22.

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/La verità non può essere nascosta. Più cerchi di tenerla per te, più questa, prima o poi verrà fuori./

Uscii dalla camera e attraverai il corridoio. Buttai l'occhio sulla stanza di Harry, ma vidi che la porta era chiusa.
Pensai che forse stava ancora dormendo, così scesi le scale e raggiunsi il salone.
Afferrai la cartellina dal divano. La aprii, prendendo successivamente dei fogli su cui avrei disegnato i completi.
Deglutii e mi resi conto di avere la gola secca. Mi diressi verso il frigo, presi una bottiglia d'acqua e un bicchiere. Versai l'acqua e ne bevvi un longo sorso, per poi tornare al mio lavoro. Il tempo quel giorno era bellissimo: il sole splendeva, il cielo era limpido e un leggero vento fresco accarezzava le foglie degli alberi. Non amavo molto il bel tempo, preferivo la pioggia e la neve... ma quel giorno era diverso. Per fortuna alle cinque ero riuscita a prendere sonno e ad addormentarmi.
Guardai il foglio e iniziai a disegnare una piccola bozza. Ma più disegnavo le curve del completo più mi tornava in mente il giorno prima. Mi tornava in mente lui, noi. La nostra litigata, lui che beveva troppo, Simon che ci controllava dalla finestra, la sigaretta che veniva pistata dalla mia scarpa, il modo in cui Harry si era preoccupato per me, il modo in cui mi guardava, le emozioni che sentivo nel petto...
Per pochi secondi avevo dimenticato cosa era successo prima che quei sintomi strani tornassero. Stavo per dirglielo, stavo per dirgli quello che provavo...
Di scatto chiusi gli occhi e respirai profondamente. Mi imposi di concentrarmi sul lavoro e tornai a guardare il foglio.
Ma non potevo far finta di niente, non potevo nascondere a me stessa tutte le emozioni che avevo provato il giorno prima. Forse Neil aveva ragione, forse stavo negando l'evidenza a me stessa.
Forse avevo paura.

All'improvviso sentii un rumore provenire dal piano superiore, sembrava quello di una porta che veniva aperta.
Di scatto mi alzai e andai verso le scale.
«Harry, sei tu?» alzai il tono della voce.
La porta fece un altro rumore, come se qualcuno l'avesse chiusa. Per lo spavento sussultai e la matita mi scivolò di mano, cadendo a terra. Farfugliai qualcosa di incomprensibile, velocemente mi inginocchiai e la raccolsi.

Poi sentii dei passi scendere le scale, i passi erano pesanti, così pensanti che ebbi quasi la sensazione di aver sentito il pavimento tremare sotto i piedi.
«Sicura di non essere mai stata ad un mio concerto?» pronunciò una voce familiare.

Alzai lo sguardo e vidi Harry che scendeva le scale. «No, te l'ho detto milioni di volte.»
Il suo sguardo non mi convinceva, era strano, la sua domanda era strana, il suo comportamento era strano.
Sembrava arrabbiato, mi faceva quasi paura. «Perché me lo chiedi?» gli domandai accennando un sorriso.

Harry scese altri tre scalini, avvicinandosi di più a me. «Allora questa cos'è?» mi chiese, poi mi mostrò un pezzo di carta. Guardai meglio e mi resi conto che non era un pezzo di carta, ma una fotografia. La mia fotografia. «Perché ieri, dopo essere tornati a casa, e dopo essermi preoccupato per te per tutta la notte, mi sono addormentato sul divano. Questa mattina, quando sono andato in bagno per fare la solita doccia mattutina, ho visto questa foto a terra. Non sapevo di chi fosse, così l'ho raccolta e l'ho guardata molto attentamente. Be', la ragazza che c'è nella foto è stata ad un mio concerto e non potevo credere che quella ragazza somigliasse moltissimo a te. Poi sono andato in camera mia, ho chiuso la porta e ho fissato la foto per ore, cercando di trovare una spiegazione plausibile a tutte le domande che mi frullavano e che mi frullano tutt'ora nella testa. Ma credo proprio che dovrai essere tu a darmi una spiegazione plausibile, ora.»
Non sembrava lo stesso Harry di giorni precedenti. Il corpo era rigido, la mano con cui teneva la foto tremava, non sembrava lucido. Gli occhi gonfi e sbarrati, forse aveva pianto per ore ed era solo colpa mia.
«Perché questa sei tu Emily!» alzò la voce e indicò la ragazza nella foto.

Scossi la testa. «Q-quella non sono io...» ansimai e indietreggiai.
Ero instabile e non andava per niente bene.

Lui ridacchiò. «Allora la ragazza che c'è nella foto chi è? Una tua sosia o... non so, qualcuno che ti assomiglia così tanto da riuscire a confondermi? Eh?» osservò la foto che aveva in mano, poi me. Mi guardò negli occhi, come se nel mio sguardo potesse trovare le risposte alle domande che sicurente in quel momento gli stavano martellando il cervello. «Emily, io da quel giorno non ti ho mai dimenticata.» deglutì e avanzò ancora verso di me. Io non mossi un muscolo, ero pietrificata. «Perché non me lo hai detto? Perché mi hai mentito?»

Devi dirglielo Emily.

«Te l'ho detto, quella non sono io.»
No, non stava accadendo. Era un sogno. Solo un bruttissimo sogno. Dovevo svegliarmi.

Diglielo.

«Hai la minima idea di quanto io ti abbia cercata in questi anni? Ti pensavo ogni giorno. Ogni giorno continuavo a pensare a te e non riuscivo a smettere. Speravo che un giorno saresti tornata ad uno dei miei concerti, ma sapevo anche che non ci saremo più rivisti. E poi, quel giorno al bar, dopo cinque anni, ti ho rincontrata e...»
Era sbagliato, era tutto maledettamente sbagliato.

Diglielo.

«Quella ragazza non sono io, Harry!» alzai la voce e lui aggrottò la fronte. Era confuso, lo capivo. Ma non potevo dirglielo, mi sarei pentita. Non sapevo cosa fare, dove guarda, cosa dire. Non lo sopportavo. La voce nella mia testa continua a martellarmi. Mi ordinava di dire ad Harry la verità.
«Perché non riesci a capirlo?»

«Avresti dovuto sprecare pochissime parole per dirmi che eri stata presente ad un mio concerto, Emily. Non capisco perché tu mi abbia mentito e non capisco neanche perché porti al tuo seguito questa foto ma...»

Mi avvicinai a lui e lo guardai dritto negli occhi, per poi abbassare lo sguardo e indicare la ragazza nella foto.
«Te lo sto dicendo. Quella non sono io Harry e ti ho detto la verità, ti sto dicendo la verità. Non sono mai venuta ad un tuo concerto. Mai

Le rughe che si erano formate sulla fronte di Harry diventarono ancor più evidenti. Era arrabbiato. Poi iniziò a urlare: «Allora chi diav...»

DIGLIELO!

Di scatto alzai la testa e lo guardai. Non c'è la facevo più, così iniziai a strillare: «Era mia sorella gemella, si chiamava Eva. È morta, cinque anni fa, dopo il concerto che feci a Parigi in quell'anno. Archiviarono il caso per assenza di prove. Le spararono al cuore, a distanza ravvicinata e quel bastardo che la lasciò a morire sul ciglio della strada, non si disturbò neanche a degnarle la morte che meritava.» poi indicai la foto. «Quella non ero io, ma lei. E l'unica cosa che ci distingueva l'una dall'altra erano gli occhi; lei li aveva azzurri, io li ho marroni!» poi iniziai ad ansimare e a ripensare a quel giorno. Al giorno in cui Eva morì. Alla notte in cui sentii quella fitta al cuore, nel momento in cui capii subito che le era successo qualcosa. «Quel giorno sarei dovuta andare io al posto suo, ma mio padre non me lo permise e così ci andrò lei. Se lei non fosse andata, lei non sarebbe morta. Sono stata io ad ucciderla!»
Lo sguardo di Harry era confuso, perso nel vuoto. Sbrava anche dispiaciuto per aver insistito. Sentii mille sensazioni nel mio petto. L'odio, la sofferenza, la frustrazione, la rabbia.
«Era questo che volevi sentire?» gli domandai, dopo interminabili minuti di silenzio. «Sei contento di averlo scoperto? Eh?»

Il respiro di Harry diventò più affannoso ed iniziò ad ansimare anche lui. «I-io non...»

«No, non ti azzardare a parlare.»

«Emily...»

«Sta zitto Harry!» continuai ad urlare. Lo odiavo, non lo sopportavo. Non riuscivo neanche a guardarlo in faccia.
Poi raggiunsi la mia cartellina, presi tutti i fogli, li buttai tutti dentro tra le due fessure di plastica e uscii di casa, sbattendo la porta.
Lasciai Harry inpiedi sul quinto gradino di casa sua, con ancora la foto di mia sorella in mano. Sì, ero arrabbiata con lui perché aveva insistito e non avrebbe dovuto farlo. Non mi piaceva parlare né di mia sorella né di alcuni momenti del mio passato e questo ne era stata la prova.
Uscii dal cancelletto e svoltai a destra. Il mio respiro non stava tornando alla normalità e iniziai a preoccuparmi. Perché non tornava normale? Forse ero troppo agitata e il mio corpo stava solo reagendo.
Non mi importava della gente che mi avrebbe vista in quello stato. Anche se non stavo piangendo, sentivo che la mia espressione non era delle migliori.
«Mi odia. Lui mi odia.» fu l'unica cosa che riuscii a farfugliare durando il percorso. Sentivo dentro di me l'odio che Harry stava provando nei miei confronti.
Non gli avevo detto nulla di Eva, anzi, avevo fatto finta di essere figlia unica, che lei non esistesse, solo per proteggere il segreto della sua morte perché per me era troppo doloroso sia da ricordare che da raccontare. Tutti teniamo nascosti dei segreti per una ragione. Io non volevo che gli altri provassero compassione per me - per aver perso una sorella e una parte di me - io volevo solo essere capita.

Salii sul primo taxi che mi capitò davanti. Sistemai la cartellina accanto a me e dissi al tassista di portarmi all'aeroporto il più in fretta possibile. In qualche modo sarei riuscita a recapitare un biglietto di sola andata per Parigi. Non sapevo cosa avesse pensato Harry di me. Non sapevo se sarebbe venuto a cercarmi, ma in quel momento non mi importava niente di quello che pensava.
Avevo bisogno di rivederla.
Rivedere la sua tomba.

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