Scacco matto

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Nella sua testa passava e ripassava sempre lo stesso pensiero: scorreva davanti ai suoi occhi e svaniva oltre il lato destro solo per ricomparire sul lato sinistro ripetendosi sempre, riproponendosi di continuo, in qualche modo pavoneggiandosi come quegli struzzi impomatati che aveva visto nello spezzone di un film su FurTube. Andava e veniva come un sottotitolo, come un messaggio in sovraimpressione con uno schermo blu sullo sfondo; in quel momento non escluse a priori la possibilità di essere definitivamente, irrimediabilmente,

finalmente

uscito di testa. Si distaccò dalla finestra dell'ufficio e si sedette pesantemente sulla sedia del sindaco, riflettendo immediatamente dopo sulla possibilità che in fondo lo era sempre stato. Possibile che il siero modificato avesse come effetto collaterale una forma di follia che obbligava a prendere il potere su una città in quel modo?

Una città che sicuramente lo meritava, ma quel pensiero aveva perso ogni efficacia. Si sentiva spaesato e nonostante la stanza insonorizzata poteva quasi sentire la baraonda che stava ruggendo nella piazza sotto di loro, ben lungi dal suo termine. Ma nonostante tutto non era pentito, quello era l'unico pensiero che sembrava essere lontano anni luce da lui: aveva fatto quello che doveva fare ed avrebbe fatto quello che doveva fare e questa consapevolezza gli donò la sua solita voce annoiata nel rispondere ai tre colpi alla porta.

"Ah, i tre moschettieri" commentò guardando con occhi neutri Judy, Jack e Nick attraversare con passo deciso e sicuro la moquette dello studio e fermarsi a qualche passo dalla sua scrivania. Non risposero alla provocazione e nello studio aleggiò un silenzio che gli permise di studiare gli intrusi; l'ex-agente Hopps lo guardava con occhi decisi, senza la minima traccia di emozione che non fosse un solenne ed impettito risentimento quasi comico nella cornice della piccola coniglietta. Lo sguardo di ghiaccio di Jack era non meno comico, ma più azzeccato secondo la reputazione che per anni aveva aleggiato attorno al suo nome.

E poi c'era Wilde: una volpe a quattro zampe che palesemente aveva visto giorni migliori, probabilmente tutti iniziati con una doccia ed una pettinata alla coda. Il suo sguardo era neutro, forte e deciso come quello di ogni predatore; Bogo lo riconobbe come lo sguardo di un animale che stava cercando di capire se aveva davanti a lui una preda o qualcosa al cui cospetto era suo dovere stare tranquillo. Jack mosse infine un passo e si schiarì la bocca.

"Sindaco Bogo..." salutò. Lui ricambiò il saluto con un lento cenno del capo.

"Posso fare qualcosa per voi?" chiese. La lepre non ruppe il contatto visivo: se fosse sorpreso, inorridito o infuriato per la domanda o per il suo tono, Bogo non lo seppe mai.

"Avete fatto un bel casino in questa città" disse. "Rioni isolati e malgestiti, unità addette alla sicurezza cittadina assolutamente inadeguate, leggi che sono nulla più che regole non scritte ed una totale assenza di qualsivoglia assistenza: io non sono un genio come poteva essere la Duecento, ma non ho alcun dubbio né vergogna a chiamare tutta questa situazione anarchia. Noi siamo venuti qui dentro a fare una cosa che l'intera città si è palesemente dimenticata di poter fare".

"E sarebbe?" commentò lui. La risposta fu data con altrettanta neutralità.

"Parlare, Bogo" replicò Jack; si avvicinò alla scrivania e si arrampicò sulla sedia davanti ad essa. "Parlare".

"Forse voleva dire trattare..." osservò il bufalo. Quel pensiero era tornato, ma questa volta lo sfondo non era blu. Lui fece una spalluccia.

"Lo possiamo chiamare come vuole" disse. "Ma che sia una chiacchierata o una trattativa, bisogna sempre parlare: è ciò che ci distingue dagli animali primitivi".

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