14. Love my way (FINALE)

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Le tolsi le lenzuola di dosso non appena la sveglia suonò. Lei mugugnò qualcosa. Fortunatamente, sua madre le aveva dato il permesso di stare qui da me e mi ero sentita più leggera all'idea che ella si fidasse a lasciarla dormire a casa mia. Non avendo nessun cambio, però, le avevo preparato i miei vestiti - sicura che l'entrassero - sulla sedia della mia scrivania.
«Sento che la mia testa sta per esplodere.» Si lamentò, rotolandosi nelle coperte e coprendosi il viso con il cuscino.
Con il pigiama addosso, la guardai. «Vuoi restare a casa?» Lo dissi come se quella fosse anche casa sua, come se abitassimo insieme e da sole, indipendenti dagli adulti e sicure di poter vivere una vita perfetta. Arrossii.
Noora scosse la testa, senza farci caso, però. «No, voglio sputare in faccia a Davis e a Louis.» Rispose, una volta seduta sul materasso. Si stropicciò gli occhi.
Io tornai sul letto e premetti le labbra contro le sue. Non volevo andare a scuola, ma restare a letto abbracciata a lei, magari senza vestiti, ripentendole che non avevo bisogno di niente nella vita se non del suo corpo e del suo cuore.
«Mi dispiace per averti creato problemi, in questi giorni.» Sussurrò, poi, una volta preparate e pronte a scendere le scale.
Non le risposi, ma afferrai il mio zaino. Poi, aggrottai la fronte. «E il tuo, di zaino?» Chiesi, cercando di cambiare argomento.
Alzò le spalle. «Ho tutti i libri delle lezioni nel mio armadietto. Per quanto riguarda le penne... beh, mi arrangerò.»
Sospirai e le diedi qualche penna che avevo.
Mi ringraziò.
Non appena fummo in cucina, zia Félicité aveva già preparato tutto, dal succo d'arancia ai toast incrostati come piacevano a me.
Noora non resistesse a bere qualcosa ed io la imitai.
Una volta fuori in giardino, Noora accarezzò i miei gatti ed entrammo in auto.
Mia zia ci augurò una buona giornata non appena arrivammo nel cortile scolastico.
Ci incamminammo verso l'entrata della scuola.
«Sono andata da mia madre, ieri.» Avvisai Noora, mentre tutti quanti, velocemente, ci scrutavano e ci fissavano con aria confusa, sorpresa e contraria.
Noora scoccò a tutti un'occhiata infastidita, per poi far scivolare una sua mano nella mia.
Spalancai gli occhi e posai lo sguardo sulle nostre mani.
«E come è andato l'incontro?» Mi chiese come se non stesse succedendo niente, abbozzando uno dei suoi solito sorrisi.
Mi schiarii la voce. «È stata lei a convincermi a chiamarti.»
Camminammo per i corridoi, ancora con le mani intrecciate. Inutile dire che fummo al centro dell'attenzione.
Noora mi lasciò davanti la mia aula di matematica. «Ci vediamo dopo, okay?»
Annuii.
Mi baciò.
Era sempre un emozione baciarla ed ora era meraviglioso perché potevo farlo ovunque.
«Stasera penso di voler preparare la cena, per mia madre una volta tornata da lavoro. Verresti?» Mi chiese dopo qualche secondo, prima che la campanella suonasse.
Non seppi perché, o come, ma risposi in fretta con un certo, seguito da un sorriso.
La giornata corse in fretta, un po' perché non vedevo l'ora di uscire dalle aule a causa delle occhiate rigide dei miei compagni, un po' perché volevo andarmene via con Noora e stare tutta la giornata con lei, come avevamo stabilito poi in un messaggio.
Ci incontrammo in cortile. Mi prese di nuovo la mano.
«Non devi farlo per compiacere gli altri.» Le dissi.
Noora corse a guardarmi, fingendosi toccata nel profondo. «Non lo faccio per compiacere gli altri.» Mi rispose.
Prendemmo il solito autobus, ci fermammo alla solita fermata e camminammo per il suo quartiere per almeno dieci minuti, fino ad arrivare alla sua porta. La casa di Noora non aveva nulla a che vedere con la mia abitazione e non stavo affatto giudicando. Era così semplice e così onesta, spruzzante di lealtà e di vivacità. Una piccola casa ma un grande pezzo di storia. Era l'abitazione di Noora e ciò rendeva il luogo ancora più magico. Dovevo abituarmi ad entrare da quella porta e lasciare che l'odore della casa diventasse parte di me.
Ero felice, il mio cuore era felice, la mia anima era felice, il mio mondo era felice.
«Sono così contenta che tu sia qui.» Sussurrò Noora, una volta che chiuse la porta. Si avvicinò a me con un sorriso complice e mi avvicinò a sé, prendendomi dai fianchi e stringendomi dalla schiena. Posò le sue labbra sulla mia fronte e fu come se il nostro litigio non fosse mai esistito, come se il suo cuore spezzato non fosse stato opera mia, come se lei non avesse mai pensato niente di negativo nei miei confronti. Mi baciò come per dirmi che dovevo stare tranquilla, che mi amava come mi aveva sempre amata, che non c'era niente e nessuno che potesse farle cambiare idea.
Ci sdraiammo sul divano, io sotto e lei sopra e ci togliemmo i vestiti non appena sembrò il momento giusto. Mi disse che avevamo tempo, che era ancora presto e che sua madre sarebbe tornata verso l'ora di cena. Facemmo l'amore, parlammo del più e del meno e ridemmo senza un perché. Mi sentii come se non volessi più svegliarmi da quel sogno, che mi andava bene vivere per sempre in quella casa, che mi sentivo più a casa lì che nella mia. Volevo ancora le sue mani su di me e i suoi baci sul mio collo, volevo ancora toccare le sue curve e ansimare il suo nome, ma avevamo così tanto da fare che ci fermammo, nonostante costasse ad entrambe. Ci vestimmo ma lei andò a farsi la doccia, così da restituirmi i vestiti che le avevo prestato quello stesso giorno. Mi chiese se volevo fare la doccia anch'io, magari con lei, ma l'idea di vederla bagnata e nuda davanti a me mi esaltava così tanto che dovetti rispondere di no. Quanto lontano ci saremmo spinte per compiacere i nostri desideri e i nostri piaceri?
L'aspettavo nella sua camera, la quale era molto più piccola della mia ma aveva un non sapevo che di particolare. Aveva le pareti verdi e un letto singolo contro il muro. Una porta finestra che accedeva sul balcone che dava sulla strada e una scrivania su cui studiare proprio accanto al suo letto; per quanto riguardava l'armadio, invece, era un enorme mobile di legno sulla parete opposta al letto.
«Ti piace la mia camera?» Mi chiese una volta che finì di farsi la doccia. Aveva un enorme maglietta addosso che le faceva da vestito e i capelli neri e bagnati che le ricadevano sul seno.
Distolsi lo sguardo, tornando a guardare la sua parete. «Oh, ehm... sì.»
Noora si avvicinò.
Non sapevo resisterle quando eravamo completamente da sole e avevamo la possibilità di fare qualsiasi cosa volessimo senza essere beccate.
Mi accarezzò la guancia. «Vorrei fare quello che vuoi fare tu per tutto il resto della giornata, ma sai bene che non è possibile.»
Annuii. Volevo assicurarle che non era nei miei piani, ma chi volevo prendere in giro? Volevo fare l'amore con lei fino all'alba e fino all'alba successiva, all'infinito, ma aveva ragione. Eravamo lì per sua madre, per farle un regalo e per presentarmi.
Ci impiegammo tutto il pomeriggio per preparare ogni cosa al meglio, seguendo le ricette di uno dei tanti libri di cucina che sua madre possedeva. Noora se la cavava abbastanza bene in cucina, tra i fornelli e gli utensili, e poi c'ero io che passavo piatti, mescolavo cose e attendevo che Noora mi facesse fare cose abbastanza semplici come aprire il forno e chiuderlo.
Il tavolo rotondo della cucina - che venne apparecchiato da me - si riempì all'improvviso di salsicce cucinate al vino, di baguette comprate il giorno prima da Noora ma che erano ancora buone, acqua fresca e delle patate al forno. Cucinammo perfino il dolce (richiese molto più tempo, questo) ma non avevamo coraggio ad assaggiarlo. L'aspetto non era male ma il sapore doveva esserlo.
Appena sentimmo suonare alla porta, ci precipitammo ad aprirla. Noora accolse sua madre con un caloroso saluto e un caloroso abbraccio.
Sua madre - che, dalle foto che mi aveva fatto vedere Noora, non era cambiata affatto - rimase quasi stupita dall'atteggiamento di sua figlia. Posò gli occhi spalancati su di me, come per chiedere spiegazioni. Una volta che si staccò, posò una mano sulla mia spalla e fece pressione su di essa, con un sorriso felice ma allo stesso tempo teso. «Lei è Anaïs.» Mi presentò.
Allungai una mano verso quella di sua madre.
La strinse volentieri con un sorriso gratificante.
«È la mia ragazza.» Continuò, con quel suo tono superficiale ed innocuo che usava quando doveva parlare di cose importanti ma non voleva evidenziarne l'importanza.
Corsi a guardarla, tesa quanto una corda di un violino.
«E mi ha aiutata a preparare la cena.»
Sua madre scattò a guardare Noora, poi me, ampliando quelle labbra. Non mi aspettavo una reazione del genere. «Sono davvero contenta di conoscerti, finalmente. Noora mi ha parlato così tanto di te!» Esclamò. Era bella anche lei, come sua figlia. Non mi stupii che fossero effettivamente madre e figlia.
La facemmo accomodare a tavola, lasciando che giudicasse i nostri piatti su una scala da 1 a 10. Ovviamente ebbe pietà di noi, e giudicò il tutto con un bell'8, ad eccezione del dolce che ebbe un 6 tondo. Parlammo di me, di Noora, di noi, della scuola, delle nostre giornate tipiche, cosa facevamo nel tempo libero, del meteo, a quanto Noora le volesse bene e a quanto lo scopo di quella cena era proprio quello.
Io e Noora non menzionammo il fatto che avessimo fatto sesso sul divano poco prima e che avessi avuto voglia di rifarlo nella sua camera da letto, oppure quando l'avevamo fatto nella casa in campagna di Davis prima che tutto si sconvolgesse, o che l'avevamo fatto in casa mia, nel mio letto, mentre mia zia e mio zio erano in salotto, due piani sotto di noi.
Erano cose private, pensai, e come tali non potevano essere rivelate a chiunque. Erano come dei piccoli segreti che per me valevano il mondo, segreti che avrei sempre custodito nel mio cuore perché l'avevo amata tanto, in un modo indescrivibile e senza quasi far rumore.
Quando dovemmo sparecchiare, Noora ebbe l'urgenza di andare in bagno. Sua madre la lasciò andare, iniziando a pulire da sola tutti i piatti che io e Noora avevamo usato.
Mi sentii inutile a starmene seduta a guardare sua madre mentre lavava il casino che avevamo combinato io e Noora.
«Le serve una mano?» Chiesi.
Sua madre si voltò e mi sorrise. Aveva lo stesso sorriso di Noora. «No, cara, non devi preoccuparti.» Secondi dopo, sembrò aver voglia di parlare. «Deve piacerti davvero tanto Noora.»
Abbassai lo sguardo. Fui fortunata ad averla di spalle perché ero certa di essere arrossita. Non mi sarei mai immaginata di avere questa conversazione con sua madre. «È così.» Affermai, con voce piccola.
«Lei ti ama davvero tanto. Devi vedere come parla di te.» Sembrò sorridere. «Non l'ho mai vista così felice in tutta la sua vita.»
Sorrisi anch'io. Ero felice di saperlo. «Noora è una persona davvero genuina e mi sento fortunata ad averla incontrata.»
«Anche lei è fortunata ad avere te. Tutti a scuola sembrano avercela con voi.»
Serrai le labbra. Noora doveva averle raccontato proprio tutto. «Non sembrano molto... aperti a noi.» Le risposi, giocherellando con le mani.
Sua madre si sciacquò le mani e le asciugò. Poi, con un sorriso e con un certo senso materno, venne verso di me, si sedette accanto a me e mi prese le mani. Nessuna donna, prima di lei, mi aveva mai toccata così direttamente. I suoi occhi nocciola sembravano risplendere sotto la luce artificiale della lampada all'angolo della cucina. Mi sentii a mio agio, nonostante non sapessi cosa stesse succedendo. «Noora mi ha raccontato di tua madre e mi dispiace davvero tanto per la sua situazione.» Fece una pausa. «Ma tu vivi con i tuoi zii e ti assicuro che Noora è innamorata della tua casa.»
Sorrisi quasi imbarazzata. Sapevo benissimo il vero motivo per il quale era innamorata della mia casa, ma ovviamente tenni per me quel pensiero.
«Tua madre non può parlare, ma ti assicuro che, se ne avesse la possibilità, ti direbbe la stessa cosa che ho detto a Noora anni fa.» Sussurrò. «Non cercare mai di dare spiegazioni a qualcuno che non capirà mai. Sii chiunque tu voglia essere, se ti fa stare bene.» Mi accarezzò il palmo della mano. «Tu e Noora avete qualcosa che gli altri non hanno e che nessuno avrà mai: il legame che i vostri occhi hanno. Ovunque sarete, con chiunque sarete, sarete capaci di trovarvi, perché questi.» E indicò debolmente i miei occhi. «Ricorderanno sempre dove sono stati felici.»
Rimasi a guardarla, ad analizzare il suo sorriso dolce. Nessuno mi aveva mai fatto un discorso del genere. Neanche io a me stessa. Gliene fui grata. Mi sentii più speciale, ora. Più leggera e rilassata. «G-Grazie.»
Mi accarezzò una guancia e, in un attimo, sembrò come se quelle parole fossero uscite dalla bocca di mia madre, come un segno che lei c'era ancora, che dopotutto non ero da sola.
«Che cosa vi state dicendo?» Chiese con aria curiosa Noora, una volta rientrata dal bagno.
Sua madre scosse la testa e, alzandosi dalla sedia, tornò al suo lavoro.
Io, invece, avvertii Noora che mia zia stava arrivando.
Ci incamminammo alla porta.
«Spero che la cena ti sia piaciuta.» Bisbigliò, accarezzandomi i capelli.
Annuii, poggiando la mia fronte sulla sua spalla. «Mi piaci davvero tanto, lo sai?» Bisbigliai di rimando, sulla soglia della porta aperta.
Noora annuì. «Anche tu mi piaci tanto, Anaïs.»
Mi bagnai le labbra. «Non voglio essere etichetta.» Dissi, poi. «Non vorrò mai esserlo. Per la mia sessualità, per il mio lavoro, per il mio stile alimentare.» Deglutii. «Voglio sentirmi libera di essere e fare ciò che voglio senza dover scrivere sul mio curriculum sociale chi io sia realmente, perché sono dell'idea che non saremo mai capaci di spiegare tutto ciò che c'è intorno all'essere umano.» Le circondai il collo con le braccia, sperando mi capisse. «Voglio essere libera di amare chiunque io voglia, anche se sarò sempre capace di amare solo e soltanto te.»
«D'accordo.» Disse soltanto lei, con quel suo sorriso che mi faceva sentire sempre al sicuro.
La baciai io, stavolta, cosa che accadeva raramente durante i nostri momenti insieme.
Lasciai che la mia lingua toccasse la sua, che la sua altezza fosse la mia unica priorità per potermi alzare sulle punte e diminuire ancora di più la distanza tra la mia bocca e la sua.
C'erano mondi e mondi, lì fuori, ne ero certa. Lo spazio era soltanto un'illusione creata per renderci più piccoli di quanto non lo fossimo già. Realizzai che nessuna delle due, in realtà, era un Sole, che entrambe, ed inconsciamente, eravamo soltanto due dei tanti e innocui e inutili pianeti che ruotavano intorno ad un mondo che non ci apparteneva. Lei non era mia ed io non ero sua. Ci eravamo incontrate solo per caso. Ci saremmo perse, ci saremmo ritrovate, per poi riperderci ancora; perché così i pianeti fanno: girano per creare un cerchio completo e poi tornano a girare ancora, all'infinito, senza mai fermarsi all'obiettivo stabilito.
Io ero una dei tanti per Noora e Noora era una dei tanti per me. Non contai, anni dopo, quante altre persone c'erano state dopo di lei, non contai quante mani io avessi toccato, quanti corpi avessi visto, quante parole avessi consumato. Noora rimaneva la più importante, perché mi aveva insegnato cose che le altre persone, a lungo andare, non mi avrebbero neanche accennato. E continuavo ad amarla sempre di più, anche quando ero sdraiata di fianco a qualcun altro e avevo la testa da un'altra parte. Perfino quando ero così lontana da Bordeaux da potermi dimenticare del passato. Continuavo a pormi delle domande la quale risposta era ancora ignota: che cosa sarebbe successo se Davis non mi avesse rubato quel ritratto di mia madre in cortile, quel giorno? Noora avrebbe comunque avuto il coraggio di parlarmi? Che cosa sarebbe successo se Davis e Louis non si fossero messi in mezzo - seppure per poco tempo - rafforzando così il rapporto che c'era tra me e Noora?
Quella sera, quindi, quel bacio valse molto per me, per lei, per tutto ciò che ci ruotava intorno.
Non appena zia Félicité si presentò davanti casa di Noora, con i fari accesi che rispecchiavano la debbia di quel giorno, senza suonare il clacson, decisi che era il momento giusto per indietreggiare e mettere fine a quel bacio che mai avrei dimenticato.
«Devo andare.» Dissi, allora.
Noora sapeva già cosa sarebbe accaduto dentro quell'auto. «Chiamami, okay?»
Annuii.
Mi incamminai verso la macchina, aprii la portiera e mi lasciai scivolare sul sedile.
Mia zia non sembrò per niente scioccata, anzi: restò a guardarmi per cercare la risposta da sola.
Guardai per l'ultima volta Noora dal finestrino dell'auto - quasi appannato - e sorrisi. Sorrisi perché ero finalmente felice di essere al mondo, che non c'era niente che potesse farmi tornare l'Anaïs che ero prima. Perché dopo di Noora, non fui più la stessa. Allora, con tutto il coraggio che avevo, con quel batticuore che mi stava annebbiando ogni cosa, con ogni muscolo teso, dissi semplicemente: «Succede.» e bastò questa piccola e insignificante parola a far tacere la curiosità di mia zia e farla tornare a guidare verso casa.

Fine.

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