«Non pensare a lui.» ripetei per la decima volta. «Sicuramente Harry si sarà già dimenticato della tua esistenza. Tornerà tutto normale: andrai a lavoro, non racconterai nulla a Loretta di quello che è successo e tutto tornerà come prima, tranquilla.»
Non mi capitava spesso di parlare da sola, ma credevo che dopo tutto quello che era successo alla festa di beneficenza, parlare da sola fosse l'unico modo che avevo per superare tutto quanto, per restare lucida e non commettere alcun errore.
Da quando mi ero svegliata, quella mattina, continuavo a chiedermi se Simon avrebbe raccontato ad Harry tutta la mia vita. Avrebbe potuto farlo, come non avrebbe potuto... ma ero confusa.
Non sapevo cosa pensare.
Tutto quello che era accaduto era stato strano. Non riesco ancora a capire come Simon abbia potuto scavare nel mio passato. Ero una stilista, creavo vestiti, non ero una pazza omicida. Cosa credeva, che avessi un coltellino infilato tra i capelli e che da un momento all'altro avrei pugnalato Harry davanti a tutti?
Harry.
La persona che nella mia adolescenza aveva significato tutto, ora, che erano passati cinque anni, non significava più niente.

Afferrai il bicchiere di carta pieno di caffè dal tavolo della cucina e uscii di casa. Quella notte non avevo dormito molto, l'emicrania non mi dava tregua. Non sapevo cosa fare, così avevo preparato del caffè che avrei bevuto durante il viaggio in ufficio.
Nell'auto, ne bevi un lungo sorso, sperando che l'effetto della caffeina si sarebbe fatto sentire presto. Poi posai il bicchiere di cartone sul sedile accanto al mio.
Stavo per far partire la macchina, quando sentii il telefono squillare. Lo presi in mano in mano e risposi.
«Pronto?»

«Emily...» sussurrò una voce femminile.
Mia madre.

«Che cosa vuoi?»

«Ti prego non trattarmi così. Non avercela con me, sai che non avevo scelta.»
La sua voce non era cambiata affatto, mi fece rabbrividire sentire le sue parole attraversarmi il timpano.

«Si che avevi scelta. Avresti potuto fermarlo, denunciarlo... ma l'unica cosa che riuscivi a fare era restare a guardare. Guardare mentre lui continua a farmi del male.» alzai la voce. «e non scusarti, le tue inutili scuse non cambieranno quello che lui ha fatto. Non faranno scomparire le cicatrici che mi ha lasciato...»

«L-lui voleva solo che tu capissi, lo stava facendo per te.»

«Capire cosa? Che mi odiavate a morte?» le chiesi e lei restò in silenzio. «Hai la minima idea di quanto io soffrisi? Di quanto piagessi la notte? Di quanto odiassi me stessa perché non riuscivo a rendervi fieri? E questo... è accaduto per il vostro odio e disprezzo nei miei confronti, mamma.»

«Io non ti disprezzavo...»

«"Ti ho odiata dal primo momento in cui ho saputo di essere incinta", ti ricorda qualcosa?» le ricordai. «Quelle parole uscirono dalla tua bocca, mentre quell'uomo, che non si merita neanche di essere chiamato "padre", mi picchiava come se niente fosse. Come se per lui fosse tutto normale... te ne rendi conto?»
Non provavo disprezzo nei suoi confronti, anzi, provavo pena... perché era l'unica cose che i miei genitori si meritavano da parte mia.

«Mi dispiace...»

«Dispiacerti non servirà a niente. Ora devo andare a lavoro e non chiamare mai più. Non voglio perdere tempo con persone come e te e l'uomo che hai sposato.»

«Quindi, hai continuato gli studi...»

«Mi pento di non avervi denunciati quando ne avevo l'occasione.» e conclusi la conversazione. Non parlavo con mia madre da due anni interi. Perché avrebbe dovuto dispiacersi dopo tutto quello che lei e mio padre mi avevano fatto?
Spensi il telefono e lo posai nella borsa, per evitare che qualcun altro mi chiamasse durante il tragitto. Bevvi un altro sorso di caffè, misi in moto l'auto e partii.
Mentre guidavo, non riuscivo a non pensare alla chiamata di mia madre. Non mi sarei mai pentita delle parole che le avevo detto, se le meritava, ma non riuscivo a capire la motivazione di quella chiamata.
Perché dopo due anni?
Lei non sapeva che avevo finito gli studi e che avevo trovato un lavoro e non l'avrebbe mai scoperto. Non da me, almeno.

Quando vidi l'ora, premetti ancor di più il piede sull'acceleratore, ma facendolo il caffè che era poggiato sul sedile accanto, cadde.
«Maledetto caffè.» maledii quel bicchiere di carta, mia madre e tutte le persone che mi passavano per la testa. «Dai Emily, puoi farcela. Riuscirai a superare anche questa giornata.» cercai di farmi coraggio, ma sapevo che ogni tentativo sarebbe stato vano. Quella giornata avrebbe fatto schifo, come molte altre.

Poi, un flash mi attraversò la mente. Avevo dimenticato dei fogli sul divano, il giorno prima ci stavo lavorando e li avevo lasciati lì per tutta la notte.
Dicisi di accostare. Avrei raggiunto casa a piedi, avevo percorso solo tre isolati, impiegando pochissimo tempo.
Con il piede premetti il freno, ma la macchina non accennava a fermarsi. Lo premetti più e più volte, ma la macchina non voleva collaborare.
Mi prese il panico. La scarpa era premuta il più possibile sul freno mentre il mio sguardo era puntato sulla strada. Volevo evitare che qualcuno si facesse male. Ero diventata un pericolo pubblico in meno di cinque minuti e questo non mi rendeva per niente facile. Doveva pur esserci un modo per fermare l'auto, ma l'unico modo erano i freni. Freni che non rispondevano ai miei comandi.
E poi, accadde.
L'auto iniziò a sbandare, avevo perso il controllo.
Mi guardai intorno, per essere sicura che non ci fosse nessuno.
Il mio respiro era accelerato.
Non avevo la minima idea di cosa fare. Non capivo cosa fosse successo alla mia auto.
E poi, colpì qualcosa, qualcosa di grosso. Ero sicura che non si trattasse di una persona.
Non riuscivo a muovermi, ero come incastrata. La mia testa era poggiata sul volante. Un rumore forte e acuto non voleva uscire dalla mia testa. Volevo alzare la testa per vedere se la mia auto fosse ancora in buone condizioni, ma non potevo muovermi e la mia vista era offuscata. Sembrava che il mio corpo avesse avuto una paralisi momentanea.

Ripensai a tutto quello che era successo nella mia vita. Nella mia adolescenza e a tutto quello che era successo in quei giorni: avevo incontrato Harry, avevo disegnato un vestito apposta per lui e mi aveva invitato alla sua festa di beneficenza.
Io sapevo perché lo aveva fatto, ed era sbagliato.

All'improvviso sentii un altro suono, era lontano, ma sentivo che si stava avvicinando. L'ambulanza.
Ma prima che potessero raggiungermi, svenni.

***

A fatica riuscii ad aprire le palpebre. Non sapevo dove mi trovassi. Sapevo solo che la cosa su cui ero sdraiata continuava a traballante. Deglutii e mi guardai intorno. Una luce era puntata sulla mia faccia. Il braccio mi faceva male e il mio respiro non era dei migliori. Mi mossi, ma in quel momento mi resi conto di avere provato dolore su tutto il corpo.
«Non muoverti, forse hai delle costole rotte.» disse qualcuno accanto a me.
Guardai il ragazzo è capii subito che era un infermiere. «Tranquilla, ti stiamo portando in ospedale.»

Tirai indietro la testa. «Non mi sento bene. Mi sento stanca...»

Lui sorrise. «È un miracolo che te la sia cavata con delle costole rotte e forse, con una lussazione alla spalla.»

Spalancai gli occhi. «Lussazione? Ma io non sento dolore. Oddio, non dirmi che il braccio mi è schizzato via.»

«Ti abbiamo somministrato dei tranquillanti, quando ti hanno tirata fuori dall'auto stavi urlando per il dolore.» spiegò lui.
L'auto!

«M-ma l'auto è ancora intera, vero?»

«Temo di no.» rispose l'infermiere, mentre cercava qualcosa dentro la tasca del camice. «Per fortuna sei andata contro un albero, se fossi andata contro il muro che circondava la casa di fronte, avresti riportato lesioni molto più gravi e la spalla ti sarebbe davvero schizzata via.»
Poi, da quel piccolo taschino, prese una piccola torcia e la puntò contro i miei occhi.

Socchiusi le palpebre e non dissi una parola.
Poi mi resi conto che non ero io che stavo chiudendo gli occhi. Era come se questi ultimi si stessero chiudendo da soli.
«I-io devo... devo...» farfugliai. Non capivo cosa stesse succedendo. Le mie palpebre volevano chiudersi ed io non riuscivo a fermarle.

«Phillip, devi accelerate, ora. Sta per svenire.» gridò l'infermiere, rivolgendo lo sguardo verso il collega che era alla guida dell'ambulanza.

Non appena finì di pronunciare quella frase, i miei occhi si chiusero del tutto e svenni.
Di nuovo.

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