L'avevo chiamata per tutto il giorno, ma non rispose mai. Neanche Louis l'aveva vista in giro per i corridoi.
«Avrà saltato la scuola, rilassati.» Fu il suo commento, ma io non ci credevo.
Noora non faceva mai nessun'assenza senza un motivo plausibile.
In autobus, tornando a casa, mi lasciai cullare dal movimento della guida dell'autista. Mai come in quel momento la volli accanto a me. Sembravano passati giorni, mesi da quando non la vedevo e il solo pensiero che potesse esserle capitato qualcosa mi stava facendo ammattire. Magari aveva ragione Louis, magari stavo andando nel panico per una sciocchezza. Forse non dovevo neanche pensarci come stavo facendo, ma era più forte di me. Senza neanche farlo a posta, l'autobus era anche vuoto e mi sentii di colpo vuota anch'io. Io e l'autobus, due anime sole che viaggiavano per il mondo, a dare un senso alle loro vite. Presi il cellulare dalla tasca e, proprio quando lo feci, cominciò a vibrarmi in mano. Spalancai gli occhi quando lessi il suo nome.
«Dove diamine sei?» Esclamai, sospirando di sollievo.
«A casa mia.» Rispose, tranquillamente. «Ti sono mancata?» Chiese, ridendo.
Il mio cuore ebbe un tuffo quando la sentii ridere. Un solo giorno e mi era mancata da morire. «Sei un'idiota.» Commentai, con tono duro e alzando gli occhi al cielo.
«Però mi ami.»
«Ti detesto, invece.»
«Perché mi dovresti detestare?»
«Perché mi hai fatto preoccupare per tutto il giorno!»
«Mi ami.»
Smisi di respirare. Ancora mi bloccavo un po' a dire quelle parole così dirette, così piene di significato. Dio solo sapeva quanto l'amassi, quanto mi facesse sentire amata e quanto mi piacesse l'amore che mi donava Noora. Avevo sempre atteso l'amore giusto, quello vero, quell'amore che ne valesse la pena. Noora ne valeva la pena, ma la mia lingua si sentiva ancora un po' annodata a pronunciare quelle parole così serie e così umane. Mi sentivo pronta ad amarla per tutta la vita, ma allo stesso tempo avevo paura che potesse scapparmi dalle mani se avessi compiuto un passo falso senza neanche volerlo. Però l'amavo. L'amavo senza un pretesto e l'amavo anche quando io stessa sentivo il dubbio di chiedermelo. «Ti amo.» Sussurrai allora, con voce piccola, con voce innocente, con la voce di qualcuno che desiderava ardentemente dirglielo in faccia. Ci furono secondi di silenzio, secondi per metabolizzare quello che ci eravamo appena dette, poi presi un bel respiro e le chiesi: «Che cosa hai fatto per tutto il pomeriggio?»
Noora non ci mise poco a rispondere. «Sono stata tutto il tempo a cercare.»
Aggrottai la fronte. «A cercare cosa?»
«A cercare pezzi della mia vita.»
Non risposi.
Noora proseguì, respirando profondamente. «Ho cercato in tutta casa delle fotografie, sperando di poterti raccontare al meglio quello che è la mia vita.»
Deglutii in automatico. Non era venuta a scuola per cercare delle fotografie da mostrarmi? «Non dovevi.» Mormorai poi, di colpo senza forze e in colpa.
«No, dovevo. Avevi ragione, ieri. Io so tanto di te, sul tuo conto, sulla tua famiglia, sulla tua vita. Tu non sai niente di me.» Fece una pausa. «Mi fido di te così tanto da raccontarti la storia della mia vita.» Un'altra pausa. «Fidati, non sarà noiosa.»
Abbozzai un sorriso debole, complice.
«Avvisa tua zia che starai da me, questo pomeriggio. Scendi alla mia fermata dell'autobus e io sarò direttamente lì.» Mi disse di fare.
Accettai l'invito senza pensarci due volte. Controllai dal finestrino se non avessi già superato la sua fermata, ma la fortuna volle che ne mancassero ancora un bel po'. «Ti conviene sbrigarti. Sono quasi lì vicino.» Mentii, cercando di frenare la mia risata.
Non volevo fargliela pagare per avermi fatto preoccupare per tutto il giorno. Volevo soltanto vedere quanto veloce fosse per arrivare alla sua fermata a prendermi. Volevo che corresse verso di me e, una volta che fossi scesa dall'autobus, che mi abbracciasse e mi sussurrasse che le fossi mancata come lei era mancata a me. E avrei voluto che mi baciasse davanti le persone che c'erano intorno come segno di protesta, come segno di menefreghismo nei loro confronti. Volevo una scena del genere, una scena commovente ma allo stesso tempo liberatoria. Come quella che si vedeva spesso nei film. O forse volevo soltanto vederla e basta. Quando scesi, infatti, lei era già lì, con i suoi occhiali da sole e il suo solito modo all'americana di vestirsi. Mi venne incontro quando l'autobus tornò sulla strada e mi abbracciò affettuosamente. La strinsi forte. Ricordai i nostri corpi sul mio letto e ricordai i suoi tocchi. Chiusi gli occhi. Ero tornata a casa, di nuovo.***
Le foto sparpagliate sul tappeto erano davvero tante. Scoppiai a ridere quando mi mostrò una foto di una bambina dai capelli mori che faceva il bagno. Cercai di fargliela mettere via, perché era stata scattata in un momento intimo, ma lei non lo fece con la scusa che l'avessi già vista nuda e, fortunatamente, era la verità: mi sentii onorata di averla già vista senza vestiti, perché era come se quel momento intimo del suo passato fosse appartenuto anche a me dal momento stesso in cui avevamo fatto l'amore per la prima volta, perché l'avevo vista nuda - come in quella foto - e lei aveva visto me nuda.
Tutte quelle fotografie rappresentavano diverse tappe della sua vita nelle quali desiderai essere stata. La maggior parte di esse, però, immortalavano Noora con una signora abbastanza diversa da lei, a parte il colore della pelle e i capelli scuri. Doveva essere sua madre.
«Mia madre ha bruciato moltissime foto con mio padre. Per questo-» Si voltò e prese quelle poche fotografie che aveva in mano. Arricciò le labbra. «-ne ho così poche.»
Le sorrisi riconoscente e le presi dalle sue mani calde. «Va più che bene.» La rassicurai.
Suo padre, infatti, le assomigliava di più, dal contorno dei suoi occhi e dalla forma dei suoi zigomi. Avevano le stesse gambe magre e la stessa sicurezza visibile dalle spalle, per niente incurvate ma rigide. Sembravano due gocce d'acqua. «Gli assomigli.» Commentai. Alzai gli occhi su di lei. Serrai le labbra. Volevo sapere che fine avesse fatto suo padre, ma chiederlo mi sembrava così rude che frenai la lingua e aspettai che dicesse qualcosa lei.
Mi lesse nel pensiero, fortunatamente. «Ha mentito per tutta la vita a mia madre.» Cominciò a raccontare, riprendendo qualche foto dalle mie mani, mentre le guardava con malinconia ma, allo stesso tempo, con disprezzo. «Le aveva detto che lavorava in una fabbrica, a qualche chilometro di distanza da Bordeaux. Si fidava di lui, perciò non aveva mai chiesto niente. Il lavoro era un suo affare e mia madre non voleva interferire.» Abbassò poi lo sguardo, sospirando. «Fino a quando... beh, mia madre ha scoperto che, in realtà, vendeva droga per accumulare soldi; una piccola parte la donava a mia madre e la più grande se la teneva per sé.» Deglutì. «Se ne è andato quando avevo sette anni. Magari ora sarà a Dubai nel suo bellissimo e costoso attico.» Serrò le labbra, respirando profondamente. «Mia madre, allora, subito dopo, ha dovuto trovare un lavoro.» Sorrise. «Ora lavora in un ufficio e stiamo bene, fortunatamente.» Fece una pausa. «Mi ha dato davvero tanto e non riesco mai a ringraziarla abbastanza.» Tornò a guardarmi. «Ieri, quando siamo andate a trovare tua madre, mi sono resa quanto io sia fortunata.» Corse a prendermi una mano. «E non dico che tu non lo sia ma...»
Non c'era bisogno che aggiungesse nient'altro. Avevo capito che cosa intendesse e aveva ragione. Lei aveva la possibilità ogni giorno di dirle quanto volesse bene a sua madre, di ringraziarla per essere sempre al suo fianco e di sopportarla e di vederla crescere sotto i suoi occhi e, a quanto pareva, non lo faceva mai.
«Ho sentito la necessità di rimediare perché ho paura che, un giorno all'altro, possa andarsene anche lei.»
La vidi asciugarsi una lacrima improvvisa. Non l'avevo mai vista in quel modo. «Qualcuno della scuola sa di tuo padre?»
Scosse la testa. «No, non credo di potermi fidare di qualcuno, lì dentro.» Si avvicinò al mio viso, quel poco che bastava per premere le labbra sulle mie. «Sei l'unica di cui mi fido, Anaïs.»
Ad un tratto, il salotto in cui eravamo da almeno un'ora odorò di noi. Il divano, il tappeto su cui eravamo distese, le tende che ornavano le finestre che si affacciavano sulla strada, le pareti rosate e perfino i nostri vestiti. Ci bastò un solo bacio, un bacio fatto di amicizia ma anche di amore, e tutto era cambiato. Era magica, Noora. Ero magica, io.
Presi in mano una sua foto, quella in cui qualcuno l'aveva ritratta seduta su una panchina - probabilmente in un parco - con suo padre, entrambi sorridenti di fronte la fotocamera. «Penso di volermela tenere.» Sussurrai.
«È tutta tua.» Rispose.
Corsi a guardarla. Pensavo che non mi avesse neanche ascoltata. «Ti ringrazio.» Guardai di nuovo suo padre, nella fotografia. «Ti manca?»
Noora si sedette sul pavimento, sgranchendosi la schiena. «A volte si, ma vorrei che non fosse mai entrato nella vita di mia madre.»
Mi alzai dal pavimento una volta che mettemmo le fotografie all'interno della loro scatola, sistemandole ai piedi del divano. «A quel punto tu non ci saresti stata.»
Noora alzò le spalle. «Fa differenza?»
Le diedi uno schiaffetto sulla guancia. «Sei odiosa quando fai la drammatica.»
Rise e mi abbracciò, stringendomi forte a lei. Respirai l'odore di lei, il suo profumo naturale, quel profumo che non sapevo a cosa si riferisse perché sapeva tanto di tutto e tanto di niente. Sapeva di Noora. Prendendomi per una mano, poi, mi portò sulle scale e si volse, sorridendomi.
Sapevo dove mi stesse portando e non vedevo l'ora di togliermi i vestiti e giacere sul suo letto per la prima volta in tutta la mia vita.
Quando, infatti, stavamo per incollarci l'una contro l'altra, mi fermai un secondo. «Parlerai con tua madre?» Le chiesi.
Noora si tolse la maglietta, poi la tolse a me. «Parlerò con mia madre.» Concluse, tappandomi la bocca con un bacio.
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Nel tuo disordine
Teen Fiction'Mi obbligò a guardarla profondamente negli occhi. Me li sentii dentro, in un instante. «Fammi spazio nel tuo disordine, Anaïs.» Sussurrò con un filo di voce, come se neanche avesse detto quelle parole. Venni completamente e totalmente balzata fuori...