi sentii all'improvviso egoista. «D'accordo, d'accordo. Scusami.» Le presi una mano. «Non volevo agire così.» Cercai di non farmi prendere e dominare dalla fretta di voler sapere ogni cosa, dal nervosismo di non sapere niente. Ero a conoscenza del fatto che mi stessi affacciando io su di lei e non più lei su di me. Ero consapevole che stavo avendo a che fare con un altro lato di Noora che mi era totalmente estraneo. Dovevo andarci piano. Non dovevo agire per me, ma per lei e fu in quel momento che pensai di potercela fare, che, in fondo, non eravamo per niente diverse.
Quando arrivammo alla sua destinazione, mi lasciò un bacio sulla guancia e mi disse che ci saremmo riviste il giorno dopo.
Pensai a lei per tutto il tragitto che mi divideva dalla mia fermata. Pensai a lei quando entrai nella macchina di mio zio che era appena rientrato dal lavoro. Pensai a lei quando aspettai la cena sul divano del salotto, davanti la TV accesa e troppo rumorosa.
Pensai a lei quando andai a dormire.
Pensai a lei durante i miei sogni.
Pensai a lei anche a scuola, quando mi aveva detto che ci saremmo riviste lì, ma Noora, quel giorno, scomparve.

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