Un bacio al tramonto

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Sono già tre giorni che sono tornata a scuola e, oggi, per la prima volta, non sarà mio padre ad accompagnarmi. Mi guardo allo specchio e noto felicemente che i lividi attorno al naso e agli occhi, si stanno attenuando. Passo velocemente il mascara sulle ciglia,aggiusto la camicetta turchese, facendo attenzione di infilarla bene nei jeans chiari e, dopo aver messo le converse bianche ai piedi,afferro l'eastpack e scendo in cucina.

«Buongiorno, tesoro» mi saluta mia madre.

«Ciao mamma, ciao papà» dico, prendendo la mia solita manciata di mandorle.

«Sei proprio sicura che non vuoi che ti accompagni io?» mi chiede l'uomo dinnanzi a me, fissandomi con i suoi grandi occhi verdi: quasi mi dispiace andare a scuola con Gabriele e Claudia, ma oramai saranno qui tra pochi minuti.

«No, papà, grazie» dico, avvicinandomi a lui e schioccandogli un bacio sulla guancia. Uno sguardo complice s'insinua tra i miei genitori, come a voler dire 'sta crescendo.'

«Domani, se vuoi, mi accompagni tu, va bene?» gli chiedo, guadagnandomi un sorriso ben tirato.

Sento il telefono squillare, lo prendo dalla tasca dei jeans e leggo il nome di Claudia. Scorro la linea verso destra e, portandomi l'apparecchio all'orecchio, domando:

«Siete qui sotto?»

«Buongiorno anche a te, Iris. Sì, siamo sotto casa tua» risponde la mia amica, ridacchiando. Chiudo la chiamata e, dopo aver salutato i miei genitori, scendo giù per le scale, evitando accuratamente di cadere di nuovo e fratturarmi il setto nasale.

Quando apro il cancello, vi trovo parcheggiati Gabriele e Claudia: la seconda scende e mi passa subito la bustina bianca, mi abbraccia e torna a prendere il suo posto sul sedile dietro. Io, quasi imbarazzata, salgo auto, prendendo posto nel sedile anteriore, dal lato passeggero.

«Sei dovuta arrivare te per farmi accompagnare a scuola da mio fratello» dice la ragazza, prendendo in giro il suo consanguineo. Il ragazzo,in tutta risposta, le rivolge una linguaccia prima di voltarsi verso di me e incantarmi con il meraviglioso colore dei suoi occhi.

«Buongiorno, piccola» mi sussurra Gabriele, lasciandomi un dolce bacio sulle labbra. Questa mattina non mi aveva ancora mandato nessun messaggio e, stupidamente, pur sapendo che l'avrei visto di lì a poco, ci rimasi male per non aver letto il suo nome sul display. Non pensavo che qualcuno potesse farti star bene con un solo messaggio: mai avrei pensato di sentire la mancanza di un semplice e scontato gesto come questo. Anzi, non pensavo di poter sentire la mancanza di qualcuno, a parte quella di Sebastian.

«Niente smancerie per favore. Vi ricordo che siete comunque mio fratello e lamia migliore amica» dice Claudia, facendo una finta smorfia di disgusto.

«Dovrai farci l'abitudine, sorellina» la canzona Gabriele, per poi lasciarsi sfuggire una lieve risatina da quelle labbra che sembrano disegnate.Io e Claudia ridiamo insieme a lui e, finalmente, ci avviamo a scuola.

Il conducente posa la sua mano sulla mia e non la lascia per tutto il tragitto: se c'è bisogno di cambiare marcia, porta la mia mano con se. Arrivati davanti scuola, il rombo della sua auto attira tutti gli sguardi su di noi e questo non fa altro che alimentare il mio disagio: ogni qualvolta che qualcuno mi fissa, non posso far a meno di pensare a tutte quelle volte in cui mi rivolgevano insulti e, alcuni, persino minacce. Già: dopo che Sebastian mi sorprese in bagno a rigettare, furibondo come non mai, mi urlò di smetterla di procurarmi il vomito. Quando notai i suoi occhi iniettati di sangue, m'impaurii e dispiacei al tempo stesso: lo avevo deluso e, per qualche motivo, a me chiaro solo oggi, mi dispiaceva. Mi dispiaceva vederlo tremolante, arrabbiato, schifato. Ma, appena i miei occhi guizzarono alle sue spalle, il dispiacere si tramutò in terribile paura: il caso volle che, a passare di li, furono proprio Greta e Miriam, le peggiori arpie della scuola. Loro sapevano il mio segreto e non avrebbero di certo esitato a distruggermi la vita. Sapevo benissimo che tipo fosse Greta e sapevo anche della gelosia che provava nei miei confronti, anche se non ne capivo il motivo. Di lì a poco, tutta la scuola venne a sapere della mia bulimia, compreso il preside che, allarmato, avvisò mio padre e mia madre: entrambi vennero a prendermi a scuola, immediatamente, e mi portarono via. Mancai per alcuni mesi e tornai al liceo solo al terzo anno inoltrato. Teresa e Massimo reputarono opportuno inserirmi in un centro di riabilitazione: loro non capivano quanto era stato difficile per me sopportare anni e anni di insulti, guardarsi allo specchio e vedersi perennemente grassa. Loro non sapevano il male che provavo appena riprendevo un solo etto, loro non sapevano degli allenamenti notturni, delle grandi abbuffate poi rigettate di nascosto. Loro non sapevano cosa volesse dire sentirsi perennemente uno sbaglio. Perché è questo ciò che mi ripetevo in continuazione: io sono un errore e gli errori devono migliorare, oppure essere fatti fuori e, in un certo senso, pensando di migliorare, non stavo facendo altro che uccidermi. Fui ricoverata per undici mesi e venti giorni: undici mesi e venti giorni in cui non ho avuto visite ne dai miei genitori né da Claudia; undici mesi e venti giorni di terapie, sedute collettive dove poter esporre il proprio problema con persone simili a te. Sedute singolari con psicologi e psichiatri, alimentaristi, medici. Undici mesi e venti giorni passati in totale solitudine: mentre gli altri pazienti interagivano tra loro, io volevo solo rimanere sola e cercare una via di fuga. Undici mesi e venti giorni: questo è il tempo che mi è servito per combattere la parte malata di me.

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